La decisione della Consulta di dare la luce verde alla misura sugli extra costi nella sanità mette in ginocchio l’intero settore, un’eccellenza italiana fatta soprattutto di Pmi. Gli imprenditori: «Siamo in mezzo al guado, così finiremo per chiudere».
La decisione della Consulta di dare la luce verde alla misura sugli extra costi nella sanità mette in ginocchio l’intero settore, un’eccellenza italiana fatta soprattutto di Pmi. Gli imprenditori: «Siamo in mezzo al guado, così finiremo per chiudere».Due aziende su cinque rischiano di chiudere. Il che vuol dire una strage di posti di lavoro in un settore, quale è quello dei dispositivi medicali, in cui l’Italia è un’eccellenza nel mondo. Basti pensare che il distretto biomedicale di Mirandola è considerato il più importante del comparto in Europa e il terzo nel mondo. Su questo settore costituito soprattutto da piccole e medie imprese si è abbattuta la valanga della sentenza della Corte costituzionale che, dopo aver tenuto nel limbo le aziende per mesi, sollecitata da migliaia di ricorsi, ha salvato la manovra del famigerato payback, gli extra costi sanitari che con il governo Draghi, per mano dei ministri Roberto Speranza e Daniele Franco, sono stati scaricati sulle aziende del settore. Stiamo parlando di una vera e propria patrimoniale che nel periodo 2015-2018 vale ben 3,6 miliardi. Ora a bocce ferme gli imprenditori fanno un bilancio di quanto verrà a costare. Nella tenaglia sono finite oltre 6.000 imprese di cui il 44% ha meno di dieci addetti e il 70% ha in organico meno di 50 dipendenti. Da uno studio Nomisma, commissionato da Pmi sanità, associazione costituita due anni fa, che conta oltre 200 piccole e medie imprese fornitrici di dispositivi medici, vittime di questa mostruosità normativa, emerge che già nel 2015 una impresa su otto è cessata o è in stato di insolvenza per cui non potrà pagare, mentre due su cinque si troverebbero in forte difficoltà economica nel dover pagare il payback. Si tratta di società che impiegano circa 190.000 addetti e già si sono dissanguate con le imposte versando 960 milioni nel 2021 e 3,828 miliardi nel periodo 2015-2018. «Siamo esterrefatti. Sono in gioco non solo posti di lavoro ma anche la tenuta del Sistema sanitario nazionale. La sentenza colpisce aziende spesso a gestione familiare, dove il datore di lavoro è l’ultimo dipendente di se stesso e dove gli utili, in media il 7-8% sul fatturato, sono lasciati nei bilanci per finanziare i ritardi di pagamento delle Pa e gli alti costi che vengono anticipati per la costituzione di magazzini di dispositivi presso le strutture ospedaliere, garanzie assicurative per la partecipazione agli appalti. Ma anche filiali italiane di aziende estere, in Italia dalle dimensioni di Pmi con personale e investimenti su tutto il territorio e utili che non superano il 4%»: è lo scenario tratteggiato da Gennaro Broya de Lucia, presidente dell’associazione Pmi sanità e consulente alle vendite di Eukon (fornitore di circa 400 ospedali). Il manager mette in evidenza anche un altro aspetto: «Questo furto colpisce quasi esclusivamente i distributori e non i produttori visto che questi spesso non vendono direttamente alle amministrazioni come invece accade nel settore farmaceutico in presenza di colossi come Pfizer, Bayer o altri. Siamo di fronte a debiti enormi perché riguardano intere Regioni che, con il meccanismo della compensazione automatica tra debiti e crediti, hanno trasferito il debito di tutti su pochi soggetti». E se la finalità originaria era di finanziare le casse dello Stato, «alla fine si avrà il paradosso che il bilancio pubblico dovrà farsi carico dei costi degli ammortizzatori sociali come paracadute di chi perderà il lavoro».Antonio Sammali, imprenditore basato in Emilia Romagna con due piccole aziende di settore e una ventina di dipendenti, esprime a La Verità la sua preoccupazione. «Le mie due imprese, di cui una nata di recente, fatturano rispettivamente 3 e 5 milioni e dovrebbero pagare di payback circa mezzo milione, ma ho stimato che nella seconda fase l’impatto sarà più pesante. Oggi mi trovo nella situazione di non riuscire a formulare un’offerta alle amministrazioni perché se dovessi riversare sul costo del dispositivo medico l’onere del payback dovrei raddoppiare i listini altrimenti rischierei di fallire. Io e tanti imprenditori ci troviamo in mezzo al guado. Che prezzi dobbiamo applicare? Ci assumiamo il rischio che il payback possa essere eliminato? Sono domande senza risposta». E aggiunge che per rientrare nel budget ha già tagliato tante spese, «comprese quelle della formazione, essenziale in questo settore». Un’altra voce che dà il polso dello smarrimento nel comparto è quella di Andrea Barocco, amministratore di una srl fornitrice di dispositivi ortopedici, con sede a Torino. «Anche se piccoli, abbiamo sei dipendenti, siamo molto concorrenziali, ma ora rischiamo di chiudere», dice alla Verità, «Fatturo circa 1,5 milioni e dovrei pagare 1,1 milione e con lo sconto 550.000 euro. Ma mi sono già svenato con le tasse e non ce la faccio. Non c’è alternativa, la legge va cambiata. In Piemonte siamo tanti con fatturati tra il 1,5 milioni e 5 milioni. Abbiamo diversi oneri come quello di fornire i dispositivi in conto deposito agli ospedali che poi pagano solo quelli che utilizzano. Poi oltre alle forniture facciamo assistenza, tramite nostri specialisti ai medici in sala operatoria per la corretta applicazione dello strumentario». Barocco sottolinea che l’Italia è all’avanguardia nei dispositivi ortopedici, «ma così rischiamo di consegnare il settore alle multinazionali che non hanno alcuna difficoltà, con i loro grandi fatturati, a pagare il payback».
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
iStock
Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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