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2023-03-15
Pd e 5 stelle, ecco tutti i nomi dei colpevoli
Quando tra una manciata di anni gli italiani saranno costretti a spendere una fortuna per adeguare le proprie case alla severissima e miope direttiva green, potranno inviare una lettera o magari il conto della ditta di ristrutturazioni a chi l’ha votata. Il documento, infatti, è passato ieri in plenaria al Parlamento Ue con 343 voti favorevoli, 216 contrari e 78 astenuti, suscitando ancora una volta le rimostranze di quanti, soprattutto nel nostro Paese, avevano fatto presente che si tratta di un obiettivo insostenibile per chi, come in Italia, ha un’altissima percentuale di immobili privati e per giunta di elevato valore storico o di pregio. A poco è valso il tentativo dei giorni scorsi degli eurodeputati dei partiti che sostengono il governo Meloni, di cercare di portare alla ragione quanti si erano accodati pedissequamente al diktat di Bruxelles, per ribaltare un esito che appariva scontato e purtroppo lo è stato. Entro il 2030, dunque, tutte le case dovranno rientrare nella categoria energetica E, per poi passare alla categoria D entro il 2033, alimentando una delle tante chimere partorite dai tecnocrati Ue, e cioè l’obiettivo case a zero emissioni per il 2050.
E che si trattasse di una direttiva slegata dalla realtà e dal buonsenso lo si è capito anche dal fatto che il Ppe, dalle cui indicazioni si era sfilata immediatamente Forza Italia, si è diviso in tre tronconi, mentre il Terzo Polo (fatta eccezione per Sandro Gozi, passato alla storia per essere stato il primo politico italiano a farsi eleggere in Francia e a lavorare per il governo transalpino e ieri fautore del sì) si è astenuto sottolineando la mancanza di flessibilità nel dispositivo della direttiva, e qualche mal di pancia è arrivato anche dai parlamentari fedeli al presidente francese Emmanuel Macron. Fatto sta, però, che il blocco di potere che governa l’Ue praticamente da quando è stata fondata ha tenuto, e dalla maggior parte dei rappresentanti dei cittadini italiani si sono dimostrati refrattari alle specificità che presenta in questo ambito il nostro patrimonio immobiliare.
A scorrere la lista di chi si è allineato all’eco-diktat ritroviamo vecchie e nuove conoscenze, ovviamente partendo dal gruppo dei Socialdemocratici, quello che ha dato in blocco il via libera alla direttiva: ci troviamo, tra gli altri, il dem rampante e capogruppo Brando Benifei, reduce dalla scoppola delle primarie Pd, per il quale aveva coordinato la mozione dello sconfitto Stefano Bonaccini. Poi c’è l'ex-sindaco di Milano Giuliano Pisapia, l’exvicesegretaria del Pd Irene Tinagli, Alessandra Moretti, astro nascente della stagione renziana tramontato rapidamente, Pietro Bartolo, divenuto famoso quando era medico a Lampedusa, l’ex ministro delle Politiche agricole Paolo De Castro, l’altra sconfitta al congresso e renziana decaduta Pina Picierno, l’esponente dell’ala sinistra Massimiliano Smeriglio e l’ex procuratore antimafia Franco Roberti. A completare il quadro dei socialdemocratici tricolore che hanno avallato la direttiva sulle case green, abbiamo tra gli altri l’economista Elisabetta Gualmini, Caterina Chinnici e la transfuga grillina Daniela Rondinelli.
Scontato il voto favorevole dei Verdi, che annoverano tra le proprie fila tre eurodeputati italiani: i tre transfughi grillini Ignazio Corrao, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini. E a proposito di transfughi grillini, nel gruppo dei non iscritti (una sorta di gruppo Misto europeo) si segnala il sì alla direttiva dell’ex Iena Dino Giarrusso, che vota per le case green mentre è in cerca di una casa politica, come testimonia il goffo tentativo di aderire al Pd sostenendo Bonaccini all’ultimo congresso, sfociato in una sollevazione dei militanti che non ha certo portato bene al governatore dell’Emilia-Romagna.
Altri non iscritti italiani che hanno votato sì sono stati i pentastellati Tiziana Beghin, Fabio Massimo Castaldo, Maria Angela Danzì, Laura Ferrara, Mario Furore, e Sabrina Pignedoli. L’iter della direttiva prevede ora una laboriosa fase di contrattazione tra le istituzioni europee e i governi nazionali. La scorsa settimana il nostro Parlamento ha approvato una mozione che impegna il governo Meloni a chiedere una profonda revisione dei contenuti del provvedimento.
I popolari si spaccano in tre pezzi. Il capo Weber è col fronte del «no»
Se si dovesse giudicare dai tabulati di ieri della plenaria dell’Europarlamento che ha dato il via libera alla direttiva-capestro sulle case green, si potrebbe dire che i tecnocrati targati sinistra dormono tra due guanciali. L’elemento politico che emerge con più chiarezza, è che il Ppe si è frantumato addirittura in tre tronconi, annoverando nelle proprie fila eurodeputati che hanno votato sia contro, sia a favore che astenuti. Tra i contrari, ovviamente, gli esponenti di Forza Italia, i quali da tempo avevano annunciato – in primis il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin – la loro contrarietà alla direttiva e la loro piena sintonia con Lega e Fdi, a ribadire la compattezza della maggioranza che sostiene il governo Meloni.
Ma la cosa bella è che ad andare in dissenso con la posizione ufficiale del Partito popolare europeo è stato, tra gli altri, il capogruppo Manfred Weber, che ha votato contro, al pari dei suoi compagni di gruppo italiani. Ciò non è bastato, evidentemente, a far gettare il cuore oltre l’ostacolo ai popolari eletti a Strasburgo e Bruxelles, sbarrando una strada a un provvedimento che ha suscitato un’infinità di critiche non solo in Italia ma in tutte le 27 nazioni Ue. Sarebbe stato un primo laboratorio di quell’alternativa al blocco di potere del centrosinistra europeo, che molti politici liberali e moderati hanno affermato di voler sperimentare nella prossima legislatura.
Se infatti gli eurodeputati Ppe avessero portato fino in fondo le proprie perplessità sulla direttiva, avrebbero potuto contare sul sostegno di Ecr e di Id (più qualche esponente non iscritto ad alcun gruppo) non solo avendo ottime possibilità di stoppare il documento, ma avendo la quasi certezza di costringere Bruxelles a delle correzioni. Inoltre, si sarebbero gettate le basi di quel «ribaltone» al timone dell’Unione che molti additano come auspicabile. Un’occasione mancata, dunque, che in ogni caso rappresenta plasticamente l’ennesimo fallimento della cosiddetta «coalizione Ursula», già ampiamente archiviata come suggestione nel nostro paese. Si vedrà nei prossimi mesi, con dossier altrettanto importanti e controversi che arriveranno sui banchi dell’Europarlamento, se il disegno di un centrodestra europeo potrà maturare. Ciò che è accaduto ieri, lascia intuire che la strada è ancora lontana. Il dato numerico, intanto, dice che sono stati di più gli europarlamentari popolari che hanno votato contro la direttiva (58) di quelli che hanno votato a favore (51).
La portata politica del voto di ieri non è sfuggita alle forze politiche che da subito si erano schierate per il no, che hanno approfittato dell’occasione per incalzare il Ppe. Tra queste ovviamente la Lega, la cui delegazione europea in seno al gruppo Id, ha osservato che «persino il presidente del Ppe Manfred Weber ha votato contro la direttiva sull’efficientamento degli edifici, altro che pericolosi sovranisti...». «Mentre Pd e M5s si arrampicano sugli specchi per difendere il loro voto a favore di un provvedimento che colpisce aziende, lavoratori e famiglie italiane», hanno aggiunto fonti del Carroccio, «questo dato evidenzia le forti criticità della direttiva, che andava rigettata senza se e senza ma. Anziché attaccare il centrodestra che governa l’Italia, forse la sinistra farebbe meglio a chiarirsi con gli altri componenti di quella maggioranza Ursula che, di fatto, oggi non esiste più».
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Da Alessandra Moretti a Pina Picierno all’ex ministro Paolo De Castro: gli europarlamentari dem hanno dato in blocco l’ok alla direttiva green. Via libera pure dai grillini, compreso il fuoriuscito Dino Giarrusso, da indipendenti di sinistra come Giuliano Pisapia e dall’ex renziano Sandro Gozi, eletto in Francia.Il voto era l’occasione per testare il Ppe. Così più difficile un accordo con Ecr nel 2024.Lo speciale contiene due articoli.Quando tra una manciata di anni gli italiani saranno costretti a spendere una fortuna per adeguare le proprie case alla severissima e miope direttiva green, potranno inviare una lettera o magari il conto della ditta di ristrutturazioni a chi l’ha votata. Il documento, infatti, è passato ieri in plenaria al Parlamento Ue con 343 voti favorevoli, 216 contrari e 78 astenuti, suscitando ancora una volta le rimostranze di quanti, soprattutto nel nostro Paese, avevano fatto presente che si tratta di un obiettivo insostenibile per chi, come in Italia, ha un’altissima percentuale di immobili privati e per giunta di elevato valore storico o di pregio. A poco è valso il tentativo dei giorni scorsi degli eurodeputati dei partiti che sostengono il governo Meloni, di cercare di portare alla ragione quanti si erano accodati pedissequamente al diktat di Bruxelles, per ribaltare un esito che appariva scontato e purtroppo lo è stato. Entro il 2030, dunque, tutte le case dovranno rientrare nella categoria energetica E, per poi passare alla categoria D entro il 2033, alimentando una delle tante chimere partorite dai tecnocrati Ue, e cioè l’obiettivo case a zero emissioni per il 2050. E che si trattasse di una direttiva slegata dalla realtà e dal buonsenso lo si è capito anche dal fatto che il Ppe, dalle cui indicazioni si era sfilata immediatamente Forza Italia, si è diviso in tre tronconi, mentre il Terzo Polo (fatta eccezione per Sandro Gozi, passato alla storia per essere stato il primo politico italiano a farsi eleggere in Francia e a lavorare per il governo transalpino e ieri fautore del sì) si è astenuto sottolineando la mancanza di flessibilità nel dispositivo della direttiva, e qualche mal di pancia è arrivato anche dai parlamentari fedeli al presidente francese Emmanuel Macron. Fatto sta, però, che il blocco di potere che governa l’Ue praticamente da quando è stata fondata ha tenuto, e dalla maggior parte dei rappresentanti dei cittadini italiani si sono dimostrati refrattari alle specificità che presenta in questo ambito il nostro patrimonio immobiliare.A scorrere la lista di chi si è allineato all’eco-diktat ritroviamo vecchie e nuove conoscenze, ovviamente partendo dal gruppo dei Socialdemocratici, quello che ha dato in blocco il via libera alla direttiva: ci troviamo, tra gli altri, il dem rampante e capogruppo Brando Benifei, reduce dalla scoppola delle primarie Pd, per il quale aveva coordinato la mozione dello sconfitto Stefano Bonaccini. Poi c’è l'ex-sindaco di Milano Giuliano Pisapia, l’exvicesegretaria del Pd Irene Tinagli, Alessandra Moretti, astro nascente della stagione renziana tramontato rapidamente, Pietro Bartolo, divenuto famoso quando era medico a Lampedusa, l’ex ministro delle Politiche agricole Paolo De Castro, l’altra sconfitta al congresso e renziana decaduta Pina Picierno, l’esponente dell’ala sinistra Massimiliano Smeriglio e l’ex procuratore antimafia Franco Roberti. A completare il quadro dei socialdemocratici tricolore che hanno avallato la direttiva sulle case green, abbiamo tra gli altri l’economista Elisabetta Gualmini, Caterina Chinnici e la transfuga grillina Daniela Rondinelli.Scontato il voto favorevole dei Verdi, che annoverano tra le proprie fila tre eurodeputati italiani: i tre transfughi grillini Ignazio Corrao, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini. E a proposito di transfughi grillini, nel gruppo dei non iscritti (una sorta di gruppo Misto europeo) si segnala il sì alla direttiva dell’ex Iena Dino Giarrusso, che vota per le case green mentre è in cerca di una casa politica, come testimonia il goffo tentativo di aderire al Pd sostenendo Bonaccini all’ultimo congresso, sfociato in una sollevazione dei militanti che non ha certo portato bene al governatore dell’Emilia-Romagna. Altri non iscritti italiani che hanno votato sì sono stati i pentastellati Tiziana Beghin, Fabio Massimo Castaldo, Maria Angela Danzì, Laura Ferrara, Mario Furore, e Sabrina Pignedoli. L’iter della direttiva prevede ora una laboriosa fase di contrattazione tra le istituzioni europee e i governi nazionali. La scorsa settimana il nostro Parlamento ha approvato una mozione che impegna il governo Meloni a chiedere una profonda revisione dei contenuti del provvedimento.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pd-5-stelle-nomi-colpevoli-2659598164.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-popolari-si-spaccano-in-tre-pezzi-il-capo-weber-e-col-fronte-del-no" data-post-id="2659598164" data-published-at="1678847597" data-use-pagination="False"> I popolari si spaccano in tre pezzi. Il capo Weber è col fronte del «no» Se si dovesse giudicare dai tabulati di ieri della plenaria dell’Europarlamento che ha dato il via libera alla direttiva-capestro sulle case green, si potrebbe dire che i tecnocrati targati sinistra dormono tra due guanciali. L’elemento politico che emerge con più chiarezza, è che il Ppe si è frantumato addirittura in tre tronconi, annoverando nelle proprie fila eurodeputati che hanno votato sia contro, sia a favore che astenuti. Tra i contrari, ovviamente, gli esponenti di Forza Italia, i quali da tempo avevano annunciato – in primis il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin – la loro contrarietà alla direttiva e la loro piena sintonia con Lega e Fdi, a ribadire la compattezza della maggioranza che sostiene il governo Meloni. Ma la cosa bella è che ad andare in dissenso con la posizione ufficiale del Partito popolare europeo è stato, tra gli altri, il capogruppo Manfred Weber, che ha votato contro, al pari dei suoi compagni di gruppo italiani. Ciò non è bastato, evidentemente, a far gettare il cuore oltre l’ostacolo ai popolari eletti a Strasburgo e Bruxelles, sbarrando una strada a un provvedimento che ha suscitato un’infinità di critiche non solo in Italia ma in tutte le 27 nazioni Ue. Sarebbe stato un primo laboratorio di quell’alternativa al blocco di potere del centrosinistra europeo, che molti politici liberali e moderati hanno affermato di voler sperimentare nella prossima legislatura. Se infatti gli eurodeputati Ppe avessero portato fino in fondo le proprie perplessità sulla direttiva, avrebbero potuto contare sul sostegno di Ecr e di Id (più qualche esponente non iscritto ad alcun gruppo) non solo avendo ottime possibilità di stoppare il documento, ma avendo la quasi certezza di costringere Bruxelles a delle correzioni. Inoltre, si sarebbero gettate le basi di quel «ribaltone» al timone dell’Unione che molti additano come auspicabile. Un’occasione mancata, dunque, che in ogni caso rappresenta plasticamente l’ennesimo fallimento della cosiddetta «coalizione Ursula», già ampiamente archiviata come suggestione nel nostro paese. Si vedrà nei prossimi mesi, con dossier altrettanto importanti e controversi che arriveranno sui banchi dell’Europarlamento, se il disegno di un centrodestra europeo potrà maturare. Ciò che è accaduto ieri, lascia intuire che la strada è ancora lontana. Il dato numerico, intanto, dice che sono stati di più gli europarlamentari popolari che hanno votato contro la direttiva (58) di quelli che hanno votato a favore (51). La portata politica del voto di ieri non è sfuggita alle forze politiche che da subito si erano schierate per il no, che hanno approfittato dell’occasione per incalzare il Ppe. Tra queste ovviamente la Lega, la cui delegazione europea in seno al gruppo Id, ha osservato che «persino il presidente del Ppe Manfred Weber ha votato contro la direttiva sull’efficientamento degli edifici, altro che pericolosi sovranisti...». «Mentre Pd e M5s si arrampicano sugli specchi per difendere il loro voto a favore di un provvedimento che colpisce aziende, lavoratori e famiglie italiane», hanno aggiunto fonti del Carroccio, «questo dato evidenzia le forti criticità della direttiva, che andava rigettata senza se e senza ma. Anziché attaccare il centrodestra che governa l’Italia, forse la sinistra farebbe meglio a chiarirsi con gli altri componenti di quella maggioranza Ursula che, di fatto, oggi non esiste più».
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.