2022-08-17
Amici blindati e oppositori trombati. Sulle liste il Pd apre la resa dei conti
Il leader fa piazza pulita della minoranza (Luca Lotti, Stefano Ceccanti, Alessia Morani e Valeria Fedeli) e sfotte: «Avrei potuto imporre i miei». Posto garantito a Carlo Cottarelli e Marco Bentivogli. Piero Fassino paracadutato in Veneto, Dario Franceschini in Campania.C’è un confine sottile, un territorio incerto e di frontiera, in cui la disgrazia politica si mescola con l’opportunità di regolare i conti in casa, il rovescio elettorale con l’occasione per una epurazione interna: è lì che si trova oggi il Pd dopo la tragica notte delle liste. «Questa volta non ci sarà la direzione notturna per le liste come nel 2018»: con l’ormai consueta sopravvalutazione politica delle proprie capacità di composizione delle contraddizioni, così aveva parlato Enrico Letta il 26 giugno scorso. Risultato? La seduta della direzione del partito dedicata all’approvazione delle liste è stata inizialmente convocata per la giornata di Ferragosto, alle 11. Ma - a poco a poco - filtravano rinvii e aggiornamenti, frutto delle violentissime risse in corso: tutto spostato alle 15, poi alle 18, poi alle 20, poi alle 21.30. Morale: la seduta ha avuto inizio soltanto dopo le 23.Con queste premesse, era facile immaginare un disastro, che si è puntualmente verificato, e che è solo malamente nascosto dal voto tutto sommato ampio con cui si è chiusa la riunione (3 no e 5 astenuti). Ma in realtà le cose stanno in modo ben diverso: i dem escono lacerati prim’ancora che la corsa elettorale sia iniziata. E nell’occhio del ciclone c’è lui, Letta, che, al sicuro con doppia candidatura ultrablindata (testa di lista nel proporzionale sia in Lombardia sia in Veneto), quasi si fa beffe degli altri: «Avrei potuto imporre nomi solo miei, ma non l’ho fatto, e avrei voluto ricandidare tutti gli uscenti, ma era impossibile». Doppia provocazione. Intanto perché le liste sono zeppe di nomi suoi: gli avversari interni ne contano almeno 25, a partire dagli under 35 Michele Fina e Paolo Romano (Lombardia), Caterina Cerroni (Molise), Marco Sarracino (Campania), Rachele Scarpa (Veneto), usati come una clava («largo ai giovani») per cacciare gli sgraditi. Non solo: sempre al segretario va attribuita tutta la cosiddetta quota della «società civile» a cui verremo più avanti. Ma pure l’altra affermazione di Letta è stata vissuta come provocatoria: perché, nonostante tutto (riduzione del numero dei membri delle due Camere e nanetti da ospitare), il Pd avrebbe comunque potuto ricandidare un numero maggiore di uscenti. E invece non lo ha fatto: con le impronte digitali del fido Marco Meloni (a sua volta strablindato in Sardegna) dietro ogni esclusione eccellente. E allora cominciamo da chi è stato fatto fuori: è out il costituzionalista Stefano Ceccanti, prima sfrattato da Pisa per far posto a Nicola Fratoianni e poi destinatario di una proposta giudicata inadeguata. Fuori anche Salvatore Margiotta, Giuditta Pini e Valeria Fedeli. Fuori Luca Lotti, che scopre solo ora e a sue spese il tasso di ipocrisia e giustizialismo del Pd («La scelta è politica, nessuno si nasconda dietro a scuse vigliacche»). È fuori anche Alessia Morani, che ha rifiutato sdegnosamente due opzioni («A mia insaputa, il mio partito ha deciso di assegnarmi il collegio uninominale di Pesaro e un terzo posto nel proporzionale. Ho comunicato che non intendo accettare»). Sembrava fuori, ma è rimasta dentro quasi per sfregio e comunque furente Monica Cirinnà, sbattuta in un collegio dato per perso (lei parla di «territori inidonei ai miei temi»: e non sembra una gran premessa per farsi apprezzare dagli elettori).Sono dentro ma in bilico e in posizione di difficile eleggibilità Emanuele Fiano, Enzo Amendola e Tommaso Nannicini, a testimonianza di una scelta netta da parte di Letta: privarsi consapevolmente dei parlamentari più esperti per fare largo ai suoi. E allora veniamo ai blindati (per quanto sia veramente audace osare presentarli come nuovi). Ecco Pierferdinando Casini a Bologna (in Parlamento da 39 anni), Debora Serracchiani (una friulana dirottata in Piemonte), Simona Malpezzi, gli ex ministri Andrea Orlando, Paola De Micheli e Beatrice Lorenzin. Dirottato in Veneto Piero Fassino. Blindatissimi pure Carlo Cottarelli (Lombardia) e il virologo Andrea Crisanti (circoscrizione Europa), più la sezione sindacale composta da Susanna Camusso, Anna Maria Furlan e Marco Bentivogli (l’unico dei tre che dovrà giocarsela).Blindati pure i capetti-nanetti, cioè i leaderini dei partiti alleati, o perché destinatari di collegi sicuri o perché inseriti nelle liste proporzionali del Pd: due seggi a testa per Psi e Demos (propaggine politica di Sant’Egidio), quattro per Articolo Uno (Roberto Speranza, Arturo Scotto, Nico Stumpo, Federico Fornaro), un’altra manciata per +Europa (a partire dagli inamovibili Emma Bonino e Benedetto Della Vedova), due pure per Si-Verdi (Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli), uno per Luigi Di Maio. Trasversale (nel senso che riguarda sia gli esponenti storici del Pd sia i capetti-nanetti) il fenomeno dei «paracadutati» e «paracadutisti», spediti in territori che ne avrebbero ben volentieri fatto a meno. È stata messa a dura prova la Campania, dove sono stati inviati in un colpo solo Di Maio, Franceschini e Speranza. Terra martoriata, non c’è dubbio. Spedita tra Veneto e Piemonte Beatrice Lorenzin, mentre è finita in Toscana Laura Boldrini. Sbatte la porta e se ne va Dario Stefano, di antica provenienza vendoliana, ma che oggi - curiosamente - lamenta il poco spazio per i riformisti. Conclusione: sindaci, territori e federazioni sono in rivolta. Non si contano più le frasi del tipo «Letta questa campagna elettorale se la faccia da sé». E non ci sarebbe da stupirsi se anche territori teoricamente rossi determinassero qua e là sorprese clamorose.Di fatto, con queste liste, non inizia la campagna elettorale del Pd, ma la sua stagione congressuale, con un segretario già oggettivamente sul banco degli imputati. La componente Base riformista non ha infatti partecipato al voto finale in direzione, mentre Stefano Bonaccini scalda i motori verso la segreteria. Non solo. Quando il partito-sistema vede sfarinarsi la prospettiva del potere (ministeri, apparati, Rai), il castello del Nazareno mostra tutta la sua fragilità. Curioso contrappasso: proprio mentre da sinistra si dice che la destra non sarà in grado di governare per più di sei mesi, quegli stessi sei mesi appaiono oggi un tempo incredibilmente lungo - per il Pd - per resistere senza il cemento del potere.
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)