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2021-02-09
Per il Papa la scuola al pc è una «catastrofe»
Ansa
«È una catastrofe educativa». L'uomo che scandisce la frase sta parlando degli effetti del lockdown a colori, della psicosi sanitaria, di quel perdurante stato d'emergenza dell'anima che ancora condiziona la nostra società dopo un anno di Covid. Sarà un negazionista? Invece è il Papa. Ricevendo in udienza i rappresentanti del corpo diplomatico accreditato nella Santa Sede, Francesco ribadisce un'immagine a cui tiene parecchio, per definire il disastro di una generazione perduta, quella dei bambini confinati in casa davanti a un computer in una realtà da morbillo permanente.
«Assistiamo a una sorta di catastrofe educativa davanti alla quale non si può rimanere inerti per il bene delle future generazioni e dell'intera società», dice il Pontefice riferendosi soprattutto alla scuola. La sua critica alla Dad (la didattica a distanza, totem degli ex ministri della Salute, Roberto Speranza, dell'Istruzione, Lucia Azzolina) è precisa. Lo fa partendo dalla crisi dei rapporti umani demonizzati dai protocolli. «È l'espressione di una generale crisi antropologica che riguarda la concezione stessa della persona umana e la sua dignità trascendente. La pandemia, che ci ha costretto a lunghi mesi di isolamento e spesso di solitudine, ha fatto emergere la necessità che ogni persona ha di avere rapporti umani».
Il Vaticano che in primavera si arrese subito (e con sorpresa) alle logiche chiusuriste della scienza aumentando lo smarrimento dei cittadini, ora vede nitidamente sulla spiaggia il relitto più doloroso dopo il passaggio dello tsunami sanitario. «Penso soprattutto agli studenti», prosegue papa Francesco. «Penso a coloro che non sono potuti andare regolarmente a scuola e all'università. Ovunque si è cercato di attivare una rapida risposta attraverso le piattaforme informatiche, le quali hanno mostrato una marcata disparità di opportunità educative e tecnologiche. Inoltre, a causa del confinamento e di tante altre carenze già esistenti, molti bambini e adolescenti sono rimasti indietro nel naturale processo di sviluppo pedagogico. Infine l'aumento della didattica a distanza ha comportato una maggiore dipendenza dei bambini e degli adolescenti da Internet e in genere da forme di comunicazione virtuale, rendendoli peraltro più vulnerabili e sovraesposti alle attività criminali online».
La generazione perduta, destinata a recuperi affannosi dopo un anno di Dad, è il cuore del problema. E il grido del Papa può aiutare psicologi, educatori, genitori zittiti quando non ridicolizzati dai media asserviti al conformismo governativo-sanitario con riflessi condizionati da Vopos; i danni delle chiusure disinvolte presentate come unico rimedio all'avanzare del virus potrebbero essere irreversibili non solo per l'economia. Lockdown, una strategia rivelatasi fallimentare perché i Paesi che non hanno imposto misure draconiane (Svezia, Bielorussia, Estonia) e quelli che si sono limitati a chiudere localmente per periodi brevi (Germania, Olanda, Croazia) hanno avuto le stesse curve epidemiologiche rispetto a chi ha imposto regole drastiche come Italia, Francia, Belgio, Spagna e Gran Bretagna.
Papa Francesco non ha finito. Fa gli auguri agli italiani («che per primi in Europa si sono trovati a confrontarsi con le gravi conseguenze della pandemia»), poi torna sul tema principale. «C'è bisogno di un rinnovato impegno educativo. L'educazione è il naturale antidoto alla cultura individualistica che a volte degenera in vero e proprio culto dell'io e nel primato dell'indifferenza. Il nostro futuro non può essere la divisione, l'impoverimento delle facoltà di pensiero e d'immaginazione, di ascolto, di dialogo e di mutua comprensione».
Le parole del Papa, tese a individuare e a indicare i danni del «dopo epidemia», sono molto importanti perché possono scardinare il pregiudizio, smuovere l'ossessione da mascherina permanente. Nei mesi scorsi si è verificato un combinato disposto micidiale, un mix da laboratorio sociale con tre ingredienti esplosivi: la passività della mediocrazia politica davanti al virus cinese, la continua invadenza dei virologi da talk show a imporre diktat cervellotici e l'appiattimento mediatico su posizioni allarmistiche senza alcuno spirito dialettico.
A conferma dell'allarme del Pontefice sull'eccesso di Dad, arriva una ricerca dell'Unicef in collaborazione con l'università Cattolica sull'impatto della didattica a distanza sui bambini italiani. Risultato: delle 1.028 famiglie chiamate a rispondere, una su tre non è stata in grado di sostenere adeguatamente l'apprendimento a distanza durante il lockdown. Il 27% dei genitori ha detto di non possedere tecnologie adeguate, il 30% di non aver avuto tempo a sufficienza per sostenerli con la didattica a distanza, il 6% non ha potuto partecipare per mancanza di connettività e buchi nella Rete telematica. Un mezzo disastro con precise responsabilità politiche; la pretesa del governo guidato da Giuseppe Conte di applicare all'Italia metodi che potrebbero funzionare in Paesi ben più strutturati come Canada o Svizzera, è costata cara ai nostri ragazzi.
«Il vuoto come unico rimedio per tutelare la salute, la sostituzione definitiva del sociale con il social; nessun dittatore distopico avrebbe osato sognare un delitto tanto perfetto». Prima del Papa era arrivato alla stessa conclusione il mondo accademico con le sue menti più lucide. La frase è di Gianni Canova, rettore dell'università Iulm di Milano. La sua sentenza è definitiva: «Abbiamo rubato un anno di vita ai nostri ragazzi. E gli effetti disastrosi si vedranno fra venti».
Anche a Padova chiusi in cantina 84.000 euro di banchi a rotelle
Oltre 500 banchi a rotelle dimenticati, accatastati in magazzino a prender polvere. È la scoperta fatta ieri dal TgPadova Telenuovo, con un servizio che, con la forza delle immagini, ha raccontato quello che è difficile non ritenere uno spreco. Del migliaio di «sedute innovative» - così vengono chiamati i banchi mobili -, ordinati a inizio anno scolastico dalla provincia di Padova, su input del ministero guidato da Lucia Azzolina, infatti, oltre la metà, 560, son stati respinti dai dirigenti scolastici e ora giacciono accatastati nei depositi.
Considerando che ogni banco costa 150 euro, il probabile sperpero è di 84.000 euro. Non pochi visti i tempi e considerando che sono stati spesi utilizzando i fondi europei. Tanto che il vicepresidente della Provincia, Vincenzo Gottardo, interpellato sul punto non ha nascosto l'auspicio che tali banchi a rotelle possano essere presto «ricollocati», destinandoli a istituti che li richiedessero; diversamente, ha precisato Gottardo, essi finiranno probabilmente «a delle associazioni attive nel volontariato», oppure a «Paesi del mondo» in via di sviluppo.
Tradotto dal politichese: siccome nessuno se li fila, tutto ciò che si può fare con questi banchi, ormai, è evitare che finiscano al macero. Ma non sarà semplice visto e considerato che in tutto il Veneto, non solo nel Padovano, i monoposto a rotelle sono avversati. «Lo stesso Ufficio scolastico regionale», ha precisato qualche giorno fa Elena Donazzan, assessore all'istruzione della Regione Veneto, «ha diramato tempo fa una nota in cui ne sconsigliava l'uso. E quell'Ufficio è la rappresentanza territoriale del ministero».
Ciò nonostante, Lucia Azzolina ha difeso con le unghie e con i denti la scelta di far acquistare questi banchi che, a detta sua, «hanno contribuito a ridurre i contagi nelle scuole». Come faccia la Azzolina a esserne così sicura è un mistero dato che, da un lato, molti di questi banchi non sono neppure mai stati utilizzati e, dall'altro, la didattica è stata a distanza fino a poche settimane fa in gran parte delle Regioni italiane. La tesi dei monoposto - che peraltro risultano scomodi e poco stabili - come argini al Covid è quindi una tesi, lecita ma personalissima, dell'esponente del Movimento 5 stelle.
L'unica cosa sicura, tornando a noi, è lo sventurato affare legato a questi prodotti, acquistati per facilitare il distanziamento sociale durante le lezioni e costati 400 milioni di euro di soldi pubblici. Chi ha provveduto al discutibile ma massiccio ordine - ne sono stati comprati 430.000 - è stato il supercommissario Domenico Arcuri, per cui sarebbe sbagliato ascrivere alla sola Azzolina responsabilità che son pure di altri in una questione che ha oggettivamente dell'incredibile. Infatti, al di là del fatto che siano usati o, come succede a Padova, dimenticati nei magazzini, c'è il serio rischio che questi banchi non siano neppure a norma in quanto privi di attestazione Uni, l'Ente nazionale italiano di unificazione.
Così, almeno, la pensa Emidio Salvatorelli, presidente dell'azienda produttrice di arredi scolastici Vastarredo, secondo cui «tutti i prodotti per essere a norma e offrire garanzie devono avere questa certificazione. I banchi a rotelle che sono nelle scuole italiane non ce l'hanno». Riepilogando, questi monoposto son costosi, scomodi, non li vuole nessuno e non è manco detto che siano a norma. In fondo non è dunque così strano che a Padova ce ne 560 ancora imballati. La notizia è che qualcuno ancora li utilizzi.
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Il Pontefice accusa senza mezzi termini l'educazione a distanza, che ha lasciato soli gli studenti. E ha aumentato le disuguaglianze. A seppellire definitivamente il modello Azzolina ci pensa l'Unicef: «Una famiglia su tre non ha potuto seguire i figli nel lockdown».Il maxi investimento del commissario Domenico Arcuri rischia di finire nei Paesi in via di sviluppo.Lo speciale contiene due articoli.«È una catastrofe educativa». L'uomo che scandisce la frase sta parlando degli effetti del lockdown a colori, della psicosi sanitaria, di quel perdurante stato d'emergenza dell'anima che ancora condiziona la nostra società dopo un anno di Covid. Sarà un negazionista? Invece è il Papa. Ricevendo in udienza i rappresentanti del corpo diplomatico accreditato nella Santa Sede, Francesco ribadisce un'immagine a cui tiene parecchio, per definire il disastro di una generazione perduta, quella dei bambini confinati in casa davanti a un computer in una realtà da morbillo permanente.«Assistiamo a una sorta di catastrofe educativa davanti alla quale non si può rimanere inerti per il bene delle future generazioni e dell'intera società», dice il Pontefice riferendosi soprattutto alla scuola. La sua critica alla Dad (la didattica a distanza, totem degli ex ministri della Salute, Roberto Speranza, dell'Istruzione, Lucia Azzolina) è precisa. Lo fa partendo dalla crisi dei rapporti umani demonizzati dai protocolli. «È l'espressione di una generale crisi antropologica che riguarda la concezione stessa della persona umana e la sua dignità trascendente. La pandemia, che ci ha costretto a lunghi mesi di isolamento e spesso di solitudine, ha fatto emergere la necessità che ogni persona ha di avere rapporti umani». Il Vaticano che in primavera si arrese subito (e con sorpresa) alle logiche chiusuriste della scienza aumentando lo smarrimento dei cittadini, ora vede nitidamente sulla spiaggia il relitto più doloroso dopo il passaggio dello tsunami sanitario. «Penso soprattutto agli studenti», prosegue papa Francesco. «Penso a coloro che non sono potuti andare regolarmente a scuola e all'università. Ovunque si è cercato di attivare una rapida risposta attraverso le piattaforme informatiche, le quali hanno mostrato una marcata disparità di opportunità educative e tecnologiche. Inoltre, a causa del confinamento e di tante altre carenze già esistenti, molti bambini e adolescenti sono rimasti indietro nel naturale processo di sviluppo pedagogico. Infine l'aumento della didattica a distanza ha comportato una maggiore dipendenza dei bambini e degli adolescenti da Internet e in genere da forme di comunicazione virtuale, rendendoli peraltro più vulnerabili e sovraesposti alle attività criminali online».La generazione perduta, destinata a recuperi affannosi dopo un anno di Dad, è il cuore del problema. E il grido del Papa può aiutare psicologi, educatori, genitori zittiti quando non ridicolizzati dai media asserviti al conformismo governativo-sanitario con riflessi condizionati da Vopos; i danni delle chiusure disinvolte presentate come unico rimedio all'avanzare del virus potrebbero essere irreversibili non solo per l'economia. Lockdown, una strategia rivelatasi fallimentare perché i Paesi che non hanno imposto misure draconiane (Svezia, Bielorussia, Estonia) e quelli che si sono limitati a chiudere localmente per periodi brevi (Germania, Olanda, Croazia) hanno avuto le stesse curve epidemiologiche rispetto a chi ha imposto regole drastiche come Italia, Francia, Belgio, Spagna e Gran Bretagna.Papa Francesco non ha finito. Fa gli auguri agli italiani («che per primi in Europa si sono trovati a confrontarsi con le gravi conseguenze della pandemia»), poi torna sul tema principale. «C'è bisogno di un rinnovato impegno educativo. L'educazione è il naturale antidoto alla cultura individualistica che a volte degenera in vero e proprio culto dell'io e nel primato dell'indifferenza. Il nostro futuro non può essere la divisione, l'impoverimento delle facoltà di pensiero e d'immaginazione, di ascolto, di dialogo e di mutua comprensione». Le parole del Papa, tese a individuare e a indicare i danni del «dopo epidemia», sono molto importanti perché possono scardinare il pregiudizio, smuovere l'ossessione da mascherina permanente. Nei mesi scorsi si è verificato un combinato disposto micidiale, un mix da laboratorio sociale con tre ingredienti esplosivi: la passività della mediocrazia politica davanti al virus cinese, la continua invadenza dei virologi da talk show a imporre diktat cervellotici e l'appiattimento mediatico su posizioni allarmistiche senza alcuno spirito dialettico.A conferma dell'allarme del Pontefice sull'eccesso di Dad, arriva una ricerca dell'Unicef in collaborazione con l'università Cattolica sull'impatto della didattica a distanza sui bambini italiani. Risultato: delle 1.028 famiglie chiamate a rispondere, una su tre non è stata in grado di sostenere adeguatamente l'apprendimento a distanza durante il lockdown. Il 27% dei genitori ha detto di non possedere tecnologie adeguate, il 30% di non aver avuto tempo a sufficienza per sostenerli con la didattica a distanza, il 6% non ha potuto partecipare per mancanza di connettività e buchi nella Rete telematica. Un mezzo disastro con precise responsabilità politiche; la pretesa del governo guidato da Giuseppe Conte di applicare all'Italia metodi che potrebbero funzionare in Paesi ben più strutturati come Canada o Svizzera, è costata cara ai nostri ragazzi.«Il vuoto come unico rimedio per tutelare la salute, la sostituzione definitiva del sociale con il social; nessun dittatore distopico avrebbe osato sognare un delitto tanto perfetto». Prima del Papa era arrivato alla stessa conclusione il mondo accademico con le sue menti più lucide. La frase è di Gianni Canova, rettore dell'università Iulm di Milano. La sua sentenza è definitiva: «Abbiamo rubato un anno di vita ai nostri ragazzi. E gli effetti disastrosi si vedranno fra venti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-il-papa-la-scuola-al-pc-e-una-catastrofe-2650405992.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="anche-a-padova-chiusi-in-cantina-84-000-euro-di-banchi-a-rotelle" data-post-id="2650405992" data-published-at="1612814481" data-use-pagination="False"> Anche a Padova chiusi in cantina 84.000 euro di banchi a rotelle Oltre 500 banchi a rotelle dimenticati, accatastati in magazzino a prender polvere. È la scoperta fatta ieri dal TgPadova Telenuovo, con un servizio che, con la forza delle immagini, ha raccontato quello che è difficile non ritenere uno spreco. Del migliaio di «sedute innovative» - così vengono chiamati i banchi mobili -, ordinati a inizio anno scolastico dalla provincia di Padova, su input del ministero guidato da Lucia Azzolina, infatti, oltre la metà, 560, son stati respinti dai dirigenti scolastici e ora giacciono accatastati nei depositi. Considerando che ogni banco costa 150 euro, il probabile sperpero è di 84.000 euro. Non pochi visti i tempi e considerando che sono stati spesi utilizzando i fondi europei. Tanto che il vicepresidente della Provincia, Vincenzo Gottardo, interpellato sul punto non ha nascosto l'auspicio che tali banchi a rotelle possano essere presto «ricollocati», destinandoli a istituti che li richiedessero; diversamente, ha precisato Gottardo, essi finiranno probabilmente «a delle associazioni attive nel volontariato», oppure a «Paesi del mondo» in via di sviluppo. Tradotto dal politichese: siccome nessuno se li fila, tutto ciò che si può fare con questi banchi, ormai, è evitare che finiscano al macero. Ma non sarà semplice visto e considerato che in tutto il Veneto, non solo nel Padovano, i monoposto a rotelle sono avversati. «Lo stesso Ufficio scolastico regionale», ha precisato qualche giorno fa Elena Donazzan, assessore all'istruzione della Regione Veneto, «ha diramato tempo fa una nota in cui ne sconsigliava l'uso. E quell'Ufficio è la rappresentanza territoriale del ministero». Ciò nonostante, Lucia Azzolina ha difeso con le unghie e con i denti la scelta di far acquistare questi banchi che, a detta sua, «hanno contribuito a ridurre i contagi nelle scuole». Come faccia la Azzolina a esserne così sicura è un mistero dato che, da un lato, molti di questi banchi non sono neppure mai stati utilizzati e, dall'altro, la didattica è stata a distanza fino a poche settimane fa in gran parte delle Regioni italiane. La tesi dei monoposto - che peraltro risultano scomodi e poco stabili - come argini al Covid è quindi una tesi, lecita ma personalissima, dell'esponente del Movimento 5 stelle. L'unica cosa sicura, tornando a noi, è lo sventurato affare legato a questi prodotti, acquistati per facilitare il distanziamento sociale durante le lezioni e costati 400 milioni di euro di soldi pubblici. Chi ha provveduto al discutibile ma massiccio ordine - ne sono stati comprati 430.000 - è stato il supercommissario Domenico Arcuri, per cui sarebbe sbagliato ascrivere alla sola Azzolina responsabilità che son pure di altri in una questione che ha oggettivamente dell'incredibile. Infatti, al di là del fatto che siano usati o, come succede a Padova, dimenticati nei magazzini, c'è il serio rischio che questi banchi non siano neppure a norma in quanto privi di attestazione Uni, l'Ente nazionale italiano di unificazione. Così, almeno, la pensa Emidio Salvatorelli, presidente dell'azienda produttrice di arredi scolastici Vastarredo, secondo cui «tutti i prodotti per essere a norma e offrire garanzie devono avere questa certificazione. I banchi a rotelle che sono nelle scuole italiane non ce l'hanno». Riepilogando, questi monoposto son costosi, scomodi, non li vuole nessuno e non è manco detto che siano a norma. In fondo non è dunque così strano che a Padova ce ne 560 ancora imballati. La notizia è che qualcuno ancora li utilizzi.
La famiglia Trevallion-Birmingham (Ansa)
È infatti una prepotenza senza significato confrontare una bomba affettiva e esistenziale come tre fratellini che giocano e si vogliono evidentemente bene, accompagnata da genitori altrettanto uniti, e naturalmente affettivi con norme e abitudini di un Paese dove il nucleo abitativo più frequente nelle città più prestigiose consiste in un cittadino singolo. Pretendere che i pochi figli superstiti in qualche «terra di nessuno», con i suoi boschi e le affettuosità (che ancora esistono fuori dalle famiglie-tipo), si uniformino ai secchi diritti e cupe abitudini del sociologico e disperato «gruppo dei pari» è un’operazione di una freddezza stalinista, per fortuna destinata allo scacco. È coltivata da burocrazie che scambiano relazioni profonde e vere, comunque indispensabili alla vita e alla sua felicità, con strumenti tecnici, adoperabili solo quando la famiglia purtroppo non c’è più, molto spesso per l’ottusità e la corruzione dello Stato stesso che le subentra (come racconta Hanna Arendt) quando è riuscito a distruggerla. Se non si vuole creare danni inguaribili, tutti, anche i funzionari dello Stato, dovrebbero fare attenzione a non sostituire gli aspetti già legati all’umano fin dalla creazione del mondo, con pratiche esterne magari infiocchettate dalle burocrazie ma che non c’entrano nulla con la sostanza dell’uomo e la sua capacità di sopravvivere.
Certo, la bimba Utopia Rose, citata nel bel pezzo di Francesco Borgonovo del 18 dicembre, è una testimone insostituibile di un’altra visione del mondo rispetto alle varie ideologie che prevalgono in questo momento, unendo ferocia e ricchezza, cinismo e follia. Impossibile di fronte ai fratellini che tanto scandalizzano le burocrazie perbene non ricordare (oltretutto a pochi giorni dal Natale) l’ordine di Gesù: «Lasciate che questi piccoli vengano a me». Nessuno dubita che entreranno nel Regno prima degli assistenti sociali. Utopia Rose, la più grande, è affettuosa e impegnata, lavoratrice e giocattolona, organizzatrice e sognatrice. Però non è sola (Come si fa a non amarla, e anche un po’ invidiarla?). Non soltanto perché ha i suoi due fratellini, e i tre quarti del pubblico fa il tifo per loro. Ma perché questa visione loro e dei genitori di cercare una vita buona e naturale, semplicemente felice e affettuosa verso sé e verso gli altri e tutto il mondo vivente, cresce con la stessa velocità con la quale si sviluppa l’idolatria verso tutto ciò che è artificiale, fabbricato, mentale, non affettivo. È già qualche anno che chi viene in analisi scopre soprattutto questo: l’urgenza di mettersi al riparo dagli egoismi e pretese grandiose, vuote e fredde, e invece amare. Ormai il fenomeno trasborda nelle cronache. Trasgressione conclusiva, dialettale e popolaresca (milanese): «Spérèm»!
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(Imagoeconomica)
A leggere queste parole c’è davvero da impazzire. In pratica si continua a ripetere che questi bambini sono bravi, educati, felici e amati. Ma hanno difficoltà con la lettura e si cambiano i vestiti troppo raramente. E alle nostre istituzioni, oltre che a una parte della politica, sembra normale che tanto basti per strapparli ai genitori e lasciarli in una casa famiglia a tempo indeterminato. In aggiunta, si continuano a trattare papà e mamma Trevallion come discoli da raddrizzare. Si scrive e si dice che ora si comportano bene, che hanno accettato di modificare la propria casa, di vaccinare i figli, di farli incontrare con un insegnante. Lo ripetono pure i giudici della Corte d'appello che hanno confermato venerdì la validità del provvedimento di allontanamento e hanno passato la palla al Tribunale dei minori dell'Aquila per eventuali nuove decisioni. La corte conferma «tutte le criticità rilevate nell'ordinanza del Tribunale dei minorenni» tra cui i «gravi rischi per la salute fisica e psichica dei bambini, per la loro sana crescita, per lo sviluppo armonioso della loro personalità». Ma rileva «gli apprezzabili sforzi di collaborazione» da parte dei genitori e auspica «un definitivo superamento del muro di diffidenza da loro precedentemente alzato verso gli interventi e le offerte di sostegno». Chiaro, no? Quando papà e mamma saranno più docili e addomesticati, il ricatto potrà forse concludersi.
Pare infatti che il nodo di tutta questa storia, sia soltanto questo: bisogna compiacere i magistrati. Chi non lo fa è un pericoloso pasdaran della destra, è uno che fa campagna politica per il referendum sulla giustizia. Lo dice chiaramente Elisabetta Piccolotti di Alleanza verdi e sinistra, la quale se la prende con i ministri Matteo Salvini e Eugenia Roccella «che continuano a fare gli sciacalli con l’unico scopo di preparare il terreno per il referendum sulla giustizia. Noi di Avs», spiega Piccolotti, «crediamo che il percorso di dialogo con la famiglia debba dare i giusti frutti, come sostengono anche gli avvocati: i bambini devono tornare a casa dai genitori, con la garanzia che non saranno negati loro il diritto all’istruzione e alla socialità che solo la scuola assicura davvero». Ah, ma dai: i bambini devono tornare a scuola, perché quella parentale non va. Di più: bisogna che il ministro Valditara invii «gli ispettori nella scuola paritaria che ha certificato l’assolvimento dell’obbligo scolastico per la bambina di 11 anni, nonostante pare che la bimba sappia a stento scrivere il proprio nome sotto dettatura».
Interessante cortocircuito. Con la famiglia del bosco i compagni di Avs sono inflessibili, invocano perquisizioni e correzioni. Ma con altri sono molto più teneri. Nei riguardi degli antagonisti di Askatasuna, per dire, hanno parole di miele. Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs alla Camera, si è aggregato al corteo di protesta contro lo sgombero del centro sociale. «Noi non abbiamo nulla da nascondere», grida. «Siamo parte, alla luce del sole, di un’associazione a resistere, quella dell’antifascismo che i trumpiani di tutto il mondo vorrebbero dichiarare fuori legge. Ma fino a quando la nostra Costituzione sarà in piedi nessuno potrà impedirmi di manifestare il mio dissenso ed io continuerò a farlo». La sua compagna di partito Ilaria Salis ribadisce che «lo spirito di Askatasuna continuerà ad ardere». Bravi, bravissimi, dei veri rivoluzionari, dei grandi ribelli antisistema. Ma per chi sceglie davvero un modello di vita alternativo, a quanto risulta, non hanno pietà. Anzi, dicono le stesse cose dei magistrati.
Fateci caso: Elisabetta Piccolotti ha pronunciato praticamente le stesse frasi scandite da Virginia Scalera, giudice del tribunale di Pescara e presidente della sezione Abruzzo dell’Anm. Costei è intervenuta ieri dicendo che c’è «stato un attacco scomposto e offensivo nei confronti dei giudici da parte dei ministri Salvini e Roccella, espresso peraltro in mancanza di conoscenza del provvedimento, perché le motivazioni non sono ancora uscite. E comunque è inaccettabile il tono. Abbiamo l’impressione chiara», insiste Scalera, «che sia un modo per riattivare l’attenzione dell’opinione pubblica, strumentalizzando una storia significativa in ottica referendaria. Ogni volta si additano i giudici, si parla di sequestro di bambini. Stigmatizziamo gli attacchi del governo».
Siamo sempre lì: guai a sfiorare i giudici, guai ad avanzare anche solo un minuscolo dubbio sul loro operato. Persino la sinistra radicale, quella che si batte contro i confini e contro la fantomatica «repressione», alla bisogna si rimette in riga al fianco delle toghe. E intanto tre bambini bravi e educati sono ancora tenuti lontano dai loro genitori.
A proposito di cortocircuiti sinistri, sia concessa un’ultima considerazione. Negli anni passati, con l’avvicinarsi del Natale, fior di sacerdoti e militanti progressisti hanno proposto presepi pieni zeppi di barconi e migranti. È un vero peccato che quest’anno qualcuno di questi impegnati a favore dei più deboli non abbia pensato a un bel presepe con la famiglia del bosco posizionata in mezzo ai pastori.
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Orazio Schillaci (Ansa)
Stiamo parlando della Cceps, la commissione centrale esercenti professioni sanitarie che funziona come una sorta di Corte d’Appello. Due giorni fa doveva svolgersi a Roma l’udienza, fissata a ridosso del Natale per esaminare i ricorsi di almeno 25 medici radiati dall’Ordine. Nemmeno il tempo di aprire la seduta, e subito è stata rinviata con data da destinarsi.
Il 18 sera, infatti, l’indipendenza e imparzialità dei componenti della Cceps è stata messa in discussione dalle istanze di ricusazione di uno dei legali dei medici radiati, l’avvocato Mauro Sandri. La presidente e il suo vice, così pure diversi membri dell’organo del ministero della Salute che esercita il giudizio di secondo grado, si sono già espressi contro le critiche nei confronti del vaccino Covid. In alcuni casi, anche contro gli stessi dottori che hanno presentato ricorso, si legge nella memoria di ricusazione.
Una cosa inaudita, che vanificherebbe qualsiasi conclusione della commissione. Non attiva da anni, la Cceps era stata ricostituita lo scorso ottobre dal ministro Schillaci su pressione di Filippo Anelli, presidente Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. A marzo, il capo dei medici si lamentava perché il ricorso «di fatto vanifica l’azione sanzionatoria degli Ordini, facendo sì che medici sospesi o addirittura radiati continuino a esercitare».
Così, per liquidare in fretta la questione, in un’udienza fissata per trattare i soli procedimenti dei medici radiati (in violazione del normale calendario), tutte le memorie scritte dei difensori dovevano essere presentate nella stessa mattinata del 19 e «date in pasto» a medici, a magistrati che il loro giudizio già l’hanno formulato.
Le istanze di ricusazione presentate dall’avvocato Sandri sono state nei confronti della presidente della Cceps, Giulia Ferrari, in quanto come componente del Consiglio di Stato ha partecipato alla stesura di numerose sentenze nelle quali ha «sempre respinto le domande di illegittimità delle sospensioni dal lavoro avanzate da pubblici dipendenti».
E nei confronti del vice presidente Oscar Marongiu «che ha partecipato a decisioni di contenuto analogo quale componente del Tar di Cagliari». Ma non è finita. La maggior parte dei componenti la Cceps per quanto riguarda i ricorsi dei medici sono professionisti che hanno fatto parte di Consigli dell'Ordine, che hanno emesso provvedimenti di radiazione e che hanno espresso, prima del processo, opinioni che fanno già chiaramente trasparire la posizione che avranno nel giudizio di secondo grado.
Tra questi c’è Giovanni Leoni, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri della Provincia di Venezia e vice presidente nazionale Fnomceo. Il presidente a luglio 2022 si era opposto all’idea dell’allora governatore Luca Zaia di reintegrare i medici sospesi perché non vaccinati: «Sarebbe un pessimo messaggio», disse. E che aveva definito l’abolizione della sanzione ai no vax «un premio ai furbetti. Questa scelta non è un messaggio educativo alla popolazione sul rispetto delle regole». Qualcuno ha dei dubbi su come Leoni giudicherà il ricorso di medici quali Ennio Caggiano, Barbara Balanzoni, Fabio Milani, Riccardo Szumski? Sono solo alcuni dei dottori stimati, amati dai loro pazienti, però presi di mira dagli Ordini professionali perché osavano contrastare la non scienza imposta con i dpcm di Speranza e Conte.
Ennio Caggiano di Camponogara, nel Veneziano mandato a processo per aver compilato 16 certificati di esenzione dal vaccino ritenuti falsi dalla Procura di Venezia, è stato assolto da ogni accusa pochi mesi fa. Eppure il 20 maggio del 2022 il presidente dell’Ordine dei medici di Venezia ne firmò la radiazione. Oggi il medico si dice sconcertato di sapere che lo stesso Leoni dovrebbe valutare il suo ricorso. «L’incompatibilità assoluta. Invece di chiudere una vicenda che si trascina da anni, analizzando oggettivamente i fatti, vogliono ribadire che avevano ragione. È una cosa ridicola e tragica nello stesso tempo».
Un periodo, quello della pandemia e dei diktat, segnato anche da brutte storie di delazioni. Fabio Milani, stimato professionista bolognese non vaccinato, nel dicembre del 2021 curò con antibiotico e cortisone una famiglia con polmonite da Covid abbandonata a Tachipirina e vigile attesa dal proprio medico di famiglia. Segnalato dal collega all'Ordine, aveva subìto un lungo processo per esercizio abusivo della professione, conclusosi nel gennaio 2025 perché «il fatto non sussiste». Ma non era finita. Il medico venne radiato nell’agosto 2022 con l’accusa di aver violato il codice deontologico. Con quale imparzialità sarà giudicato in secondo grado da una simile commissione?
«Nessun medico radiato può essere giudicato per avere espresso opinioni critiche sulla gestione dell'emergenza sanitaria», ribadisce l’avvocato Sandri. «Nessuno mi ha denunciato per aver maltrattato un paziente», osserva Riccardo Szumski, il consigliere di Resistere Veneto risultato tra i più eletti alle ultime Regionali, evidenziando l’assurdità di una sanzione così grave. «Mi sembra una commissione non a tutela dei medici e dei pazienti, ma dell’obbedienza a ogni costo. E Schillaci era un collaboratore dell’ex ministro Roberto Speranza. Nella mia radiazione venne citata la frase del presidente Sergio Mattarella “non si invochi la libertà per sottrarsi all’obbligo vaccinale” ma la libertà, secondo me, è un bene assoluto».
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Antonio Filosa (Ansa)
La Commissione sta semplicemente «rinviando» l’obiettivo: l’impianto che aveva portato all’azzeramento delle emissioni allo scarico (e quindi alla fine dei motori termici) viene riformulato con un abbassamento delle emissioni del 90% rispetto al 2021. Il 10% residuo verrebbe coperto tramite strumenti di compensazione lungo la catena del valore: come, ad esempio, prodotti a minore intensità carbonica (acciaio low-carbon) e carburanti sostenibili. Quella voluta dell’Ue è una flessibilità «contabile» più che tecnologica, secondo il manager.
Filosa sostiene che questa architettura rischia di introdurre costi e complessità che i costruttori «di massa» assorbono peggio di quelli premium: «È una misura il cui costo potrebbe non essere alla portata dei costruttori di volume che servono la maggior parte dei cittadini». Tradotto: se la conformità dipende da risorse scarse (acciaio verde, e-fuels/biocarburanti certificati) con prezzi elevati e volatilità, il rischio è che tutti i problemi si scarichino proprio sui segmenti più sensibili al prezzo, comprimendo volumi e margini.
Stellantis segnala che non vede strumenti «ponte» sufficienti per rendere praticabile la transizione, in particolare nei veicoli commerciali, dove la competitività dell’elettrico dipende molto più che nelle auto da infrastrutture di ricarica, costo dell’energia, pianificazione flotte e disponibilità prodotto. Se l’adozione dei motori elettrici resta importante, il blocco al 2035 non genera crescita: può solo spostare i problemi su regole di compensazione e materiali verdi e costosi. La reazione dell’industria è dunque polarizzata: Renault valuta il pacchetto come un tentativo di gestire alcune criticità, mentre l’associazione industriale tedesca Vda lo bolla come «disastroso» per gli ostacoli pratici e di implementazione. La Commissione, invece, nega che si tratti di un arretramento: Stéphane Séjourné, commissario europeo per il mercato interno e i servizi, afferma che l’Europa non mette in discussione gli obiettivi climatici. Un altro funzionario Ue difende l’uso di questi meccanismi perché dovrebbero «creare un mercato di sbocco» per tecnologie e materiali necessari alla transizione.
Nel dibattito, inoltre, c’è anche l’asimmetria regolatoria transatlantica: negli Stati Uniti si osserva una traiettoria più favorevole per ibridi e termici, con revisione di incentivi e standard; non a caso Stellantis ha annunciato un piano di investimenti molto rilevante negli Usa. Il messaggio implicito è che, a parità di vincoli, la stabilità e l’economia della domanda influenzano dove si costruiscono capacità e catena del valore.
La verità è che la partita vera non è lo slogan «stop ai termici sì o no», ma la definizione dei dettagli che porteranno verso una transizione sostenibile: in particolare, si tratta della definizione di carburanti sostenibili e delle regole Mrv (monitoring, reporting, verification, un sistema obbligatorio dell'Unione Europea per il monitoraggio, la comunicazione e la verifica delle emissioni di gas serra) sulle norme industriali e, soprattutto, sulle misure lato domanda/infrastrutture che evitino che la compliance diventi un costo fisso.
Stellantis sostiene che, così com’è, la proposta non crea le sufficienti condizioni per crescere; la Commissione europea, dal canto suo, replica che serve una flessibilità che spinga filiere verdi europee senza abbandonare gli obiettivi industriali.
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