
<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/oggi-in-edicola-2673800228.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="particle-1" data-post-id="2673800228" data-published-at="1754096575" data-use-pagination="False">
Con Maastricht aggirarono i popoli contrari alla Costituzione comune. Poi il declino.
Le critiche di Donald Trump nei confronti dell’Europa sono ciniche ma nascondono quella verità che ci ostiniamo a non voler vedere: noi non contiamo più nulla ma continuiamo ad atteggiarci come se la forza e la bellezza di un tempo fossero rifiorite per effetto di una strana chirurgia estetica: i Trattati europei, tutti, da Maastricht a Lisbona.
Le dichiarazioni dei leader del Vecchio continente seguono il solito copione di indignazione e di fermo orgoglio, come se davvero ce lo potessimo permettere. Dalla Germania alla Francia è tutto un ribollir di rabbia per lo sfregio; eppure non siamo lontani dall’atteggiamento con cui il presidente americano aveva convocato la presidente della Commissione Ue in Scozia, in un golf club, per la pratica dazi. Una umiliazione messa agli atti e accettata per paura di altre ritorsioni.
Quando le cancellerie si incontrano, si pesano: quanto pesa la Von der Leyen? L’altro giorno sul Corriere della Sera Anne Applebaum - autrice del libro Autocrazie - ha criticato la Casa Bianca per l’atteggiamento di supremazia verso l’Unione europea. «Washington dichiara che non ha alleati, ma solo interessi economici». Come lei la pensano altri commentatori, indignati per la traslazione della politica al business. Beh, forse qualcuno dovrebbe ricordare che l’Unione europea è nata col forcipe della moneta unica e per mano dei mercati: ce lo siamo dimenticati?
Fu proprio per superare lo stallo politico (e per paura della Germania nuovamente unita) che si decise di adottare la moneta unica come acceleratore, ma anche in quel caso l’architettura della Bce non era affatto in linea con le banche centrali degli Stati sovrani. L’Unione europea si illuse di poter vivere in un ecosistema nuovo, dove contava la globalizzazione finanziaria (progressivamente nelle mani cinesi, ma non lo capimmo né noi né gli americani) e non gli Stati, i quali avrebbero progressivamente ceduto il passo a sovrastrutture. Invece la Storia non era affatto arrivata al capolinea, e anzi si stava riappropriando di vecchi lemmi: confini, eserciti, dazi, identità… Tutte parole che a Bruxelles consideravano superate.
Nei trattati di Maastricht, tanto per dire, le persone erano equiparate alle merci sotto la voce libera circolazione: come se bastasse per fare una comunità. Ricordiamolo: l’Europa non ha una Costituzione perché le radici e le identità diventarono un problema così grosso da far impantanare i lavori di quella specie di assemblea costituente che si chiamava Convenzione europea, affidata a Giscard d’Estaing. Tutto andava uniformato nel credo europeista; ecco perché non è un caso che Bruxelles esponga una natività dove alle figure di Maria, di Giuseppe e di Gesù bambino vengono sottratti i tratti somatici: tutto dev’essere senza tratti, senza fisionomia, senza identità. Come la bandiera europea, una bandiera che nessuno durante il Covid ha esposto: sui balconi c’era il tricolore.
Oggi le solite élite riaffermano la forza di quella bandiera che però non ha dietro il popolo, perché il popolo è stato estromesso dalla fase ascendente, di edificazione. Trump ha ragione anche quando parla di declino dell’Europa, un declino che non è solo economico ma dovuto alla più «profonda prospettiva di cancellazione della civiltà». Se non c’è civiltà, se non c’è popolo, se non c’è il rispetto della democrazia (e non c’è!), non si crea alcuna potenza in grado di competere nella ridefinizione dell’ordine globale con Usa, Cina, Russia.
Avevamo inseguito le logiche di mercato anche quando cercavamo i migliori accordi energetici con Putin, il quale con gas e petrolio aveva ingegnato il suo cavallo di Troia. Ma andava bene a tutti, Germania in testa.
Ora lo stesso gioco lo fa l’America, con un peso decisamente diverso perché gli Stati Uniti contano, la Ue no. Non c’è più uno spazio dove l’Europa possa competere hic et nunc.
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Emmanuel Macron (Ansa)
Musk cancella l’account della Commissione: «È il quarto Reich». Il Cremlino: «Visione degli Usa coerente con la nostra». Parte la retorica a reti unificate a difesa di Bruxelles. Ma il leader francese fa come Donald.
Paolo Gentiloni, già commissario all’Economia sotto tutela di Valdis Dombrovskis in Europa e già presidente del Consiglio - si sfoga, il giorno dopo la dichiarazione di dannosa inutilità che mister Tesla ha riservato all’Ue (che a suo giudizio andrebbe abolita), con la Stampa. Il clima a dire la verità è frizzante. Ieri c’è stato un botta e risposta Musk-Bruxelles sul filo del chi è più democratico. Come noto, la Commissione europea ha multato X, il social di Elon Musk, per 120 milioni di euro per violazioni delle norme digitali europee, e il signor X ha risposto cancellando l’account pubblicitario della Commissione.
Con un’accusa per nulla leggera: «Avete pubblicato un link ingannevole». Rispondono da Bruxelles: «Noi? Noi siamo correttissimi». Parola di Kaja Kallas, che stempera: «Vediamo a volte le cose diversamente, ma gli Usa restano il nostro primo alleato». Chissà se Gentiloni iscriverà la Kallas tra gli adulatori. Certo con La Stampa non l’ha toccata piano: «Trump ha scritto l’epitaffio delle relazioni atlantiche, lui vede nell’Ue una proiezione dei suoi nemici interni. E colgo una contraddizione: c’è la pretesa di rinchiudersi e allo stesso tempo di esercitare un dominio economico». Poi se la prende con Giorgia Meloni: «Minimizzare - come fa lei - è rischioso: si troverà in mezzo al guado con la deriva dei continenti tra America ed Europa». E poi la lezioncina, che contraddice a qualsisia regola di mercato: «L’Europa deve reagire e usare gli asset russi per finanziare l’Ucraina». Sarebbe da chiedere a Gentiloni: secondo lei chi verrà dopo a investire in Europa? È una preoccupazione che i talebani dell’Ue non si pongono. Intanto, tornando a Meloni, ieri il premier ha avuto una telefonata con Volodymyr Zelensky nella quale ha ribaditola solidarietà italiana di fronte agli attacchi russi. I due leader si sono confrontati sul processo di pace in corso, in vista delle visite del presidente ucraino a Londra, Bruxelles s Roma. Meloni ha anche annunciato l’invio di forniture di emergenza a sostegno delle infrastrutture energetiche e della popolazione. Lodando la buona fede di Kiev, si è augurata, inoltre, che Mosca faccia altrettanto.
Ieri è stato un profluvio di reazioni tra il minaccioso e l’indignato contro Donald Trump che fa i suoi interessi e quelli dell’America, come peraltro pensa di fare Emmanuel Macron che, credendosi appunto Trump, scopre il fascino dei dazi: li minaccia contro la Cina, rea di invaderci con la sua merce. Dovrebbe telefonare a Romano Prodi, che sul Messaggero sabato si lamentava del fatto che in risposta al presidente americano non abbiamo ancora cercato ampie intese con la Cina. In questo quadro gongolano a Mosca, dove Dmitry Peskov - portavoce del Cremlino - osserva: «I cambiamenti adottati da Donald Trump sulla strategia per la sicurezza nazionale - che critica duramente l’Europa evocando il rischio di cancellazione della civiltà - sono coerenti con la visione di Mosca e possono garantire un lavoro costruttivo con gli Usa sulla soluzione ucraina». Ma è difficile accettare che l’Ue sia giudicata irrilevante da Washington e da Mosca all’unisono, così ecco la messe di dichiarazioni a difesa dell’Europa. Charles Kupchan, già consigliere di Barak Obama, sostiene sul Corriere che la posizione anti Ue è dei Maga, ma che Trump o non l’ha letta o non l’ha capita; Yves Mény, politologo della gauche caviar, sentenzia sulla Stampa - citando addirittura Charles de Gaulle - che «siamo nell’epoca post-occidentale e si è scavato un fossato incolmabile tra Europa e Usa, che stanno facendo prevalere i loro egoistici interessi». Ursula von der Leyen fa sapere: «Siamo solo noi a decidere sulle nostre democrazie». Parola magica che piace al maître à penser per eccellenza, Jaques Attali, che ha dato il «la» con un post che ritrae la bandiera europea alla campagna «questa è la bandiera di alcuni dei Paesi più liberi, pacifici e democratici del mondo». Qualcuno ha aggiunto «Elon Musk fuck you» e a mister X non è andata giù: ieri sera ha replicato con una bandiera dell’Ue con una svastica e la scritta «Quarto Reich».
Che l’Ue abbia confidenza con la democrazia a geometria variabile è dimostrato dal viaggio in Cina di Emmanuel Macron, che a Pechino ha blandito Xi Jinping, ma appena rientrato se ne è uscito con una delle sue: «Se Pechino non fa nulla per ridurre il nostro deficit commerciale nei confronti della Cina praticheremo nei prossimi mesi dei dazi sulle loro merci». L’inquilino dell’Eliseo ha scoperto che la Cina con auto e meccanica ha colpito al cuore l’industria europea (forse gli abbiamo dato qualche vantaggio col Green deal?). Macron per primo è però consapevole che trovare l’intesa in Ue è difficile perché, ad esempio, la Germania sta facendo grossi affari con Pechino. Basterebbe questo per dire che forse Trump tutti i torti non li ha. Anche perché Macron, che fino a ieri ha parlato malissimo dei dazi americani - la Cina però gli ha colpito vino e maiale e ai francesi non va giù -, ora li vuole usare. Viene da chiedersi anche se sia lo stesso Macron che, quando Giorgia Meloni cercava con gli Usa un compromesso sulle tariffe, l’apostrofò sostenendo che stava tradendo l’Ue, la sola titolata a trattare sui dazi. Ammesso che l’Europa esista.
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Davide Rondoni (Imagoeconomica)
Davide Rondoni, poeta a capo del comitato per le celebrazioni di San Francesco, commenta la crisi del capoluogo: «La città è stanca, le ideologie ottundono. Il sindaco è l’effetto, non la causa».
Romagnolo schiettissimo che però ha percorso via San Vitale all’inverso e si è fermato a Bologna. Si dice che la Romagna inizia proprio da via San Vitale, con le due torri di schiena, quando se si chiede da bere offrono il vino al posto dell’acqua. Davide Rondoni è così: è una sferzata gentile d’intelletto che al tempo stesso nutre, disseta, ma stimola. Ci si potrebbe fermare a fare una mano di marafone - il tresette con la briscola che si gioca in tutta la Romagna - mentre si compulsa il Cantico delle creature con questo poeta, linguista, che ha scritto e tradotto per il teatro, che ha fatto dell’arte un impegno totale: dal museo di fotografia contemporanea al centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna (dove ha studiato con un grande maestro come Ezio Raimondi), Rondoni ha esplorato tutte le possibili declinazioni della creatività.
È stato nominato dal governo presidente del Comitato per le celebrazioni in occasione dell’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi, il patrono d’Italia. Ma nelle ultime settimane è tornato a «solcare» la cronaca politica per una polemica con il sindaco di Bologna Matteo Lepore. Intervenendo a Quarta Repubblica, la trasmissione condotta da Nicola Porro su Rete 4, il poeta, commentando gli scontri tra pro Pal e polizia prima, durante e dopo la partita di basket tra Virtus e Maccabi Tel Aviv, ha notato: «C’è una collusione tra il Comune e un certo potere politico con delle frange estremiste. Continuare a dire che anche lo sport è un’operazione di guerra non è evidentemente un’operazione di pace, è fomentare lo scontro e questo un sindaco, che sia Lepore o qualcun altro, non deve farlo». Con Rondoni però è inevitabile alzare il livello, quindi sì ad uno sguardo sulla «tristezza» di Bologna, ma luce accesa su San Francesco.
Partiamo da San Francesco: lei è presidente del Comitato per l’ottavo centenario. In che direzione si muovono e come si articolano le celebrazioni?
«Con il Comitato abbiamo promosso iniziative che resteranno nel tempo e patrocinato e “sommosso” un serie di eventi che danno il senso di quella “esplosione di vita” che da secoli viene dal Santo e poeta di Assisi. Nel sito ufficiale se ne dà conto e chiunque può consultarlo (sanfrancesco800.cultura.gov.it, ndr), dalle statue nuove in dieci città italiane al campo da calcio per ragazzi meno fortunati in Egitto, dalla imponente opera di digitalizzazione della Biblioteca del Sacro Convento e delle nuove fonti, fino all’avvio di un’opera di armonizzazione delle proposte del Cammino di san Francesco. Ma davvero siamo felicemente travolti, tra intitolazioni di ponti, come a Roma, di istituti penali minorili, la nascita della Scuola dei Giullari a Rieti, iniziative in diverse università come Iulm, Urbino, Catania... E poi opere teatrali, musicali, audiovisive, ripristino della cella del Santo a Trastevere, nonché da oltre 50 iniziative in giro per il mondo... E nostra è stata l’idea di riprendere la Festa nazionale del Patrono il 4 ottobre. Nel 2026 cade di domenica, festa nella festa, e dal 2027 avrà corso grazie al voto unanime con cui il Parlamento ha accolto la proposta che lanciai lo scorso anno da Assisi».
Facciamo un gioco: se Francesco vedesse la nostra contemporaneità vivrebbe questo tempo come una delle sue stimmate o come una frontiera di nuova evangelizzazione?
«Come un tempo dove vivere lietamente la sua fede, la sua amante povertà e la sua amicizia coi suoi bro, coi suoi frati».
Lei è cattolico: sente un cambiamento nella proposizione della Chiesa con l’avvento di Leone XIV?
«Io sono un cattolico anarchico di rito romagnolo. Siamo anticlericali, ma il Papa ci sta simpatico. Leone mi pare uno lieto, in senso francescano, e abissale in senso agostiniano».
Viviamo, ci dicono i governanti europei, un tempo di guerra, il che alimenta da una parte egoismi e paure e dall’altra l’ipocrisia dei pacifinti. Visto con gli occhi del credente e con l’animo del poeta questo tempo com’è? Disorientato, depresso, disperato?
«È un tempo come tutti, pieno di dolore e di cose magnifiche. Un tempo in cui può esser bello riscoprire la bellezza di essere “creature”, la bellezza che sconfigge ansia e disperazione».
Un aspetto della predicazione francescana che viene molto tirato per il saio, se mi passa l’espressione, è il suo incontro con l’islam. Lei come giudica quel tempo? E oggi l’incontro con l’islam non è foriero di una distorsione politica, di una sorta di abdicazione alla nostra identità per convenienza?
«Francesco va dal Sultano per provare a convertirlo, ad annunciare il Vangelo. Il capo islamico che ha nella sua tradizione i monaci ascolta il monaco dei cristiani. Noi siamo una terra di incontro tra oriente islamico e occidente cattolico, cioè di tradizioni dove esiste la figura del monaco che ricorda a tutti che il mondo è di Dio. Certo, ogni guerra usa anche la religione per i propri fini di potere. Ma noi dobbiamo essere una terra ponte, per cuori che desiderano la pace. L’identità si afferma con la letizia, la ragionevolezza».
Ha avuto una polemica robusta col sindaco di Bologna Matteo Lepore per le «devastazioni» pro Pal. Lei ha parlato di collusione con gli sfascisti. Ne è ancora convinto? Da questo dipendono altre considerazioni: c’è un antisemitismo di ritorno? Bologna, che era città di gioia e intelletto, si è davvero intristita ed è specchio di questo tempo?
«Bologna da un pezzo vive una stanca stagione che il cardinal Giacomo Biffi indicò come “sazia e disperata”. E che già Pier Paolo Pasolini indicava come mancanza del senso di alterità, cioè tendente alla omologazione. Lepore non è una causa, ma uno dei piccoli e poco originali effetti. Le ideologie ottundono. Che ci siano rischi di antisemitismo, come di altri anti qualcosa usati per affermare visioni ideologiche, violente e non pacifiche non è una novità. Io sono a favore di Bologna, perché grazie alla sua storia millenaria è una bella città dove sono nati o han vissuto Guinizzelli, Reni, la Sirani, Marconi, Morandi e l’amico Lucio Dalla, e dove ci sono un sacco di magnifiche persone. E dico, anche da tifoso, pur essendo romagnolo, viva Bologna! Poi spero che dopo cinquant’anni cambi il governo decadente della città. Se poi i bolognesi vogliono tenerselo, viva la democrazia, e si tengano una città sempre meno interessante...».
Che ne pensa del luogocomunismo dilagante, del rendere tutto rivendicazione, del trasformare i desideri in diritti e avere la pretesa che poi diventino diritto? Questo sia di fronte alla legge sul consenso ai rapporti sessuali, sia all’utero in affitto, all’eutanasia. Insomma non c’è una devalorizzazione del mistero, della complessità e della fatica lieta della vita?
«C’è una scontentezza di fondo che attanaglia il vivere di molti e che dunque muove alla rivendicazione anche al di là del rispetto di un principio di realtà. E questo provoca più scontentezza, che nessuna proliferazione di presunti diritti può cambiare in gioia. Semmai si cade preda di paradossi continui, di burocrazie e di ridicole e pericolose polizie del pensiero e del linguaggio».
Una domanda estratta dalla cronaca: avrà seguito la vicenda della famiglia nel bosco. Le chiedo non solo cosa pensa di questo comunque dividersi in schieramenti senza affrontare le questioni, ma uno dei punti caldi è l’istruzione dei bambini. Ecco, come sta messa la scuola?
«Non ho elementi per valutare il profilo giuridico della cosa. Se non altro la vicenda muove molte domande su cosa significa educare dei figli e dei giovani. La scuola italiana va riformata radicalmente o è meglio chiuderla. E la riforma sta nell’abbandonare il paradigma enciclopedico e statalista a favore di una vera scuola dei talenti. Ci vuole coraggio, ma la situazione dei giovani che sono meravigliosi e frustrati in questo Paese merita tale coraggio. Su questo, come ho detto alla premier, valuterò - per quel che vale il mio modestissimo parere - la classe politica al governo».
Ultima ma gigantesca domanda: c’è ancora poesia nel nostro vivere? E quanto bisogno abbiamo di poesia e quanto spazio ha la poesia?
«Vivere è scoprire continuamente la poesia che c’è nella vita e nel suo mistero. Tutto il resto è noia».
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Un Centro di assistenza fiscale (Ansa)
Buco da oltre 5 milioni di euro per la srl siciliana della Cgil: ha accumulato debiti con Agenzia delle entrate, Inps e privati. Stasera a «Lo Stato delle cose» di Giletti (Rai 3) le incredibili risposte del presidente Giuseppe La Loggia.
Undici creditori (di cui il principale è l’Agenzia delle entrate, che vanta ben otto crediti), un passivo da oltre 5 milioni di euro, una liquidazione giudiziale aperta nel 2023 dal tribunale di Catania «nella contumacia» della società.
È l’incredibile storia della Società di servizi Cgil Sicilia srl, nata per organizzare sul territorio siciliano i servizi dei Caf, l’assistenza fiscale, controllata dalla Cgil Sicilia e da una serie di Camere del lavoro del sindacato sparse sul territorio dell’isola, che la trasmissione di Rai 3 Lo Stato delle cose, condotta da Massimo Giletti, racconterà nella puntata in onda stasera alle 21.30.
Nel servizio, realizzato dall’inviato Alessio Lasta, una frase, pronunciata dal commercialista Giannicola Rocca, già presidente della commissione crisi e risanamento di impresa dell’Ordine dei commercialisti di Milano, riassume meglio di tutte la situazione della società controllata dal sindacato guidato da Maurizio Landini. Chiamato dalla trasmissione ad analizzare i bilanci, Rocca ha riassunto così lo stato dei conti della Società di servizi Cgil Sicilia srl: «Se posso sintetizzare, questa è una società che si è finanziata non versando i contributi».
Come detto, il principale creditore della Società di servizi Cgil Sicilia è l’Agenzia delle entrate, che vanta pendenze per circa 3.350.000 euro per mancato versamento di contributi di assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia, superstiti e infortuni sul lavoro, ovverosia tutta la parte contributiva e assistenziale che la società deve versare obbligatoriamente per legge a Inps e Agenzia delle entrate per la tutela dei lavoratori. Altri 377.000 euro riguardano crediti per tributi diretti dello Stato, per imposta sul valore aggiunto e contributi degli enti locali non versati. Gli altri creditori sono l’Istituto di case popolari di Enna e due privati, un professionista e un dipendente a tempo determinato.
Secondo quanto ricostruito nel servizio, quest’ultimo, un ex addetto alle pratiche del Caf, deve ricevere 150.000 euro. Per l’ex presidente del consiglio d’amministrazione della società, Giuseppe La Loggia, oggi a capo dell’Inca (Istituto nazionale confederale di assistenza) della Sicilia, però è tutto a posto. Anche se di fronte alle domande dell’inviato Alessio Lasta, che gli chiedeva conto del motivo per cui la società non abbia pagato contributi Inps e Inail ai lavoratori e non abbia versato l’Iva, il sindacalista ha manifestato un notevole nervosismo. I due si incontrano in un centro congressi di Aci Castello, vicino a Catania.
L’occasione è un’assemblea della Cgil siciliana, alla quale partecipa anche il segretario nazionale Landini. L’inviato e La Loggia si sono già conosciuti in occasione di un precedente servizio della trasmissione che, a quanto pare, il sindacalista non ha gradito, tanto che inizialmente cerca di allontanare il giornalista in maniera sbrigativa: «Sei stato stronzo a fare quello che hai fatto, eravamo rimasti che ci dovevamo vedere e tu hai mandato il servizio», dice a Lasta davanti alla telecamera. E quando il giornalista gli fa notare che ci sono più di 3 milioni di debiti per i contributi non versati, il sindacalista risponde sprezzante: «E qual è il problema?». E alla domanda «Lei era presidente del consiglio di amministrazione, questa società è fallita», risponde con una frase che ha quasi dell’incredibile: «Come tante società falliscono in Italia, quindi qual è problema? L’amministravo? Mi assumo le mie responsabilità».
Che, a quanto pare, non sono un ostacolo al ruolo di responsabile regionale dell’Inca in Sicilia, sul cui sito, ironia della sorte, si può leggere la frase: «L’Inca tutela e promuove i diritti riconosciuti a tutte le persone dalle disposizioni normative e contrattuali - italiane, comunitarie e internazionali - riguardanti il lavoro, la salute, la cittadinanza, l’assistenza sociale ed economica, la previdenza pubblica e complementare».
E anche per Landini, la situazione della Società di servizi Cgil Sicilia non sembra essere un grosso problema. «Sono state fatte delle cose non buone, non a caso si è intervenuti, stiamo gestendo la liquidazione». Una risposta che sembra non tenere a mente che a gestire la liquidazione, su richiesta della Procura di Catania, accolta dal tribunale, è un liquidatore giudiziario.
Per Landini, però, «il problema adesso non è guardare se ci sono stai degli errori, il problema è se chi ha visto gli errori si è assunto la responsabilità di intervenire». Ma alla domanda sull’opportunità che La Loggia sia a capo dell’Inca, il segretario confederale replica: «Qui, localmente, noi stiamo gestendo tutto il rapporto con il tribunale, stiamo facendo tutto quello che c’è da fare. Noi stiamo mettendo a posto tutte le cose».
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