L'amministratore delegato di SIMEST Regina Corradini D’Arienzo (Imagoeconomica)
SIMEST e la Indian Chamber of Commerce hanno firmato un Memorandum of Understanding per favorire progetti congiunti, scambio di informazioni e nuovi investimenti tra imprese italiane e indiane. L'ad di Simest Regina Corradini D’Arienzo: «Mercato chiave per il Made in Italy, rafforziamo il supporto alle aziende».
Nel quadro del Business Forum Italia-India, in corso a Mumbai, SIMEST e Indian Chamber of Commerce (ICC) hanno firmato un Memorandum of Understanding per consolidare la cooperazione economica tra i due Paesi e facilitare nuove opportunità di investimento bilaterale. La firma è avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del ministro indiano del Commercio e dell’Industria Piyush Goyal.
A sottoscrivere l’accordo sono stati l’amministratore delegato di SIMEST, Regina Corradini D’Arienzo, e il direttore generale della ICC, Rajeev Singh. L’intesa punta a mettere in rete le imprese italiane e indiane, sviluppare iniziative comuni e favorire l’accesso ai rispettivi mercati. Tra gli obiettivi: promuovere progetti congiunti, sostenere gli investimenti delle aziende di entrambi i Paesi anche grazie agli strumenti finanziari messi a disposizione da SIMEST, facilitare lo scambio di informazioni e creare un network stabile tra le comunità imprenditoriali.
«L’accordo conferma la volontà di SIMEST di supportare gli investimenti delle imprese italiane in un mercato chiave come quello indiano, sostenendole con strumenti finanziari e know-how dedicato», ha dichiarato Corradini D’Arienzo. L’ad ha ricordato che l’India è tra i Paesi prioritari del Piano d’Azione per l’export della Farnesina e che nel 2025 SIMEST ha aperto un ufficio a Delhi e attivato una misura dedicata per favorire gli investimenti italiani nel Paese. Un tassello, ha aggiunto, che rientra nell’azione coordinata del «Sistema Italia» guidato dalla Farnesina insieme a CDP, ICE e SACE.
SIMEST, società del Gruppo CDP, sostiene la crescita internazionale delle imprese italiane – in particolare le PMI – lungo tutto il ciclo di espansione all’estero, attraverso export credit, finanziamenti agevolati, partecipazioni al capitale e investimenti in equity.
Continua a leggere
Riduci
Ansa
Sono in mostra al Grand Palais le nuove finestre moderne che il presidente francese vuole a tutti i costi mettere al posto di quelle ottocentesche, risparmiate dal rogo del 2019. Nonostante un coro di proteste.
La sostituzione delle vetrate di Notre-Dame «s’ha da fare», lo ha deciso Emmanuel Macron. E così, da ieri, è possibile vedere il modello a grandezza naturale delle sei future vetrate realizzate dall’artista Claire Tabouret. Le opere sono esposte al Grand Palais sugli Champs Elysées.
Macron cerca di ottenere un po’ di visibilità visto che, in patria, è apprezzato solo dall’11% dei suoi concittadini e, all’estero, pare non imbroccarne una. D’altra parte, la visibilità offerta da quello che è uno dei più famosi monumenti del mondo non ha prezzo. Lo si è visto un anno fa, in occasione della riapertura della cattedrale. In quell’occasione, Macron aveva accolto in pompa magna, e a favor di telecamere, i grandi della Terra e aveva benedetto un concerto con varie star internazionali, che aveva come sfondo la facciata gotica della madre di tutte le chiese parigine.
Ma la voglia di modernità a Notre-Dame non è un pallino presidenziale recente visto che, fin dai primi giorni dopo l’incendio che ha distrutto la cattedrale parigina, Macron ha fatto e sbrigato pur di lasciare una sua impronta nella famosissima chiesa, a futura memoria.
Già il 5 maggio 2019 però, contro Macron c’era stata una levata di scudi da circa 1.000 docenti universitari, architetti ed esperti di restauro che gli avevano rivolto un appello, in una tribuna pubblicata da Le Figaro. Questo perché, mentre fumavano ancora le ceneri di Notre-Dame, Macron aveva già auspicato un «gesto architettonico contemporaneo» per la nuova guglia che sarebbe stata costruita al posto di quella, ideata dall’architetto Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc, in occasione del restauro della cattedrale parigina, avvenuto a partire dal 1843. Fortunatamente per Notre-Dame, alla fine il presidente francese aveva mollato la presa. Tuttavia, a calmare la voglia di modernità dell’inquilino dell’Eliseo non è riuscita nemmeno la legge approvata dal Parlamento transalpino il 29 luglio 2019 intitolata «Per la conservazione e il restauro della cattedrale Notre-Dame di Parigi», ma anche l’istituzione di «una sottoscrizione popolare per questo scopo». Che tradotto, per gente meno intelligente del leader parigino, vorrebbe dire che la ricostruzione della cattedrale deve avanzare solo sui binari del restauro e della conservazione, invece che su quello della creazione ex-novo, anche perché c’è chi ha fatto donazioni proprio per i primi due scopi. All’inizio dell’anno scorso, poi, DIdier Rykner, fondatore del sito La tribune de l’art ha raccolto oltre 130.000 firme con una petizione contro le vetrate moderne. Il sito ha anche scritto in vari articoli che la sostituzione dell’opera di Violet-le-Duc, non rispetterebbe la Carta di Venezia del 1964, che tratta proprio del restauro e della protezione dei siti storici, artistici e monumentali, nonché la stessa legge del 2019. La Carta invita i Paesi firmatari (come la Francia, nel 1965) a non distruggere monumenti o opere d’arte sostituendoli con creazioni contemporanee. Va ricordato anche che, sempre nel 2024, la Commissione nazionale del patrimonio e dell’architettura francesi (Cnpa) ha espresso parere negativo al progetto delle vetrate e che, per essere pignoli, quelle di Violet-le-Duc sono uscite praticamente intatte dall’incendio che ha distrutto la chiesa madre di Parigi, il 15 aprile 2019. La Cnpa aveva presentato un ricorso all’equivalente del Tar parigino che, però, è stato respinto ed è previsto un appello.
I sostenitori del progetto di Macron non sono molti. Tra questi, quello di maggior peso è l’arcivescovo parigino, monsignor Laurent Ulrich che, come scriveva Vatican News nell’aprile 2024, auspicava che le nuove vetrate lasciassero «nell’edificio restaurato una traccia di questo evento» che ha distrutto la cattedrale. Non sono mancati sostegni alle vetrate moderne anche da parte di alcune voci del cattolicesimo progressista come l’ex direttore del quotidiano cattolico La Croix, Guillaume Goubert.
In ogni caso, anche senza le nuove vetrate, da quando è stata riaperta al pubblico, Notre-Dame sembra più un museo, per non dire un luna park, nel quale scorre quasi ininterrottamente un fiume di turisti. Gente che ha tutto il diritto di venire ad ammirare Notre-Dame, se non fosse che i fedeli parigini sono costretti a fare fatica per raccogliersi in preghiera nella loro cattedrale. Per questi frequentatori locali della chiesa madre parigina è complicato anche venire venerare le reliquie, come la Santa Corona portata da Gesù Cristo durante la sua Passione. In effetti, sia questa pratica sia la partecipazione alle messe deve essere prevista con un certo anticipo e bisogna anche essere pronti a fare la fila per lassi di tempo variabili, prima di accedere all’edificio di culto.
Vicino all’uscita di Notre-Dame c’è anche un chiosco che vende souvenir legati alla cattedrale, un punto vendita che fa venire alla mente i mercanti nel tempio. Chissà come finirà con il mercanteggiare sulle vetrate.
Continua a leggere
Riduci
Metropolitana Roma (iStock). Nel riquadro, la stazione dove è avvenuto lo stupro
Caccia ai violentatori afro della studentessa. Fermato egiziano per tentato omicidio.
È caccia agli stupratori della studentessa di 23 anni violentata a Roma nella notte del 7 dicembre all’uscita della metro Jonio della linea B1. Proseguono le indagini dei carabinieri, alla ricerca di ulteriori telecamere e di eventuali testimoni dopo il racconto agghiacciante della giovane, che ha denunciato di essere stata bloccata da due uomini e violentata da un terzo.
Gli accertamenti dei militari puntano a raccogliere elementi utili per chiarire la dinamica di quanto avvenuto. La vittima, sotto choc, è riuscita a raccontare agli investigatori la violenza subita indicando come stupratori almeno «tre africani» che l’avrebbero immobilizzata e violentata. Ha vissuto un incubo: due la tenevano ferma e uno la stuprava. Poi, è sempre il suo racconto, i tre si sarebbero dileguati tra i vicoli deserti nel cuore della notte, mentre le sue urla disperate sono giunte a un passante che l’ha accompagnata in ospedale.
Lì, la ragazza è stata presa in cura e ha subito denunciato l’accaduto. Gli inquirenti stanno valutando ogni elemento utile che li possa portare a individuare i tre responsabili «africani». Quanto accaduto a Roma ha generato un mare di indignazione e di preoccupazione, tanto che ieri pomeriggio davanti alla metro Jonio si è svolto «un presidio silenzioso» organizzato da associazioni transfemministe del quartiere che sono intervenute portando avanti il messaggio del loro slogan: «Se toccano una toccano tutte». «Siamo stanche di leggere ogni giorno notizie di stupri, femminicidi e soprusi di matrice patriarcale», lo sfogo delle promotrici, «questa volta è successo al Tufello, nel nostro quartiere, ma troppo spesso la violenza attraversa le nostre città, le nostre strade, i nostri corpi».
Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire anche i momenti precedenti lo stupro per provare a dare una risposta a tante domande. Bisognerà accertare se i tre si trovavano sulla metro assieme alla ragazza e se l’hanno poi seguita per violentarla, o se hanno deciso di pedinarla dopo averla vista fuori dalla metropolitana. Si tratta di interrogativi importanti ai fini investigativi.
Quanto accaduto a Roma è solo l’ultimo di diversi episodi di violenza sessuale, ragion per cui si è riacceso il dibattito politico sul problema della sicurezza. Sul caso sono intervenuti i rappresentanti delle istituzioni e della politica. I consiglieri capitolini di Azione, Antonio De Santis e Flavia De Gregorio, in una nota, hanno sottolineato l’allarme sicurezza: «La violenza avvenuta alla stazione Jonio, ai danni di una ragazza di 23 anni, è l’ennesimo fatto grave che mostra una volta di più quanto la città sia priva dei presidi di sicurezza necessari a tutelare le persone, soprattutto le più vulnerabili. Da tempo sosteniamo che servano interventi strutturali e immediati: postazioni fisse di polizia locale nelle stazioni della metro e nei nodi principali del trasporto pubblico, un presidio reale del territorio che possa prevenire e tutelare cittadini». Il problema sicurezza rimane e rappresenta un’emergenza. Infatti, si allunga l’elenco degli stranieri arrestati perché ritenuti responsabili di gravi episodi. Ieri, i carabinieri della Stazione di Roma viale Eritrea hanno fermato un ventitreenne egiziano, accusato del tentato omicidio di un coetaneo romano, avvenuto il 1° dicembre scorso nei pressi di una barberia in viale Eritrea.
Continua a leggere
Riduci
Il Consiglio d’Europa, promotore dei diritti umani, valida il nostro modello per la gestione dei flussi in accordo con Paesi terzi. Ok agli hub «esterni» destinati agli irregolari. Giorgia Meloni: «Il protocollo Albania diventa prassi». Smacco a Ong e giudici solidali.
«Da oggi il Piano Mattei è una strategia europea». Giorgia Meloni scandisce soddisfatta la frase, consapevole che il progetto - costruito due anni fa anche per regolamentare le migrazioni - avesse un senso, una concretezza e un’adesione al diritto internazionale al di là delle pernacchie da curva sud della sinistra cattodem, dei giudici e delle ong a rimorchio. Alla conversione a U dell’Unione su uno dei temi chiave per la sua stessa esistenza mancava un sì: è arrivato ieri dal Consiglio d’Europa, l’organismo più appiattito sui presunti diritti universali, direttamente collegato alle associazioni umanitarie di ogni ordine e grado, sempre pronto a denunciare violazioni dei diritti umani, con attenzione maniacale alle forze dell’ordine italiane. Ebbene: sì a cambiare politica, sì ai rimpatri dei richiedenti asilo respinti, sì a rispedire al mittente i criminali, sì agli hub in Paesi terzi, per esempio l’Albania.
«La strumentalizzazione della migrazione, il traffico di migranti, la tratta di esseri umani e altre attività criminali che minacciano la stabilità e la sicurezza sono sfide reali e legittime». Lo ha detto il segretario generale del Consiglio d’Europa (da non confondere con il Consiglio Ue) Alain Berset, svegliatosi da un lungo sonno, nel suo discorso a Strasburgo durante il summit sull’immigrazione con i ministri dei 46 Stati membri. Ora anche per il braccio amnesty dell’Europa «elaborare un modello di accordo per i rimpatri e le esternalizzazioni» è diventata una priorità. E lo strumento giuridico dovrà indicare chiaramente «come gli Stati interpretano la convenzione nei casi di migrazione, anche in relazione alle attività criminali».
L’allineamento del Consiglio è arrivato dopo due eventi decisivi. 1) La lettera aperta firmata da nove Stati, fra i quali l’Italia, nella quale si contestava alla Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) un’eccessiva interferenza nelle politiche migratorie delle nazioni sovrane. 2) Il voto di 27 Paesi favorevoli al cambio di passo, con richiesta - anche questa promossa da Italia e Danimarca - di aggiornare la Convenzione dei Diritti dell’uomo, abbandonando la visione ideologica per garantire che «la sicurezza ai cittadini sia tutelata e non subordinata a interpretazioni della legge favorevoli a individui che hanno commesso gravi violazioni».
In sintesi i rappresentanti dei Paesi membri hanno ribadito la necessità che «il testo tenga conto della responsabilità fondamentale dei governi di garantire gli interessi vitali nazionali, quali la sicurezza e l’ordine pubblico». Il segretario generale Berset ha fiutato il vento, ha recepito e ha indicato anche una tempistica: subito la stesura di una dichiarazione politica del Comitato dei ministri sui temi dell’immigrazione, da adottare già a maggio nella riunione plenaria di Chisinau (Moldova); in seguito il Consiglio formalizzerà un documento che dovrebbe essere pronto fra 12-18 mesi, con la consueta calma della grassa euroburocrazia.
Una vittoria su tutto il fronte per Giorgia Meloni e il suo governo, che lunedì sul regolamento dei rimpatri avevano incassato il sì del Consiglio affari interni dell’Ue. Ieri a Bruxelles c’era la Conferenza dell’Alleanza globale contro il traffico di migranti, con 80 delegazioni degli Stati membri, partner internazionali, Paesi africani. Collegandosi in video, il premier italiano ha mostrato soddisfazione: «Gestire i flussi migratori è possibile, un’alternativa concreta alla tratta di esseri umani è fattibile e la legalità deve essere al primo posto. Il drastico calo dei flussi migratori irregolari, la significativa diminuzione dei decessi e delle sparizioni nel Mediterraneo dimostrano che la cooperazione sta funzionando. L’Italia ha proposto soluzioni innovative che ora sono viste con interesse e stanno diventando prassi comuni. Mi riferisco in primis al protocollo Albania. Oggi il Piano Mattei non è solo una strategia italiana ma diventa una prassi europea».
Con un problema umano che discende dalla bontà dell’iniziativa: Ursula von der Leyen prova a intestarsi l’idea. Dimenticandosi con un atto di rimozione freudiana del «grande abbraccio ai popoli in cammino» e dell’accoglienza diffusa (tanto cara anche a Sergio Mattarella), il presidente della Commissione ha benedetto la sterzata, ha annunciato che «gli arrivi dei migranti irregolari sono in calo, -26% quest’anno e -37% l’anno scorso». E ha salutato con fervore il contrasto agli scafisti, «perché il traffico di migranti è una forma di schiavitù moderna e dobbiamo fare di più per combatterla». Neanche fosse improvvisamente favorevole a bucare con il trapano le chiglie dei barconi. Con un lampo da commedia dell’arte ha aggiunto, mentre le si allungava il naso: «Il nostro principio guida qui nell’Ue è che siamo noi europei a decidere chi arriva in Europa e ne attraversa i confini, e in quali circostanze, non i trafficanti». Fino all’altro ieri sembrava l’esatto contrario.
In un eccesso trumpiano, la nuova Ursula ha concluso con un’abiura: «Abbiamo un progetto per porre fine al business del traffico di migranti in tutto il mondo. Dobbiamo impedire i viaggi e dimostrare alle potenziali vittime che esistono sempre alternative più sicure». Sembrava Marine Le Pen. Forse sta davvero cambiando il vento. Se così fosse, a fare il tifo per gli scafisti rimarranno i giudici rossi, le associazioni che si arricchiscono sui disperati e Laura Boldrini.
Continua a leggere
Riduci




