2018-06-23
Per i croati Leo Messi era la parte facile. Ora c’è la sfida vera: non uscire di testa
La squadra di Modric (in patria lo attende un processo) ha steso l'Argentina. Ma teme l'entusiasmo, eterno nemico dei balcanici.«Sapete qual è il fenomeno naturale più diffuso in Croazia? Le cascate». Più che un generale, Zlatko Dalic è uno psicologo e risponde così al mondo che lo pressa per sapere se la nazionale a scacchi è pronta per l'impresa mondiale in Russia. «La partita con l'Argentina era la più semplice perché non avevamo niente da perdere. Gestire il dopo è un incubo». Il ct croato è il primo a sapere che al secondo dribbling riuscito il calciatore balcanico si crede un fenomeno e perde la partita tentando il terzo.È così da sempre, questi meravigliosi atleti «con i polmoni tedeschi e la testa brasiliana» (copyright di Davor Suker, bomber assoluto oggi presidente della federazione) sono capaci di ogni impresa e di ogni nefandezza: dipende con quale piede scendono dal letto, dipende se hanno voglia di giocare insieme o da soli. Tutto questo ha un'eccezione già vista e mitizzata nel 1998 in Francia: accade quando si sentono una piccola patria all'estero. Allora, a scendere in campo sono tutti e quattro i milioni di abitanti con la mano sul cuore. Allora diventano musica e acciaio, allora batterli è durissima e le uniche cascate rimangono quelle di Plitvice. Tira quell'aria dopo la notte del sogno a Novgorod, quella in cui Luka Modric ha giocato come Leo Messi e Messi come il Marcelo Brozovic del 2017 all'Inter e Brozovic come il miglior Javier Mascherano e Mascherano come suo cugino elettricista. Di fronte a un'Argentina soffocata nella culla dal ct Jorge Sampaoli (squadra senz'anima, Gonzalo Higuain e Paulo Dybala demotivati in panchina, Mauro Icardi lasciato a casa nelle stucchevoli grinfie della moglie), i croati hanno riscoperto il senso di appartenenza, hanno dominato a centrocampo, hanno sfruttato ogni errore e sono volati agli ottavi. Ancora Dalic, ancora una metafora, questa volta parafrasando Ernest Hemingway: «Nessun uomo è un'isola, anche se bella come quella di Korcula». Questa è una Croazia completa, con una spina dorsale formidabile di trentenni affermati che garantiscono equilibrio. Quattro vertebre indispensabili, una linea dritta dalla difesa all'attacco. Il centrale col codino, Domasoj Vida, diventato affidabile in tempo per andare al Besiktas in Turchia a monetizzare la carriera; Ivan Rakitic, il metronomo del Barcellona, che raddoppia su tutti e ha la dote di scannerizzare l'immensità del campo fino a ridurla a un foglio A4 con passaggi al millimetro; Luka Modric, il vero Messi di questo mondiale, anima del Real Madrid, quattro Champions League in bacheca, passaggio e tiro da Roberto Baggio senza code estetiche. E infine Mario Mandzukic (Juventus, Max Allegri lo adora), il buttadentro, il fenomenale centravanti corazzato con i piedi da ballerino di flamenco che riassume in una frase tutta la sua concretezza: «Non basta indossare la maglia della nazionale e aspettare che gli altri cadano ai tuoi piedi. Bisogna essere belve feroci».Attorno a un talento da vendere, ruggiti da giungla e (spera Dalic) finalmente continuità. Tutto ciò si vede anche nel terzino Sime Vrsaljko (Atletico Madrid) che costa la metà di Joao Cancelo e vale uguale; nel rinato Brozovic (Inter), che l'altra sera non ha mai fatto respirare Messi; nello stantuffo Ivan Perisic (Inter), nell'eterno enfant prodige Andrej Kramaric (Hoffenheim) e in quello che sembra l'ultimo mohicano della tribù dei calciatori croati geniali e incostanti, elettrici e dopo dieci minuti dormienti: Mateo Kovacic (Real Madrid), forse destinato a rimanere un po' bambino anche a 30 anni.Una squadra pazzesca; più difficile metterla insieme che lasciarla giocare. E se oggi il ct dell'Argentina, Sampaoli, deve fronteggiare una rivolta di spogliatoio; se il divino Messi sembra un pulcino bagnato attorniato da psicanalisti; se a Buenos Aires piange anche la statua di un'Evita sempre troppo magra per essere verosimile, la responsabilità è di quegli undici guerrieri balcanici che hanno costruito un capolavoro di partita trasformando i loro errori giovanili in virtù. Prendiamo Mandzukic. Quando giocava nel Wolfsburg non aveva nessuna intenzione di aiutare gli altri, ritorni a centrocampo zero. All'ennesima furbata Felix Magath (non un allenatore qualunque) gli inflisse 10.000 euro di multa e lui capì che l'altruismo in campo è un valore primario. Caratteristica oggi devastante anche nella Juventus. Altro esempio: un giorno, in nome della fantasia al potere, Vida aprì una lattina di birra sul pullman della Dinamo Zagabria per una bevuta fuori programma. Risultato: multa salatissima e resto del percorso a piedi. Quando arrivò a Siviglia, perfino l'impiegatizio Rakitic si sentiva un figo trasgressivo e aprì un bar proprio di fronte allo stadio dei rivali del Betis, forse per provocarli: dovette chiudere dopo pochi mesi, inseguito dagli ultrà avversari (come ti permetti) e anche dai suoi (i nemici non si dissetano).Il rispetto delle regole è il primo passo per vincere. L'unico a non averlo capito è Nicola Kalinic, esempio della tentazione biblica sempre latente all'indolenza e alla ribellione. Due volte ha detto no, come un Achille sotto la tenda, alla richiesta di entrare negli ultimi minuti per Mandzukic (che del milanista ne vale tre). E alla fine Dalic - che sa quanto sia importante punirne uno per educarne 22 - gli ha indicato la porta, non quella del campo ma quella di uscita anticipata dal mondiale. Se questa Croazia dura un mese sono guai per chiunque. Hanno tutti lo stesso obiettivo, tranne Modric che ne ha due. In primavera la sua deposizione nel processo al boss del pallone balcanico Zdravko Mamic (accusato di appropriazione indebita per 15 milioni) è risultata lacunosa, e dopo il mondiale lo aspetterebbe un avviso di garanzia per falsa testimonianza. A meno che il giudice non impazzisca di gioia prima.
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Charlie Kirk (Getty Images)