
Il patron del Torino ha eliminato costi superflui per 117 milioni nel solo 2017. Il 90% dal comparto servizi e il 10% tra il personale. In programma sforbiciate per altri 28 milioni entro fine anno.Ci deve essere del genio sicuramente in quell'uomo, ma soprattutto ci deve essere molta tenacia e meticolosità. Il metodo è fondamentale. Lui è Urbano Cairo l'imprenditore, patron del Torino (di fatto l'unico editore puro in Italia) che in poco tempo ha fatto rinascere Rcs dalle ceneri. In neanche 20 mesi, da quando conquistò l'editrice del Corriere della Sera, nella piena estate del 2016, Urbano Cairo è riuscito nel miracolo di resuscitare dalle ceneri il primo gruppo editoriale italiano, reduce da perdite per oltre un miliardo negli ultimi anni. Pensavano in molti allora che per uno, certo molto capace ma che veniva dall'editoria periodica di stampo nazional popolare, l'impresa della conquista del colosso Rcs fosse un azzardo. Di fatto c'era il rischio che l'impegno finanziario messo nella partita dell'esangue Rizzoli-Rcs potesse travolgere lui è la sua Cairo communication. Ha smentito molti. Lo dicono le cifre sfornate nel primo anno intero della sua gestione, il 2017 appena chiuso. Pur con ricavi in calo (come accade per tutta l'editoria italiana ormai dal lontano 2010) di 72 milioni tra il 2016 e il 2017 è riuscito, e qui si misura la sua tenacia e abilità gestionale, a restituire la redditività perduta del gruppo Rcs. Il margine industriale, salito da 90 milioni a 138 milioni, valeva a fine 2017 il 15,4% dei ricavi, una profittabilità che ben pochi oggi vantano nel settore. Già a fine del 2016 quando da neanche cinque mesi Cairo era salito sulla tolda di comando la redditività industriale era sì salita, ma si fermava a meno del 10% del fatturato. Ma la velocità con cui Cairo ha messo mani ai conti del gruppo è impressionante. A giugno del 2016 un mese prima della conquista, il margine operativo lordo del gruppo Rcs era a quota 34 milioni su 504 milioni di ricavi non andando oltre il 7%. Un anno e mezzo è bastato all'imprenditore alessandrino cresciuto in gioventù a pane e pubblicità alla scuola di Silvio Berlusconi, per raddoppiare di fatto la profittabilità industriale. Il segreto non è poi così oscuro e miracoloso. Bastava affondare le mani, mani di forbice vien da dire, nelle colossali inefficienze gestionali del primo editore italiano cui i vecchi, plurimi e litigiosi azionisti di peso evidentemente non badavano. Nel primo anno pieno del suo controllo Cairo ha tagliato tra costi operativi e costo del lavoro la bellezza di 117,5 milioni. Il ritmo metodico è di meno di 10 milioni al mese. Se volete fanno 300.000 euro al giorno, sabato e domenica compresi, di risparmi. Più del 90% della sforbiciata hanno riguardato le spese generali e i servizi, il personale ha contribuito per soli 10 milioni. Oggi, o meglio a fine 2017 il complesso di tutti i costi valeva 749 milioni su 896 milioni di ricavi. Nel giugno del 2016, un mese prima dell'arrembaggio riuscito alla corazzata nello scontro a colpi di Opa con Andrea Bonomi e la cordata di Mediobanca e vecchi soci, quei costi si mangiavano oltre il 92% dell'intero fatturato. E che dire del 2015 quando su un miliardo di ricavi i costi toccavano i 998 milioni? Ora l'equilibrio tra costi e ricavi è raggiunto e l'utile netto è salito a 71 milioni dai soli 3,5 milioni del 2016. Un cambio di pelle radicale. Non solo. Cairo ha portato i debiti con le banche a 287 milioni dai 487 milioni che gravavano su Rcs fino a tutto il 2015. Ora quei debiti, per i quali le banche, Intesa in testa, hanno seriamente temuto, sono del tutto sotto controllo. Valgono solo due volte il margine lordo e poco più di una volta e mezzo il capitale. Tra l'altro l'imprenditore alessandrino ha promesso di ridurre ulteriormente il debito finanziario per fine anno a 200 milioni. E di tagliare entro la fine del 2018 altri 28 milioni di euro, con la stessa proporzione tra costi operativa e costi del lavoro, ovvero nove a uno. Già oggi Rcs non è più in tensione finanziaria come è stata per anni e la crescita così sostenuta dei margini non lascia dubbio alcuno sulla rimborsabilità futura del debito. Risanata e di nuovo fortemente redditizia. Il margine operativo lordo a oltre il 15% del fatturato oggi se lo sognano tutti i concorrenti. Il gruppo l'Espresso (oggi Gedi dopo a fusione di Repubblica con la La Stampa e il Secolo XIX), da sempre quello con la più alta profittabilità, arriva a malapena a un margine lordo sui ricavi all'8% quasi la metà del risultato sfornato in poco più di un anno e mezzo dalla nuova Rcs a marchio Cairo. La cura sui costi senza deprimere l'efficienza aziendale è la specialità, riconosciuta da tutti, in cui Cairo è maestro. Tutte le sue attività producono profitti e flussi di cassa. La Cairo Communication non ha mai chiuso in perdita anche negli anni della crisi e sforna una media di utili di 20 milioni l'anno. In cassa ci sono tuttora 125 milioni di liquidità, praticamente intonsa dalla quotazione nel lontano Duemila. La7 che perdeva 100 milioni quando l'acquisì nel 2013, pur con qualche tribolazione in più, farà il primo utile quest'anno. Che ci sappia fare a giostrare tra costi e ricavi è indubbio. Ma anche lui sa che se i ricavi nella grande editoria non smettono di flettere, allora raschiato il barile dei costi da tagliare ci sarà da arrendersi. Ma lui nasce e viene dalla pubblicità e non a caso anziché ridurre formati e pagine, come fan tutti, lui rilancia e allarga. Nuovi dorsi, più carta, più contenitori. Sarà da lì che un domani Cairo si aspetta di fermare l'emorragia dei fatturati dell'industria editoriale. Un'altra scommessa. Vincerà anche questa? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ogni-giorno-cairo-si-sveglia-e-taglia-300-000-euro-in-rcs-2552274664.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-gedi-ha-chiesto-gli-ammortizzatori-sociali-anche-se-in-utile" data-post-id="2552274664" data-published-at="1764455962" data-use-pagination="False"> E Gedi ha chiesto gli ammortizzatori sociali anche se in utile Toccherà ora alla magistratura accertare se si sono compiuti o meno illeciti nella concessione dei prepensionamenti negli anni passati al gruppo L'Espresso (ora Gedi) e alla sua concessionaria di pubblicità, la Manzoni. Ma al di là e oltre all'inchiesta giudiziaria che si è abbattuta sul gruppo spunta un tema di fondo. La crisi dell'editoria italiana è innegabile e sotto gli occhi di tutti. E l'uso degli ammortizzatori sociali è pratica diffusa da anni nel settore: prepensionamenti di giornalisti e poligrafici, cassa integrazione a go go e contratti di solidarietà a profusione. Ma quando c'è di mezzo il sostegno pubblico occorre chiedersi se gli innumerevoli casi di stati di crisi siano davvero giustificati. E proprio il gruppo della famiglia De Benedetti è stato uno dei principali utilizzatori di ammortizzatori di ogni tipo. Tra il 2011 e il 2015, come ha ricostruito di recente Il Fattoquotidiano, sono stati concessi per decreto ministeriale al gruppo editoriale Gedi e alla Manzoni spa 187 prepensionamenti di poligrafici e 69 di giornalisti, mentre per altri 554 lavoratori sono stati attivati contratti di solidarietà. Un bell'aiuto a fronteggiare la crisi. Già ma quale crisi? Se c'è tra i big del settore un gruppo che non ha mai chiuso in perdita i bilanci è proprio l'ex gruppo L'Espresso. L'unica perdita è del 2107 ma solo per motivi di contenzioso fiscale chiuso a sfavore della società. Il gruppo della famiglia De Benedetti mentre con una mano chiedeva l'obolo di Stato per le ristrutturazioni con l'altra sfornava utili sostanziosi. Nel 2010 e 2011 l'ex Espresso chiuse i conti con 50 e 60 milioni di profitti netti rispettivamente. Nel 2012 gli utili calano ma sono comunque di 21 milioni. Poi il biennio che segue la crisi morde anche loro: ma mai chiuderanno in perdita. E la risalita è rapida. Nel 2015-2016 gli utili cumulati sono di 27 milioni. Certo si potrebbe obiettare che senza le fuoriuscite di personale (i costi dei prepensionamenti dei giornalisti dal 2009 sono per 20 milioni l'anno a carico dello Stato) e i tagli con la solidarietà forse anche l'Espresso avrebbe subito le prime perdite. Ma davvero c'era bisogno di dichiarare in crisi un gruppo che non ha mai perso un euro fino a tutto il 2016. L'altro grande gruppo che ha usufruito a piene mani degli ammortizzatori sociali è Caltagirone editore. Le sue testate sono state destinatarie di svariati piani di crisi. Qui la crisi c'era. Caltagirone editore ha visto i ricavi quasi dimezzarsi dal 2009 e ha cumulato perdite da quell'anno per oltre 300 milioni. Difficoltà indubbia. Ma la società ha comunque avuto da sempre sul piano finanziario grande solidità e ricchezza. La liquidità in cassa è tuttora di 128 milioni, non ci sono di fatto debiti con le banche e il capitale vale 450 milioni. Tanto che Caltagirone stesso voleva con un'Opa tornare in possesso di tutta la società. Se non era un affare l'imprenditore più liquido di tutti non avrebbe provato a ricomprarsi in toto la sua società. Che aveva e ha i mezzi per scavallare la crisi e aiutarsi da solo, senza ricorrere all'ammortizzatore pubblico. Ma un aiuto esterno anche se non necessario non si rifiuta mai. Fabio Pavesi
Maria Chiara Monacelli
Maria Chiara Monacelli, fondatrice dell’azienda umbra Sensorial è riuscita a convertire un materiale tecnico in un veicolo emozionale per il design: «Il progetto intreccia neuroscienze, artigianato e luce. Vogliamo essere una nuova piattaforma creativa anche nell’arredamento».
In Umbria, terra di saperi antichi e materie autentiche, Maria Chiara Monacelli ha dato vita a una realtà capace di trasformare uno dei materiali più umili e tecnici - il cemento - in un linguaggio sensoriale e poetico. Con il suo progetto Sensorial, Monacelli ridefinisce i confini del design artigianale italiano, esplorando il cemento come materia viva, capace di catturare la luce, restituire emozioni tattili e raccontare nuove forme di bellezza. La sua azienda, nata da una visione che unisce ricerca materica, manualità e innovazione, eleva l’artigianato a esperienza, portando il cemento oltre la funzione strutturale e trasformandolo in superficie, texture e gioiello. Un percorso che testimonia quanto la creatività, quando radicata nel territorio e nel saper fare italiano, possa dare nuova vita anche alle materie più inattese.
Diego Fusaro (Imagoeconomica)
Il filosofo Diego Fusaro: «Il cibo nutre la pancia ma anche la testa. È in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità culinaria».
La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».
Leonardo
Il fondo è pronto a entrare nella divisione aerostrutture della società della difesa. Possibile accordo già dopo l’incontro di settimana prossima tra Meloni e Bin Salman.
La data da segnare con il circoletto rosso nell’agenda finanziaria è quella del 3 dicembre. Quando il presidente del consiglio, Giorgia Meloni, parteciperà al quarantaseiesimo vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), su espressa richiesta del re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Una presenza assolutamente non scontata, perché nella Penisola araba sono solitamente parchi con gli inviti. Negli anni hanno fatto qualche eccezione per l’ex premier britannica Theresa May, l’ex presidente francese François Hollande e l’attuale leader cinese Xi Jinping e poco altro.
Emmanuel Macron (Ansa)
Bruxelles apre una procedura sull’Italia per le banche e tace sull’acciaio transalpino.
L’Europa continua a strizzare l’occhio alla Francia, o meglio, a chiuderlo. Questa volta si tratta della nazionalizzazione di ArcelorMittal France, la controllata transalpina del colosso dell’acciaio indiano. La Camera dei deputati francese ha votato la proposta del partito di estrema sinistra La France Insoumise guidato da Jean-Luc Mélenchon. Il provvedimento è stato approvato con il supporto degli altri partiti di sinistra, mentre Rassemblement National ha ritenuto di astenersi. Manca il voto in Senato dove l’approvazione si preannuncia più difficile, visto che destra e centro sono contrari alla nazionalizzazione e possono contare su un numero maggiore di senatori. All’Assemblée Nationale hanno votato a favore 127 deputati contro 41. Il governo è contrario alla proposta di legge, mentre il leader di La France Insoumise, Mélenchon, su X ha commentato: «Una pagina di storia all’Assemblea nazionale».






