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2025-08-30
Pazzia Ue: droni di guerra guidati dai bimbi
Friedrich Merz ed Emmanuel Macron (Ansa)
«Cara Evika Silina, il tuo Paese sta diventando una vera potenza nel campo dei droni». Il post di X che Ursula von der Leyen ha dedicato al ministro presidente lettone, in occasione della sua visita «negli Stati di frontiera dell’Ue», è un manifesto della nuova Commissione europea. Un piano politico destinato a mettere l’elmetto in testa persino ai bambini.
Cosa sta succedendo? Cominciamo dal sottolineare che, a Bruxelles, sono ben felici di assecondare l’ossessione dei baltici per il babau russo. Probabilmente, al di là della postura aggressiva e dei proclami sulle truppe da spedire al fronte per garantire la sicurezza di Kiev, sperano di delocalizzare il più possibile quello che considerano l’inevitabile scontro di civiltà con Mosca. In questo modo, daranno tempo agli Stati centrali di riorganizzare la difesa del continente. E pure di catechizzare l’opinione pubblica, visto che, per il momento, nel Paese che si candida a costruire l’esercito più potente dopo quello americano - la Germania - vanno di moda i libri di un blogger che si compiace di dichiarare: «Meglio occupati che morti».
In questa operazione di marketing bellico, i droni svolgeranno un ruolo fondamentale. Sia perché sono una risorsa efficace e a buon mercato, che infatti tanto i russi quanto gli ucraini, ormai capaci di sfornarne in gran numero, hanno impiegato in quantità massicce. Sia perché essi alleggeriscono un po’ la percezione della brutalità dei combattimenti: eliminando il contatto fisico tra esseri umani, rendono moralmente meno problematica l’uccisione del nemico. Gli unici ad accorgersi che sono scoppiate delle bombe, alla fine, sono quelli che ci rimangono sotto. Ed è qui che nasce la tentazione di tirare in ballo i bimbi. Proprio dalla frontiera dell’Ue, quella che praticamente si sente già in trincea contro Vladimir Putin, stanno infatti partendo vari progetti per insegnare ai più piccoli come si fabbricano e come si usano i velivoli da guerra senza pilota.
Ne ha parlato anche La Stampa ieri: tra pochi giorni, gli alunni delle elementari in Lituania, di ritorno sui banchi di scuola, si ritroveranno a frequentare lezioni dedicate alla costruzione e alla guida dei droni. «Ormai sono diventati una parte integrante non solo della scienza e dell’industria», ha spiegato a metà agosto il direttore dell’agenzia di educazione Linesa, Valdas Jankauskas, «ma anche della vita di tutti i giorni». Il progetto, ha giubilato il funzionario, darà alle giovani generazioni «la possibilità di conoscere questo settore dalla tenera età». Per fortuna, nella «vita di tutti i giorni», i droni al massimo vengono usati per scattare suggestive foto dall’alto di attività sportive, concerti o serate danzanti. C’è una bella differenza tra i giocattoli con le eliche che ogni tanto vediamo svolazzare in spiaggia oppure in discoteca e gli apparecchi, imbottiti di esplosivo, che piombano sui civili nelle città dell’Ucraina e sulle regioni di confine in Russia. Forse, in alcuni Stati europei si stanno portando avanti? L’idea è che, sin dalla «tenera età», i ragazzini debbano abituarsi a concepire la guerra come un aspetto della «vita di tutti i giorni»?
I giovanissimi lituani chiamati a raccolta non saranno mica pochi: si tratta di 7.000 bambini dai 9 anni di età, parte di un corso che coinvolgerà in totale 22.000 connazionali. Costoro, entro il 2028, acquisiranno «abilità di controllo dei droni», anche attraverso «esperimenti pratici e giochi». Niente di più moderno e tecnologico che spingere i piccini a concepire la morte alla stregua di un videogame, quasi uguale a quello con cui già si divertono il pomeriggio, mentre siedono davanti a una qualche consolle. Anche se, dal punto di vista delle tattiche propagandistiche, resta minima la distanza dalle omelie dei professori ultranazionalisti che, nel 1914, incitavano gli studentelli ad arruolarsi nell’esercito del Secondo Reich, descritte da Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale. Niente di nuovo, appunto. Tant’è che pure i balilla, in assenza di bombardieri pilotabili da remoto, in classe imparavano a montare e smontare il moschetto.
Alle porte della Federazione russa, si stanno organizzando parecchie iniziative simili: c’è il caso «pedagogico» della Lituania; c’è la Lettonia, «potenza dei droni» che fa gongolare la Von der Leyen e che ha già addestrato 32 giovani cadetti nelle specialità della guerra elettronica, lo scorso luglio; e non poteva mancare l’Estonia di Kaja Kallas, ex premier, oggi Alto rappresentante dell’Unione. Soprattutto, falco antirusso ispirata dalle persecuzioni dell’Urss subite dalla nonna e dalla madre, che vennero deportate in Siberia, mentre il babbo, Siim, faceva carriera nelle banche statali e nella gerarchia amministrativa sovietica, da iscritto al Partito comunista. Ebbene: entro la metà del 2026, Tallinn avvierà un programma di educazione all’impiego di droni, che addirittura rientra nell’accordo di coalizione della maggioranza al governo e che includerà l’invio di appositi «kit» alle scuole.
Sarà pur vero che, per mantenere la pace, è sempre meglio prepararsi alla guerra. Ma chi si illude di poterla rendere seducente, o magari divertente, sta incappando in un errore pericoloso. Anche quei bambini lituani di 9 anni, un domani, capiranno che ammazzare un uomo non è come fare una partita alla Playstation.
L’occupazione tedesca è ai minimi storici e Merz crea lavoro al fronte per i giovani
«Abbiamo sbagliato transizione». Se fossero onesti e trasparenti i decisori delle principali economie del Vecchio continente dovrebbero ammettere che il passaggio «forzato» dalle forme di energia più inquinanti a quelle «pulite» si sta dimostrando un flop epocale. E che per rimediare a quel fallimento (in termini di crescita del Pil, degli utili delle imprese e quindi di occupazione) si stanno creando i presupposti per un’altra forma di transizione, eticamente meno irreprensibile, quella che ci porterà verso un’economia di guerra.
I segnali sono evidenti – ieri abbiamo parlato dell’emissione del primo bond (ad opera di una banca francese) per finanziare l’escalation militare del Vecchio continente – ma il piano annunciato qualche ore fa dal governo Merz (il disegno di legge è atteso al vaglio del parlamento) mostra plasticamente quello che potrebbe succederci nei prossimi anni. Certo, il cancelliere ha salvato la faccia evitando di introdurre subito la leva obbligatoria (era stata abolita nel 2011), ma il piano è studiato in modo che poi, se non verranno raggiunti i risultati sperati è lì che si andrà a parare, nella leva forzata.
E quali sono questi risultati? A oggi la Bundeswehr (le forze armate tedesche) possono contare su circa 180.000 soldati e poco meno di 50.000 riservisti. Nella prospettiva del governo solo quando i militari avranno superato quota 250.000 unità e i riservisti avranno toccato la soglia dei 200.000 uomini si potranno dormire sonni più tranquilli. Non semplice, perché si tratta di ricreare un sistema, parte dalle caserme e arriva fino agli istruttori, che è stato quasi completamente smantellato negli anni in cui nessuno pensava che la pace potesse essere messa in discussione. Insomma, il progetto va un po’ spinto. E infatti i giovani tedeschi che a inizio 2026 riceveranno un questionario informativo (gli uomini saranno obbligati a compilarlo, le donne no), per capire la loro propensione all’avventura militare, saranno tentati da una discreta serie di benefit.
Stipendio minimo di 2.300 euro al mese, vitto, alloggio ed assistenza sanitaria gratuita oltre ad altre «attenzioni» particolari. Basterà? Difficile dirlo. Quello che invece si può dire senza timore di smentita è che l’economia tedesca è costantemente sull’orlo della recessione. I timidi segnali di ripresa di gennaio, febbraio e marzo (+0,3% del Pil) sono stati vanificati dalla contrazione dello 0,3% del secondo trimestre 2025, anche perché la stima iniziale indicava un calo contenuto dello 0,1%. E i recentissimi dati sul tasso di disoccupazione confermano ad agosto le percentuali di luglio (il 6,3%), cioè il dato peggiore dal 2020 (i disoccupati hanno superato i 3 milioni). Tanto per intenderci, secondo l’ultimo Industry Barometer di Ernst & Young che analizza l’andamento delle vendite e dell’occupazione nell’industria tedesca, le imposizioni del Green deal hanno portato alla perdita di 51.000 posti solo nell’automotive. Se poi l’analisi si allarga e arriva a ricomprendere il periodo pre-Covid, arrivando al 2019, scopriamo che sono venuti a mancare circa 112.000 occupati. Dire che la crisi del modello tedesco sia esclusivamente colpa dell’ideologia green, che a un certo punto ha stravolto le strategie di buona parte dei colossi dell’industria, sarebbe sbagliato e limitativo. Ma di certo i diktat ambientalisti che vogliono costringere le case europee a dire addio ai motori termici entro il 2035 hanno avuto un ruolo fondamentale nella crisi di Berlino.
E quindi torniamo a bomba sui piani di Merz e Macron: quello che il Green deal ha distrutto tocca riprenderselo con l’industria bellica. Non è un caso che nelle stesse ore in cui il cancelliere annunciava il piano per la leva militare, Rheinmetall (la maggiore azienda tedesca degli armamenti) stesse inaugurando quella che diventerà la più grande fabbrica di munizioni d’Europa. Il sito è ad Hannover, ma l’ad Armin Papperger è pronto a costruire altri stabilimenti in diversi Paesi della Nato. Perché quando la Germania si muove lo fa sempre per porsi alla guida del progetto e mai a ricasco.
Certo, che in questo piano manca la voce dei diretti interessati. Sarebbe utile sapere cosa ne pensano i ragazzi e le ragazze tedesche. Sono contenti di scoprire il brivido della vita al fronte per prepararsi ad affrontare il pericolo russo? O farebbero volentieri a meno della nuova avventura? Un recente sondaggio dell’istituto YouGov, condotto per l’agenzia di stampa tedesca Dpa, rivela che tra i tedeschi c’è un sentimento abbastanza variegato. Il 54% degli intervistati si è espresso a favore del ritorno al servizio militare obbligatorio. Ma se poi si analizzano questi numeri dividendoli per fascia di età, si scopre che tra gli ultrasettantenni la percentuale di favorevoli è del 66%, mentre nella fascia compresa tra i 18 e i 29 anni solo un terzo (35%) sposa il sì.
C’era da aspettarselo, ma siamo certi che a Berlino come a Bruxelles di quello che vogliono i diretti interessati importa poco o nulla.
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La «minaccia russa» dà alla testa: nei Baltici preparano a combattere gli alunni delle elementari, la Von der Leyen si compiace. E la Germania pensa di risolvere i problemi di disoccupazione con la leva militare.Lo speciale contiene due articoli.«Cara Evika Silina, il tuo Paese sta diventando una vera potenza nel campo dei droni». Il post di X che Ursula von der Leyen ha dedicato al ministro presidente lettone, in occasione della sua visita «negli Stati di frontiera dell’Ue», è un manifesto della nuova Commissione europea. Un piano politico destinato a mettere l’elmetto in testa persino ai bambini. Cosa sta succedendo? Cominciamo dal sottolineare che, a Bruxelles, sono ben felici di assecondare l’ossessione dei baltici per il babau russo. Probabilmente, al di là della postura aggressiva e dei proclami sulle truppe da spedire al fronte per garantire la sicurezza di Kiev, sperano di delocalizzare il più possibile quello che considerano l’inevitabile scontro di civiltà con Mosca. In questo modo, daranno tempo agli Stati centrali di riorganizzare la difesa del continente. E pure di catechizzare l’opinione pubblica, visto che, per il momento, nel Paese che si candida a costruire l’esercito più potente dopo quello americano - la Germania - vanno di moda i libri di un blogger che si compiace di dichiarare: «Meglio occupati che morti».In questa operazione di marketing bellico, i droni svolgeranno un ruolo fondamentale. Sia perché sono una risorsa efficace e a buon mercato, che infatti tanto i russi quanto gli ucraini, ormai capaci di sfornarne in gran numero, hanno impiegato in quantità massicce. Sia perché essi alleggeriscono un po’ la percezione della brutalità dei combattimenti: eliminando il contatto fisico tra esseri umani, rendono moralmente meno problematica l’uccisione del nemico. Gli unici ad accorgersi che sono scoppiate delle bombe, alla fine, sono quelli che ci rimangono sotto. Ed è qui che nasce la tentazione di tirare in ballo i bimbi. Proprio dalla frontiera dell’Ue, quella che praticamente si sente già in trincea contro Vladimir Putin, stanno infatti partendo vari progetti per insegnare ai più piccoli come si fabbricano e come si usano i velivoli da guerra senza pilota.Ne ha parlato anche La Stampa ieri: tra pochi giorni, gli alunni delle elementari in Lituania, di ritorno sui banchi di scuola, si ritroveranno a frequentare lezioni dedicate alla costruzione e alla guida dei droni. «Ormai sono diventati una parte integrante non solo della scienza e dell’industria», ha spiegato a metà agosto il direttore dell’agenzia di educazione Linesa, Valdas Jankauskas, «ma anche della vita di tutti i giorni». Il progetto, ha giubilato il funzionario, darà alle giovani generazioni «la possibilità di conoscere questo settore dalla tenera età». Per fortuna, nella «vita di tutti i giorni», i droni al massimo vengono usati per scattare suggestive foto dall’alto di attività sportive, concerti o serate danzanti. C’è una bella differenza tra i giocattoli con le eliche che ogni tanto vediamo svolazzare in spiaggia oppure in discoteca e gli apparecchi, imbottiti di esplosivo, che piombano sui civili nelle città dell’Ucraina e sulle regioni di confine in Russia. Forse, in alcuni Stati europei si stanno portando avanti? L’idea è che, sin dalla «tenera età», i ragazzini debbano abituarsi a concepire la guerra come un aspetto della «vita di tutti i giorni»? I giovanissimi lituani chiamati a raccolta non saranno mica pochi: si tratta di 7.000 bambini dai 9 anni di età, parte di un corso che coinvolgerà in totale 22.000 connazionali. Costoro, entro il 2028, acquisiranno «abilità di controllo dei droni», anche attraverso «esperimenti pratici e giochi». Niente di più moderno e tecnologico che spingere i piccini a concepire la morte alla stregua di un videogame, quasi uguale a quello con cui già si divertono il pomeriggio, mentre siedono davanti a una qualche consolle. Anche se, dal punto di vista delle tattiche propagandistiche, resta minima la distanza dalle omelie dei professori ultranazionalisti che, nel 1914, incitavano gli studentelli ad arruolarsi nell’esercito del Secondo Reich, descritte da Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale. Niente di nuovo, appunto. Tant’è che pure i balilla, in assenza di bombardieri pilotabili da remoto, in classe imparavano a montare e smontare il moschetto.Alle porte della Federazione russa, si stanno organizzando parecchie iniziative simili: c’è il caso «pedagogico» della Lituania; c’è la Lettonia, «potenza dei droni» che fa gongolare la Von der Leyen e che ha già addestrato 32 giovani cadetti nelle specialità della guerra elettronica, lo scorso luglio; e non poteva mancare l’Estonia di Kaja Kallas, ex premier, oggi Alto rappresentante dell’Unione. Soprattutto, falco antirusso ispirata dalle persecuzioni dell’Urss subite dalla nonna e dalla madre, che vennero deportate in Siberia, mentre il babbo, Siim, faceva carriera nelle banche statali e nella gerarchia amministrativa sovietica, da iscritto al Partito comunista. Ebbene: entro la metà del 2026, Tallinn avvierà un programma di educazione all’impiego di droni, che addirittura rientra nell’accordo di coalizione della maggioranza al governo e che includerà l’invio di appositi «kit» alle scuole.Sarà pur vero che, per mantenere la pace, è sempre meglio prepararsi alla guerra. Ma chi si illude di poterla rendere seducente, o magari divertente, sta incappando in un errore pericoloso. Anche quei bambini lituani di 9 anni, un domani, capiranno che ammazzare un uomo non è come fare una partita alla Playstation.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pazzia-ue-droni-bimbi-2673942504.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="loccupazione-tedesca-e-ai-minimi-storici-e-merz-crea-lavoro-al-fronte-per-i-giovani" data-post-id="2673942504" data-published-at="1756542983" data-use-pagination="False"> L’occupazione tedesca è ai minimi storici e Merz crea lavoro al fronte per i giovani «Abbiamo sbagliato transizione». Se fossero onesti e trasparenti i decisori delle principali economie del Vecchio continente dovrebbero ammettere che il passaggio «forzato» dalle forme di energia più inquinanti a quelle «pulite» si sta dimostrando un flop epocale. E che per rimediare a quel fallimento (in termini di crescita del Pil, degli utili delle imprese e quindi di occupazione) si stanno creando i presupposti per un’altra forma di transizione, eticamente meno irreprensibile, quella che ci porterà verso un’economia di guerra.I segnali sono evidenti – ieri abbiamo parlato dell’emissione del primo bond (ad opera di una banca francese) per finanziare l’escalation militare del Vecchio continente – ma il piano annunciato qualche ore fa dal governo Merz (il disegno di legge è atteso al vaglio del parlamento) mostra plasticamente quello che potrebbe succederci nei prossimi anni. Certo, il cancelliere ha salvato la faccia evitando di introdurre subito la leva obbligatoria (era stata abolita nel 2011), ma il piano è studiato in modo che poi, se non verranno raggiunti i risultati sperati è lì che si andrà a parare, nella leva forzata.E quali sono questi risultati? A oggi la Bundeswehr (le forze armate tedesche) possono contare su circa 180.000 soldati e poco meno di 50.000 riservisti. Nella prospettiva del governo solo quando i militari avranno superato quota 250.000 unità e i riservisti avranno toccato la soglia dei 200.000 uomini si potranno dormire sonni più tranquilli. Non semplice, perché si tratta di ricreare un sistema, parte dalle caserme e arriva fino agli istruttori, che è stato quasi completamente smantellato negli anni in cui nessuno pensava che la pace potesse essere messa in discussione. Insomma, il progetto va un po’ spinto. E infatti i giovani tedeschi che a inizio 2026 riceveranno un questionario informativo (gli uomini saranno obbligati a compilarlo, le donne no), per capire la loro propensione all’avventura militare, saranno tentati da una discreta serie di benefit.Stipendio minimo di 2.300 euro al mese, vitto, alloggio ed assistenza sanitaria gratuita oltre ad altre «attenzioni» particolari. Basterà? Difficile dirlo. Quello che invece si può dire senza timore di smentita è che l’economia tedesca è costantemente sull’orlo della recessione. I timidi segnali di ripresa di gennaio, febbraio e marzo (+0,3% del Pil) sono stati vanificati dalla contrazione dello 0,3% del secondo trimestre 2025, anche perché la stima iniziale indicava un calo contenuto dello 0,1%. E i recentissimi dati sul tasso di disoccupazione confermano ad agosto le percentuali di luglio (il 6,3%), cioè il dato peggiore dal 2020 (i disoccupati hanno superato i 3 milioni). Tanto per intenderci, secondo l’ultimo Industry Barometer di Ernst & Young che analizza l’andamento delle vendite e dell’occupazione nell’industria tedesca, le imposizioni del Green deal hanno portato alla perdita di 51.000 posti solo nell’automotive. Se poi l’analisi si allarga e arriva a ricomprendere il periodo pre-Covid, arrivando al 2019, scopriamo che sono venuti a mancare circa 112.000 occupati. Dire che la crisi del modello tedesco sia esclusivamente colpa dell’ideologia green, che a un certo punto ha stravolto le strategie di buona parte dei colossi dell’industria, sarebbe sbagliato e limitativo. Ma di certo i diktat ambientalisti che vogliono costringere le case europee a dire addio ai motori termici entro il 2035 hanno avuto un ruolo fondamentale nella crisi di Berlino.E quindi torniamo a bomba sui piani di Merz e Macron: quello che il Green deal ha distrutto tocca riprenderselo con l’industria bellica. Non è un caso che nelle stesse ore in cui il cancelliere annunciava il piano per la leva militare, Rheinmetall (la maggiore azienda tedesca degli armamenti) stesse inaugurando quella che diventerà la più grande fabbrica di munizioni d’Europa. Il sito è ad Hannover, ma l’ad Armin Papperger è pronto a costruire altri stabilimenti in diversi Paesi della Nato. Perché quando la Germania si muove lo fa sempre per porsi alla guida del progetto e mai a ricasco.Certo, che in questo piano manca la voce dei diretti interessati. Sarebbe utile sapere cosa ne pensano i ragazzi e le ragazze tedesche. Sono contenti di scoprire il brivido della vita al fronte per prepararsi ad affrontare il pericolo russo? O farebbero volentieri a meno della nuova avventura? Un recente sondaggio dell’istituto YouGov, condotto per l’agenzia di stampa tedesca Dpa, rivela che tra i tedeschi c’è un sentimento abbastanza variegato. Il 54% degli intervistati si è espresso a favore del ritorno al servizio militare obbligatorio. Ma se poi si analizzano questi numeri dividendoli per fascia di età, si scopre che tra gli ultrasettantenni la percentuale di favorevoli è del 66%, mentre nella fascia compresa tra i 18 e i 29 anni solo un terzo (35%) sposa il sì.C’era da aspettarselo, ma siamo certi che a Berlino come a Bruxelles di quello che vogliono i diretti interessati importa poco o nulla.
Christine Lagarde (Ansa)
Come accade, ad esempio, in quel carrozzone chiamato Unione europea dove tutti, a partire dalla lìder maxima, Ursula von der Leyen, non dimenticano mai di inserire nella lista delle priorità l’aumento del proprio stipendio. Ne ha parlato la Bild, il giornale più letto e venduto d’Europa, raccontando come la presidente della Commissione europea abbia aumentato il suo stipendio, e quello degli euroburocrati, due volte l’anno. E chiunque non sia allergico alla meritocrazia così come alle regole non scritte dell’accountability (l’onere morale di rispondere del proprio operato) non potrà non scandalizzarsi pensando che donna Ursula, dopo aver trasformato l’Ue in un nano economico, ammazzando l’industria europea con il folle progetto del Green deal, percepisca per questo capolavoro gestionale ben 35.800 euro al mese, contro i 6.700 netti che, ad esempio, guadagna il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.
Allo stesso modo funzionano le altre istituzioni dell’Unione europea. L’Ue impiega circa 60.000 persone all’interno delle sue varie istituzioni e organi, distribuiti tra Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo (la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, la Corte di giustizia dell’Unione europea e il Comitato economico e sociale). La funzione pubblica europea ha tre categorie di agenti: gli amministratori, gli assistenti e gli assistenti segretari. L’Ue contrattualizza inoltre molti agenti contrattuali. Secondo i dati della Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 2019, questi funzionari comunitari guadagnano tra 4.883 euro e 18.994 euro mensili (gradi da 5 a 16 del livello 1).
Il «vizietto» di alzarsi lo stipendio ha fatto scuola anche presso la Banca centrale europea (Bce), che ha sede a Francoforte, in Germania, ed è presieduta dalla francese, Christine Lagarde. Secondo quanto riassunto nel bilancio della Bce, lo stipendio base annuale della presidente è aumentato del 4,7 per cento, arrivando a 466.092 euro rispetto ai 444.984 euro percepiti nel 2023 (cui si aggiungono specifiche indennità e detrazioni fiscali comunitarie, diverse da quelle nazionali), ergo 38.841 euro al mese. Il vicepresidente Luis de Guindos, spagnolo, percepisce circa 400.000 euro (valore stimato in base ai rapporti precedenti, di solito corrispondente all’85-90% dello stipendio della presidente). Gli altri membri del comitato esecutivo guadagnano invece circa 330.000-340.000 euro ciascuno. Ai membri spettano anche le indennità di residenza (15% dello stipendio base), di rappresentanza e per figli a carico, che aumentano il netto effettivo. Il costo totale annuale del personale della Bce è di 844 milioni di euro, valore che include stipendi, indennità, contributi previdenziali e costi per le pensioni di tutti i dipendenti della banca. Il dato incredibile è che questa voce è aumentata di quasi 200 milioni in due anni: nel 2023, infatti, il costo totale annuale del personale era di 676 milioni di euro. Secondo una nota ufficiale della Bce, l’incremento del 2024 è dovuto principalmente a modifiche nelle regole dei piani pensionistici e ai benefici post impiego, oltre ai normali adeguamenti salariali legati all’inflazione, cresciuta del 2,4 per cento a dicembre dello scorso anno. La morale è chiara ed è la stessa riassunta ieri dal direttore, Maurizio Belpietro: per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, ma se si tratta dello stipendio dei funzionari Ue, il discorso non vale.
Stessa solfa alla Corte di Giustizia che ha sede a Lussemburgo: gli stipendi variano notevolmente a seconda della posizione (avvocato, cancelliere, giudice, personale amministrativo), ma sono generalmente elevati, con giuristi principianti che possono guadagnare da 2.000 a 5.000 euro al mese e stipendi più alti per i magistrati, anche se cifre precise per i giudici non sono facilmente disponibili pubblicamente. Gli stipendi si basano sulle griglie della funzione pubblica europea e aumentano con l’anzianità, passando da 2.600 euro per il personale esecutivo a oltre 18.000 euro per alcuni alti funzionari.
Il problema, va precisato, non risiede nel fatto che le persone competenti siano pagate bene, com’è giusto che sia, ma che svolgano bene il proprio lavoro e soprattutto che ci sia trasparenza sui salari. Dei risultati delle politiche di Von der Leyen e Lagarde i giudici non sono esattamente entusiastici, ma il conto lo pagano, come al solito, i cittadini europei.
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Carlo Cottarelli (Ansa)
Punto secondo. I trattati europei prevedono che l’oro debba essere posseduto dalla banca centrale di ogni singolo Paese? No, basta che sia gestito dall’istituto, prova ne sia che in Francia è di proprietà dello Stato ma la Banque de France è autorizzata a inserirlo per legge nel proprio attivo.
Già qui si capisce che il punto numero uno non è un dogma, ma una scelta politica. Infatti, se a Parigi è stabilito che i lingotti custoditi nei caveau della banca centrale sono dello Stato e non dell’istituto, il quale può iscriverli a bilancio nello stato patrimoniale, è evidente che ciò che sta chiedendo il governo italiano non è affatto una cosa strana, ma si tratta di un chiarimento necessario a stabilire che l’oro non è di Bruxelles o di Francoforte e neppure di via Nazionale, dove ha sede la nostra banca centrale, ma degli italiani.
È così difficile da comprendere? La Bce, scrive Cottarelli, non capisce perché l’Italia voglia specificare che le riserve sono dello Stato e «solo» affidate in gestione alla Banca d’Italia. E si chiede: quali vantaggi ci sarebbero per il popolo italiano se diventasse proprietario dell’oro? «Gli effetti pratici», si risponde il professore, «almeno nell’immediato, sarebbero nulli». Provo a ribaltare la domanda di Cottarelli: quali svantaggi ci sarebbero se all’improvviso il popolo italiano scoprisse che l’oro non è suo ma della Banca d’Italia e un giorno la Bce decidesse di annettersi le riserve auree degli istituti centrali? La risposta mi sembra facile: gli effetti pratici non sarebbero affatto nulli per il nostro Paese, che all’improvviso si troverebbe privato di un capitale del valore di circa 280 miliardi di euro.
Cottarelli chiarisce che il timore della Bce è dovuto al fatto che l’emendamento alla legge di Bilancio, con cui si vuole sancire che la proprietà dell’oro è del popolo italiano, in teoria potrebbe consentire al governo, al Parlamento o al popolo italiano la vendita dei lingotti. «Sarebbe demenziale», sentenzia il professore, perché l’oro «è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze». È vero ciò che sostiene l’ex senatore del Pd. Peccato che nessuno abbia mai parlato di vendere le riserve auree (anzi, nel passato ne parlò Romano Prodi, che mi risulta stia dalla stessa parte politica di Cottarelli), ma soltanto di stabilire di chi siano, se della Banca d’Italia, e dunque vigilate dalla Bce, o del popolo italiano.
Il professore però fa anche un’altra affermazione assolutamente vera: l’oro è una riserva strategica da usare in gravissime emergenze. Ma chi stabilisce quando è gravissima un’emergenza? E, soprattutto, chi può decidere di usare quella riserva strategica? Il governo, il Parlamento, il popolo italiano o la Banca d’Italia su ordine della Bce? È tutto qui il nocciolo del problema: se l’oro è nostro ogni decisione - giusta o sbagliata - spetta a noi. Se l’oro è della Banca d’Italia o della Bce, a stabilire che cosa fare della riserva strategica sarà l’istituto centrale, italiano o europeo. In altre parole: dobbiamo lasciare i lingotti italiani in mano alla Lagarde, che magari di fronte a un’emergenza decide di darli in garanzia per comprare armi da destinare agli ucraini?
Tanto per chiarire che cosa significherebbe tutto ciò, va detto che l’Italia è il terzo Paese al mondo per riserve auree. Il primo sono gli Stati Uniti, poi c’è la Germania, quindi noi. La Francia ne ha meno, la Spagna quasi un decimo, Grecia, Ungheria e Romania hanno 100 tonnellate o poco più, contro le nostre 2.400. Guardando i numeri è facile capire che il nostro oro fa gola a molti e metterci le mani, sottraendolo a quelle legittime degli italiani, sarebbe un affarone. Per la Bce, ovviamente, non certo per noi. Quanto al debito pubblico, che Cottarelli rammenta dicendo che se siamo proprietari dei lingotti lo siamo anche dell’esposizione dello Stato per 3.000 miliardi, è vero. Siamo tra i più indebitati al mondo: quinti in valore assoluto. Ma avere debiti non è una buona ragione per regalare 280 miliardi alla Lagarde, considerando soprattutto che circa il 70 per cento dei nostri titoli di Stato sono nelle mani di famiglie e istituzioni italiane, non della Bce.
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