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2024-02-15
Altro sì al patto Ue sui migranti, Ong deluse
(Ansa)
A giudicare dalla reazione delle sinistre e delle Ong, il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, che ha fatto un passo importante verso l’approvazione definitiva, una volta a regime rappresenterà un concreto giro di vite rispetto alla disinvoltura e alla facilità con sui si è concessa finora la protezione ai migranti. Dopo che, ieri mattina, l’accordo raggiunto nel Trilogo sul finire dell’anno scorso tra Stati nazionali ed istituzioni europee è stato confermato e approvato dalla commissione libertà civili del Parlamento europeo, per tutta la giornata si sono susseguite dichiarazioni al vetriolo di alcuni parlamentari dell’opposizione italiana e le proteste di numerose associazioni non governative. Le votazioni sui diversi regolamenti del nuovo Patto hanno evidenziato ciò che, con l’avvicinarsi delle elezioni Europee, è inevitabile, e cioè che anche le componenti moderate e liberali dell’Europarlamento si stanno distanziando dalle politiche immigrazioniste dei «rossoverdi» europei, come dimostrano anche le iniziative che governi nazionali a guida liberale (come ad esempio la Francia) stanno prendendo sul proprio territorio su questi temi.
Già il fatto che, al momento dell’accordo di dicembre, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen aveva parlato di «tappa storica», la dice lunga sul cambiamento di clima politico. Se si prende in considerazione la proposta originaria avanzata a suo tempo dal Parlamento europeo, targata fondamentalmente Pse e zeppa di principi immigrazionisti, la mutazione è completa. Non si tratta, evidentemente, del testo che avrebbero voluto i gruppi conservatori e di destra presenti a Strasburgo, ma vi sono alcuni regolamenti contenuti nel patto che, nella votazione per parti separate che si è tenuta ieri in commissione, hanno ottenuto anche il voto delle opposizioni di centrodestra.
Facciamo un passo indietro: di che cosa tratta e come è strutturato il Patto Ue su Migrazione e Asilo? Anzitutto, si tratta di un testo costituito da un pacchetto di regolamenti per diversi ambiti. Il regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione è passato con 41 voti a favore, 24 contrari e 2 astensioni. Questa parte del Patto prevede controlli più severi sui migranti che arrivano nell’Unione europea, con l’aumento delle strutture vicine alle frontiere atte a respingere più rapidamente chi non ha diritto all’asilo. Poi c’è la solidarietà obbligatoria per i Paesi dell’Ue riconosciuti come sottoposti a pressione migratoria. Gli Stati membri possono scegliere se ricollocare i richiedenti asilo sul proprio territorio, se fornire contributi finanziari o se fornire supporto operativo e tecnico, quando necessario. Su questi punti è rimasta forte l’opposizione dell’Ungheria. Il regolamento sulle situazioni di crisi ha ottenuto 37 voti a favore, 26 contrari e 4 astensioni, e tratta sostanzialmente di come aiutare gli Stati membri che si trovano ad affrontare un afflusso eccezionale di cittadini di Paesi terzi. Ok anche all’accordo sul regolamento sullo screening, che è stato approvato, così come il sistema centralizzato di informazioni sulle condanne, con 48 voti a favore, 16 contrari e 2 astensioni, In base al nuovo regolamento sullo screening, le persone che non soddisfano le condizioni per entrare nell’Ue saranno sottoposte a una procedura di screening pre ingresso, consistente nell’identificazione, raccolta di dati biometrici, controlli sanitari e di sicurezza, per un massimo di sette giorni.
È passato anche l’accordo sulle procedure comuni in tutta l’Ue per la concessione e la revoca della protezione internazionale, che andranno a sostituire le diverse procedure utilizzate nei vari Stati. Il cambio di passo è evidente: ci sarà un meccanismo di «filtraggio» dei migranti e una procedura accelerata alla frontiera per coloro che hanno statisticamente meno probabilità di ottenere l’asilo. Questa procedura si applicherà ai cittadini dei Paesi in cui il tasso di riconoscimento dello status di rifugiato da parte dell’Ue è inferiore al 20%. Sarà applicata anche alle famiglie con bambini di età inferiore ai dodici anni. Un’altra parte dell’accordo che ha avuto il via libera dalla commissione e che di certo segna una stretta, è l’accordo sulla nuova banca dati Eurodac, concepita in modo da identificare più efficacemente chi arriva illegalmente sul territorio Ue. Alle impronte digitali, infatti, si aggiungeranno le immagini facciali anche per i bambini dai sei anni in su. Le autorità saranno anche in grado di registrare se qualcuno potrebbe rappresentare una minaccia alla sicurezza o è stato violento o armato.
Per arrivare all’approvazione completa, manca ancora il via libera della plenaria e quindi l’ok definitivo del Consiglio. Sinistra e Ong, però, come detto sono già sul piede di guerra. Un’ottantina tra Ong e associazioni della società civile orientate a sinistra, avevano fatto circolare un appello contro l’accordo nelle ore precedenti al voto, per poi criticare il via libera della Commissione. Secondo queste, le nuove regole favoriranno la violazione dei diritti umani e le detenzioni. Sul fronte politico, il più duro è stato l’eurodeputato dem Pietro Bartolo, per il quale si tratta di un patto «inaccettabile», che «cede alle richieste di Orbán».
Gualmini rilancia la euro direttiva che ingabbia i lavoratori digitali
Sulla nuova direttiva per i lavoratori delle piattaforme digitali, domani sarà il giorno decisivo, e man mano che si appressa il momento della verità, alcune prese di posizione politiche lasciano intendere quale sia la posta politica in gioco. Nel corso della seduta della commissione per l’occupazione e gli affari sociali dell’Europarlamento che si è tenuta ieri, infatti, l’intervento della deputata del Pse Elisabetta Gualmini, molto vicina alla segretaria dem Elly Schlein, ha scoperto ulteriormente le carte dell’eurosinistra. Quest’ultima si è prodotta in una difesa a spada tratta della direttiva che – c’è da ricordare – è stata concepita, messa da parte e poi resuscitata con un timing pre-elettorale quantomeno sospetto da una triade socialista composta dal Commissario Ue al Lavoro, il lussemburghese Nicolas Schmit, dalla ministra del lavoro spagnola Yolanda Diaz e dalla stessa Gualmini.
«È giunto il momento», ha detto, «che gli Stati membri si assumano le proprie responsabilità e approvino questo accordo», aggiungendo di sperare in un voto positivo domani. «Sono coinvolti», ha detto ancora, «più di 30 milioni di lavoratori e 5,5 milioni sono falsi lavoratori autonomi». In realtà il testo frutto dell’accordo della settimana scorsa, lungi dal suscitare un apprezzamento unanime per i benefici che apporterà alle condizioni dei lavoratori della cosiddetta gig economy, ha provocato una levata di scudi di numerose categorie di lavoratori, le quali hanno protestato con diverse sfumature, contestando però nella sostanza un punto fondamentale.
Secondo loro, infatti, la direttiva, se approvata, calerebbe dall’alto un corpus di obblighi e regolamenti, che determinerebbe una colossale e non necessaria sottoposizione di decine di milioni lavoratori a un’unica disciplina. Una vera e propria irreggimentazione di massa, anche in settori dove c’è una lunga tradizione di rappresentanza, di contrattazione. A fare sentire per primi la propria voce, i rappresentati dei tassisti a livello europeo, «Chiediamo», hanno affermato in una nota distribuita lunedì scorso, «che venga mantenuta una chiara distinzione tra taxi e piattaforme esclusivamente digitali», poiché «i taxi sono altamente regolamentati e garantiscono la mobilità per tutti in ogni momento. Di conseguenza», hanno aggiunto, «un approccio unico per tutti rischia di eliminare le chiamate stradali e la disponibilità di taxi in luoghi chiave, come gli ospedali». Anche i rappresentanti italiani degli Ncc, attraverso Anitrav, hanno criticato la direttiva, rivolgendosi direttamente al governo italiano e facendo presente che, di fronte a un pressing sul Consiglio Ue così forte da parte dei socialisti, forse è il caso che l’Italia riveda il consenso fornito alla direttiva nelle precedenti occasioni di confronto. Il testo che andrà in votazione, infatti, pone anche un problema di sovranità sui temi legati alle politiche di lavoro e salariali dei governi nazionali, così come l’operazione politica condotta dalle opposizioni italiane sul salario minimo era stata criticata dal governo Meloni per la sua strumentalità politica e per il fatto che aboliva la contrattazione.
Non è un caso che, nelle ultime ore, altre categorie si stanno aggiungendo a quelle che hanno manifestato contrarietà alla direttiva: dopo taxi e Ncc, ci sono da registrare le proteste di Univendita, l’associazione maggiormente rappresentativa delle grandi aziende della vendita diretta, secondo le quali il testo in questione determinerebbe la fuga di tutti quegli operatori che hanno interesse a rimanere autonomi.
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La commissione Libertà civili dell’Europarlamento approva, anche con il voto dei conservatori, l’intesa che sconfessa la linea pro invasione dei socialisti. A vuoto l’appello delle associazioni. Il Pd: «Ha vinto Orbán». Ora serve l’ok della plenaria e poi del Consiglio.Lavoratori delle piattaforme digitali: domani il governo deve esprimersi. Tra i contrari, oltre ai taxisti, i venditori a domicilio.Lo speciale contiene due articoli.A giudicare dalla reazione delle sinistre e delle Ong, il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, che ha fatto un passo importante verso l’approvazione definitiva, una volta a regime rappresenterà un concreto giro di vite rispetto alla disinvoltura e alla facilità con sui si è concessa finora la protezione ai migranti. Dopo che, ieri mattina, l’accordo raggiunto nel Trilogo sul finire dell’anno scorso tra Stati nazionali ed istituzioni europee è stato confermato e approvato dalla commissione libertà civili del Parlamento europeo, per tutta la giornata si sono susseguite dichiarazioni al vetriolo di alcuni parlamentari dell’opposizione italiana e le proteste di numerose associazioni non governative. Le votazioni sui diversi regolamenti del nuovo Patto hanno evidenziato ciò che, con l’avvicinarsi delle elezioni Europee, è inevitabile, e cioè che anche le componenti moderate e liberali dell’Europarlamento si stanno distanziando dalle politiche immigrazioniste dei «rossoverdi» europei, come dimostrano anche le iniziative che governi nazionali a guida liberale (come ad esempio la Francia) stanno prendendo sul proprio territorio su questi temi. Già il fatto che, al momento dell’accordo di dicembre, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen aveva parlato di «tappa storica», la dice lunga sul cambiamento di clima politico. Se si prende in considerazione la proposta originaria avanzata a suo tempo dal Parlamento europeo, targata fondamentalmente Pse e zeppa di principi immigrazionisti, la mutazione è completa. Non si tratta, evidentemente, del testo che avrebbero voluto i gruppi conservatori e di destra presenti a Strasburgo, ma vi sono alcuni regolamenti contenuti nel patto che, nella votazione per parti separate che si è tenuta ieri in commissione, hanno ottenuto anche il voto delle opposizioni di centrodestra. Facciamo un passo indietro: di che cosa tratta e come è strutturato il Patto Ue su Migrazione e Asilo? Anzitutto, si tratta di un testo costituito da un pacchetto di regolamenti per diversi ambiti. Il regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione è passato con 41 voti a favore, 24 contrari e 2 astensioni. Questa parte del Patto prevede controlli più severi sui migranti che arrivano nell’Unione europea, con l’aumento delle strutture vicine alle frontiere atte a respingere più rapidamente chi non ha diritto all’asilo. Poi c’è la solidarietà obbligatoria per i Paesi dell’Ue riconosciuti come sottoposti a pressione migratoria. Gli Stati membri possono scegliere se ricollocare i richiedenti asilo sul proprio territorio, se fornire contributi finanziari o se fornire supporto operativo e tecnico, quando necessario. Su questi punti è rimasta forte l’opposizione dell’Ungheria. Il regolamento sulle situazioni di crisi ha ottenuto 37 voti a favore, 26 contrari e 4 astensioni, e tratta sostanzialmente di come aiutare gli Stati membri che si trovano ad affrontare un afflusso eccezionale di cittadini di Paesi terzi. Ok anche all’accordo sul regolamento sullo screening, che è stato approvato, così come il sistema centralizzato di informazioni sulle condanne, con 48 voti a favore, 16 contrari e 2 astensioni, In base al nuovo regolamento sullo screening, le persone che non soddisfano le condizioni per entrare nell’Ue saranno sottoposte a una procedura di screening pre ingresso, consistente nell’identificazione, raccolta di dati biometrici, controlli sanitari e di sicurezza, per un massimo di sette giorni. È passato anche l’accordo sulle procedure comuni in tutta l’Ue per la concessione e la revoca della protezione internazionale, che andranno a sostituire le diverse procedure utilizzate nei vari Stati. Il cambio di passo è evidente: ci sarà un meccanismo di «filtraggio» dei migranti e una procedura accelerata alla frontiera per coloro che hanno statisticamente meno probabilità di ottenere l’asilo. Questa procedura si applicherà ai cittadini dei Paesi in cui il tasso di riconoscimento dello status di rifugiato da parte dell’Ue è inferiore al 20%. Sarà applicata anche alle famiglie con bambini di età inferiore ai dodici anni. Un’altra parte dell’accordo che ha avuto il via libera dalla commissione e che di certo segna una stretta, è l’accordo sulla nuova banca dati Eurodac, concepita in modo da identificare più efficacemente chi arriva illegalmente sul territorio Ue. Alle impronte digitali, infatti, si aggiungeranno le immagini facciali anche per i bambini dai sei anni in su. Le autorità saranno anche in grado di registrare se qualcuno potrebbe rappresentare una minaccia alla sicurezza o è stato violento o armato. Per arrivare all’approvazione completa, manca ancora il via libera della plenaria e quindi l’ok definitivo del Consiglio. Sinistra e Ong, però, come detto sono già sul piede di guerra. Un’ottantina tra Ong e associazioni della società civile orientate a sinistra, avevano fatto circolare un appello contro l’accordo nelle ore precedenti al voto, per poi criticare il via libera della Commissione. Secondo queste, le nuove regole favoriranno la violazione dei diritti umani e le detenzioni. Sul fronte politico, il più duro è stato l’eurodeputato dem Pietro Bartolo, per il quale si tratta di un patto «inaccettabile», che «cede alle richieste di Orbán».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/patto-ue-migranti-2667286835.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gualmini-rilancia-la-euro-direttiva-che-ingabbia-i-lavoratori-digitali" data-post-id="2667286835" data-published-at="1707991853" data-use-pagination="False"> Gualmini rilancia la euro direttiva che ingabbia i lavoratori digitali Sulla nuova direttiva per i lavoratori delle piattaforme digitali, domani sarà il giorno decisivo, e man mano che si appressa il momento della verità, alcune prese di posizione politiche lasciano intendere quale sia la posta politica in gioco. Nel corso della seduta della commissione per l’occupazione e gli affari sociali dell’Europarlamento che si è tenuta ieri, infatti, l’intervento della deputata del Pse Elisabetta Gualmini, molto vicina alla segretaria dem Elly Schlein, ha scoperto ulteriormente le carte dell’eurosinistra. Quest’ultima si è prodotta in una difesa a spada tratta della direttiva che – c’è da ricordare – è stata concepita, messa da parte e poi resuscitata con un timing pre-elettorale quantomeno sospetto da una triade socialista composta dal Commissario Ue al Lavoro, il lussemburghese Nicolas Schmit, dalla ministra del lavoro spagnola Yolanda Diaz e dalla stessa Gualmini. «È giunto il momento», ha detto, «che gli Stati membri si assumano le proprie responsabilità e approvino questo accordo», aggiungendo di sperare in un voto positivo domani. «Sono coinvolti», ha detto ancora, «più di 30 milioni di lavoratori e 5,5 milioni sono falsi lavoratori autonomi». In realtà il testo frutto dell’accordo della settimana scorsa, lungi dal suscitare un apprezzamento unanime per i benefici che apporterà alle condizioni dei lavoratori della cosiddetta gig economy, ha provocato una levata di scudi di numerose categorie di lavoratori, le quali hanno protestato con diverse sfumature, contestando però nella sostanza un punto fondamentale. Secondo loro, infatti, la direttiva, se approvata, calerebbe dall’alto un corpus di obblighi e regolamenti, che determinerebbe una colossale e non necessaria sottoposizione di decine di milioni lavoratori a un’unica disciplina. Una vera e propria irreggimentazione di massa, anche in settori dove c’è una lunga tradizione di rappresentanza, di contrattazione. A fare sentire per primi la propria voce, i rappresentati dei tassisti a livello europeo, «Chiediamo», hanno affermato in una nota distribuita lunedì scorso, «che venga mantenuta una chiara distinzione tra taxi e piattaforme esclusivamente digitali», poiché «i taxi sono altamente regolamentati e garantiscono la mobilità per tutti in ogni momento. Di conseguenza», hanno aggiunto, «un approccio unico per tutti rischia di eliminare le chiamate stradali e la disponibilità di taxi in luoghi chiave, come gli ospedali». Anche i rappresentanti italiani degli Ncc, attraverso Anitrav, hanno criticato la direttiva, rivolgendosi direttamente al governo italiano e facendo presente che, di fronte a un pressing sul Consiglio Ue così forte da parte dei socialisti, forse è il caso che l’Italia riveda il consenso fornito alla direttiva nelle precedenti occasioni di confronto. Il testo che andrà in votazione, infatti, pone anche un problema di sovranità sui temi legati alle politiche di lavoro e salariali dei governi nazionali, così come l’operazione politica condotta dalle opposizioni italiane sul salario minimo era stata criticata dal governo Meloni per la sua strumentalità politica e per il fatto che aboliva la contrattazione. Non è un caso che, nelle ultime ore, altre categorie si stanno aggiungendo a quelle che hanno manifestato contrarietà alla direttiva: dopo taxi e Ncc, ci sono da registrare le proteste di Univendita, l’associazione maggiormente rappresentativa delle grandi aziende della vendita diretta, secondo le quali il testo in questione determinerebbe la fuga di tutti quegli operatori che hanno interesse a rimanere autonomi.
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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