Maria Luisa Palladino, la tutrice nominata dal tribunale per i Minorenni dell'Aquila per i bimbi nel bosco (Ansa)
Malgrado la famiglia sia contraria, la curatrice dei Trevallion e il Tribunale dei minori spingono per iscrivere i piccoli all’istituto di Palmoli, chiedendo pure l’intervento del sindaco. A papà Nathan negato persino il pranzo di Natale insieme a moglie e figli.
La storia della famiglia nel bosco sta assumendo i connotati di una serie tv di genere fantasy. Ma qui non siamo su Netflix, questa è vita reale. La fiaba di Natale a Palmoli (Chieti) dove, fino a un mese fa, Catherine Birmingham e Nathan Trevallion vivevano con i loro tre bambini, una di 8 anni e due gemelli di 6, in una una casa priva di acqua, luce, rete fognaria e servizi igienici, si spezza il 20 novembre, quando gli assistenti sociali e i carabinieri eseguono un’ordinanza del Tribunale dei minori di Chieti allontanando i bambini dai genitori. Sospesa la «responsabilità genitoriale». Il trauma della famiglia del bosco diventa pubblico. E l’Italia si spacca. Chi sta con la scelta neorurale dei genitori, chi la contesta. Chi chiede un immediato ricongiungimento, chi chiede il rispetto delle decisioni della magistratura minorile.
La storia ormai la conoscono tutti. I tre bambini vengono portati in una comunità di accoglienza per minori, a Vasto, insieme alla madre che però può stare con loro solo durante i pasti. E questa è stata la situazione anche il giorno di Natale. A papà Nathan sono state concesse appena due ore e mezza con la sua famiglia, dalle 10 alle 12,30, senza nemmeno pranzare insieme. Normalmente ha accesso alla struttura solo due volte a settimana, per un’ora. Il padre, stanco e debilitato, descrive il Natale come «una notte dolorosa e molto triste».
La richiesta di ricongiungimento presentata dagli avvocati, Marco Femminella e Danila Solinas, respinta dai giudici, suscita l’indignazione generale. La responsabile del servizio minori della casa famiglia di Vasto spiega che il ricongiungimento avrebbe creato un precedente anche per le altre famiglie presenti. Il vicepremier Matteo Salvini si rivolge ai giudici: «Mettetevi una mano sulla coscienza, almeno il giorno di Natale un atto di generosità e di rispetto ve lo potevate regalare. Cattiveria istituzionale gratuita, una violenza di Stato senza senso e senza precedenti».
Per settimane si è parlato del Natale come possibile giorno del ricongiungimento. Ma niente. La famiglia resterà divisa per almeno altri quattro mesi. Il Tribunale per i minorenni dell’Aquila ha stabilito una verifica sullo stato psichico dei genitori e un’indagine psico-diagnositica sui figli. Per i magistrati si rende «necessario un congruo accertamento tecnico sulle competenze genitoriali» e hanno nominato una psichiatra che inizierà il suo lavoro il 5 gennaio e che entro 120 giorni dovrà redigere una relazione. Intanto i genitori avrebbero accettato di trasferirsi nell’abitazione messa a disposizione gratuitamente da un imprenditore locale nel periodo necessario ad adeguare il loro casale alle prescrizioni del tribunale.
Una storia che inizia nel settembre 2024, quando a causa di un’intossicazione da funghi la famiglia si reca al pronto soccorso. E da lì la loro vita diventa pubblica. La Corte d’Appello, il 19 dicembre, decide che i bambini non possono tornare con i loro genitori nemmeno per le festività natalizie. Il forte ritardo scolastico dei bimbi è stato uno degli aspetti che più hanno convinto il magistrato a togliere la potestà genitoriale alla coppia. I tre bambini, non essendo mai stati iscritti a scuola, non sanno né leggere né scrivere, stanno imparando ora l’italiano. La bambina più grande, sotto dettatura, sa scrivere solo il suo nome.
A tal proposito, malgrado la contrarietà dei genitori, i giudici e la tutrice dei bambini del bosco, l’avvocato Maria Luisa Palladino, spingono per iscrivere i tre bambini a scuola. Palladino ha contattato il sindaco di Palmoli, Giuseppe Masciulli, per organizzare con lui un recupero educativo e culturale all’Istituto comprensivo Castiglione Messer Marino-Carunchio.
Non sembra superata neanche la lesione del diritto dei minori alla vita di relazione: «Nell’interazione con gli altri bambini presenti in comunità si denota imbarazzo e diffidenza», dicono le assistenti. E il tribunale denota anche «l’insistenza con cui la madre pretende che vengano mantenute dai figli abitudini e orari difformi dalle regole che disciplinano la vita degli altri minori ospiti della comunità». La routine adottata nel bosco era la sveglia all’alba e il riposo entro le 18. Scrive l’assistente sociale: «Gli operatori sono riusciti a fare la doccia ai bambini soltanto nella serata del secondo giorno di collocamento ma solo con acqua, non volendo usare saponi».
Gli avvocati della coppia le definiscono «ricostruzioni grottesche» e puntano alla dimostrazione che lo stile di vita scelto dai genitori non costituisce un pregiudizio per il benessere dei minori. Adesso c’è solo da aspettare. Se ne riparlerà a maggio. Per provare a sbrogliare la matassa bisogna mettere in ordine le carte giudiziarie e le testimonianze. Sforzarsi di restare neutrali di fronte al carattere fiabesco di questo Christmas Carol dei giorni nostri.
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Eros Ramazzotti (Ansa)
Un revisore è accampato da un anno nel suo appartamento di Milano dopo che i lavori nell’abitazione di sopra, comprata dal cantante, hanno provocato un crollo del plafone. Eppure l’impresa è andata avanti a demolire.
Si chiama Paolo Rossi come l’eroe del Mundial ’82, ma non si guadagna da vivere a suon di gol. E di sicuro non riceverà i biglietti omaggio per il tour planetario di Eros Ramazzotti che partirà il prossimo 11 febbraio. Il protagonista della nostra storia ha 59 anni, è genovese e di mestiere fa il revisore dei conti e il consulente finanziario. Da un anno combatte con l’ugola d’oro romana per farsi rifondere i danni patiti dal suo bell’appartamento di dieci vani, adibito anche a studio professionale e acquistato con i risparmi di una vita in zona Citylife a Milano. L’immobile si trova in uno stabile di pregio: tre piani ripartiti in sei appartamenti di ampia metratura. Recentemente la facciata è stata rifatta e diversi proprietari hanno rimesso a posto le loro abitazioni. Ma solo uno dei suddetti interventi avrebbe creato disagi agli altri condomini. «Mai tali lavori hanno arrecato danni alle unità immobiliari», hanno sottolineato, in uno dei loro atti, gli avvocati Fabio Lepri e Salvatore Pino, difensori di Rossi, «fino a quando una di esse è stata ceduta e il suo acquirente ha pensato bene di avventurarsi in lavori letteralmente devastanti, che hanno gravemente danneggiato l’appartamento sottostante».
I lettori avranno già capito chi sia l’ipotetico «vandalo». Ramazzotti nell’ottobre del 2024 ha acquistato casa proprio sopra a quella di Rossi, spostando lì la residenza, e avrebbe quasi immediatamente avviato «inusitati lavori di demolizione». Secondo i legali di Rossi «sono stati dapprima demoliti e rimossi tutti i muri divisori interni, porte e impianti e successivamente, in un paio di giorni, sono stati rimossi sia i pavimenti che il sottostante massetto, ricorrendo a un uso tanto improprio quanto massiccio di martelli pneumatici». Gli avvocati fanno riferimento ad «abnormi immissioni sonore», «consistenti vibrazioni» e all’«allarme provocato in tutti gli abitanti dello stabile». Queste operazioni sono iniziate il 20 novembre 2024 e, dopo due settimane, del vecchio appartamento non restava null’altro che macerie. Nel ricorso presentato da Rossi per avere un accertamento tecnico preliminare e risolvere rapidamente la lite, è descritto quanto sarebbe accaduto durante la demolizione: «Nel pomeriggio del 4 dicembre 2024, mentre veniva fatto uso dei martelli pneumatici, si è verificato un crollo nell’appartamento del dottor Rossi, in quanto una parte adibita a palestra e sauna ha subito un totale distacco del plafone, che è rovinato a terra, sulla sauna e sulle attrezzature da palestra e, solo per un caso, non ha ferito i ricorrenti, fortunatamente non presenti in quel momento in casa». Ma quando Paolo e signora sono rientrati hanno dovuto fare i conti con quello che sarebbe stato il loro futuro di accampati. La polvere che aleggia dopo i crolli aveva offuscato l’aria.
Da allora è iniziata una lunga battaglia legale tra Ramazzotti e Rossi che sembra ancora ben lontana dal lieto fine. Il denunciante sostiene di vivere da circa un anno in una casa pericolante e ha messo in sicurezza alcune stanze (quelle dove la battitura dei plafoni ha dato come risposta il suono sordo del vuoto) con degli impalcati di tubi innocenti che fanno assomigliare il bell’appartamento a un cantiere edile. Il 13 novembre 2024 nell’appartamento di Rossi si era presentato il responsabile dei lavori di casa Ramazzotti, l’architetto Luigi Andrea Tafuri. Gli avvocati danno un senso particolare a quella visita: è stato fatto «al dichiarato fine di verificarne lo stato, evidentemente perché lo stesso Ramazzotti, il suo direttore dei lavori, come l’impresa appaltatrice (la Gmr, ndr), erano perfettamente consapevoli di voler attuare demolizioni ad alto rischio». Tale sopralluogo si è svolto alla presenza anche dell’amministratrice del condominio, l’architetto Alberta Contestabile. La quale ha attestato in un documento ufficiale quanto segue: «Durante il sopralluogo è stato accertato l’ottimo stato dell’immobile […]. L’architetto Tafuri dichiarava in tale sede che i lavori di ristrutturazione sarebbero stati rilevanti e rassicurava il dottor Rossi sulla circostanza che qualunque danno, crepa o problematica fosse emersa al suo appartamento sarebbe stata da addebitare ai lavori di ristrutturazione dell’appartamento soprastante». Ma questa promessa non sarebbe stata mantenuta.
Dopo il crollo, Rossi avrebbe avvertito subito sia l’amministrazione che la Gmr e «Tafuri e l’impresa hanno in un primo momento dichiarato la disponibilità a fermare i lavori, per approfondire l’accaduto e verificare i danni provocati all’appartamento». Ma la mattina successiva la Gmr, «su verosimile ordine dell’architetto Tafuri e del proprietario Ramazzotti» e «facendo strame dell’impegno assunto il giorno precedente», avrebbero ripreso a usare i «martelli demolitori […] noncuranti della presenza dei proprietari di casa all’interno dell’immobile sottostante e dell’acclarato rischio di ulteriori crolli e possibili lesioni alle persone». Che cosa è successo allora? «A quel punto al dottor Rossi, al fine di impedire la prosecuzione dei rischiosi lavori, non è rimasto altro che chiedere l’intervento immediato delle autorità competenti, segnalando il crollo del giorno prima e quanto stava di nuovo accadendo».
I verbali della Polizia municipale sopraggiunta nell’appartamento dopo il crollo e quello dei Vigili del fuoco (che, dopo una discussione con Rossi, avrebbero accettato di dichiarare l’inagibilità solo della sala attrezzi) sono piuttosto eloquenti. Nel loro rapporto i ghisa meneghini hanno dato atto che a casa Ramazzotti «erano state demolite le pareti, non strutturali, adibite a suddivisione interna dei locali, asportati gli impianti, e rimosso il pavimento». Quindi hanno aggiunto che «proprio quest’ultima attività potrebbe essere stata la causa del distacco del soffitto in danno dell’immobile sottostante poiché era stato rimosso gran parte del sottofondo (cosiddetto massetto), scoprendo le tavelle che compongono il solaio, che in alcuni punti presentavano anche delle rotture riconducibili ai colpi inflitti dal martello pneumatico». La Polizia municipale ha anche accertato che «in alcuni punti della superficie dell’appartamento erano accatastati diversi metri cubi di residui da demolizione (macerie)». I pompieri hanno rilevato un «dissesto statico di elementi costruttivi» cagionato da «lavori di scavo e demolizione».
Gli avvocati puntualizzano che «la situazione […] è apparsa talmente grave» che Rossi e consorte «sono stati diffidati dall’accesso al locale nel quale si era verificato il distacco del soffitto» e la stanza è stata delimitata con nastro bianco e rosso. Il 13 gennaio 2025 i coniugi Rossi «hanno contestato l’accaduto a Ramazzotti e all’impresa appaltatrice», inviando una prima perizia. L’avvocato del cantautore, Antonio Cacciato, due giorni dopo ha replicato che tale expertise, «di per sé non ricevibile e non condivisibile anche perché generica, formata unilateralmente e non riscontrata, a supporto di (generiche, ampie e non circostanziate) richieste risarcitorie, mostra un approccio immotivatamente aggressivo, che senz’altro rende meno agevole l’interlocuzione tra i soggetti coinvolti». E così, «rimasti vani i tentativi di raggiungere un’immediata composizione bonaria con Ramazzotti, attraverso il suo direttore dei lavori», divenuto nel frattempo procuratore speciale dell’artista in questa vicenda, è partita la causa, con relativo balletto di perizie e controperizie. La difesa del revisore genovese ha subito sostenuto che «i danni causati dai lavori si sono rivelati molto più estesi rispetto a quanto era apparso inizialmente col primo crollo, perché propagati anche alle altre stanze». Gli esperti ingaggiati da Rossi, per evitare ulteriori cedimenti, hanno indicato «quali interventi necessari, la realizzazione di strutture di protezione».
Un anno fa, a giudizio dell’avvocato Cacciato, la situazione non era grave come denunciato da Rossi: «Non consta che l’uso della stanza (oggetto di intervento dei Vigili del Fuoco) sia precluso, essendo stata immediatamente messa in sicurezza […], anche in ragione di assenza di ulteriore intonaco nel solaio» e «i lavori sono proseguiti con apposita messa in sicurezza e non hanno generato aggravamenti di sorta (non si è andati oltre al limitato distaccamento di intonaco)». Nella relazione dell’ingegner Paolo Crispiatico, incaricato dal condominio e non da Rossi, si attribuisce con certezza «lo sfondellamento dell’intonaco» ai «lavori di ristrutturazione» in casa Ramazzotti. Infatti l’impresa avrebbe «totalmente omesso» le cautele necessarie: «Si vede che sono stati tolti i tavolati, i pavimenti ed i sottofondi, ma non sono stati posati puntelli per evitare il movimento del solaio».
Il team di Ramazzotti ha, inizialmente, dato la colpa del crollo a presunti difetti occulti dell’immobile e ha fatto fare una perizia con carotaggi per evidenziare «problematiche strutturali» dell’edificio (definite dai legali di Rossi «pretestuose ed eccentriche»). Ipotesi che non avrebbe trovato riscontri. In ogni caso Ramazzotti, al momento, non ha ancora pagato quanto richiesto da Rossi. Il giudice milanese Carlo Di Cataldo ha fissato la data del 19 gennaio 2026 per il secondo tentativo di conciliazione e ha assegnato al proprio consulente tecnico il termine del 9 febbraio per depositare la relazione preliminare e del 10 aprile per quella finale, mentre i difensori delle parti avranno tempo sino all’11 marzo per il deposito di eventuali osservazioni.
Gli avvocati e lo stesso Rossi hanno quantificato il risarcimento dovuto in oltre 200.000 euro (comprensivi di affitto temporaneo di un altro immobile per il periodo necessario ai lavori di ripristino) e hanno chiesto di conteggiare anche «i danni all’attività professionale svolta nell’appartamento, all’inizio interrotta poi quanto meno rallentata e disagiata dagli eventi». I legali invitano pure a considerare le «intuibili sofferenze, i patemi d’animo e gli stati d’ansia» collegati al «rischio incombente di crollo» e «il sentimento di frustrazione derivato dall’inaccettabile condotta dilatoria» di Ramazzotti & C..
Rossi, contattato dalla Verità, preferisce non rilasciare dichiarazioni. Ma prima di congedarci, si concede un piccolo sfogo: «Mentre stiamo vivendo il nostro calvario fatto di disagi abitativi, di spese legali e di paure per il rischio di nuovi crolli, il signor Ramazzotti è troppo impegnato in colossali investimenti pubblicitari per il nuovo disco “Una storia importante” e per il prossimo “World tour” in partenza a febbraio». Infatti, al danno si sarebbe aggiunta l’immancabile beffa: a poche centinaia di metri dall’appartamento danneggiato, in piazza Buonarroti, un intero edificio per giorni è stato coperto con la promozione del tour e del nuovo disco. Che, siamo certi, Rossi non acquisterà.
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Ansa
La Regione guidata dal democratico De Pascale sborsa 180 milioni per indiani, marocchini ed egiziani Intanto, però, alza il ticket ai residenti e valuta un tetto alle prestazioni per chi viene a curarsi da fuori.
Michele De Pascale, governatore democratico dell’Emilia-Romagna, espresse qualche tempo fa a Radio24 comprensibile preoccupazione per lo stato della sanità nella sua registrazione. «In questo momento il problema principale dell’Emilia-Romagna è il nostro storico motivo di orgoglio e cioè l’enorme pressione di persone da fuori Regione che si vengono a curare qui», disse. «Non ce la facciamo più, non riusciamo più a soddisfare i nostri cittadini e l’enorme pressione delle altre Regioni che si vengono a curare in Emilia-Romagna e ci stanno intasando il sistema e lo dico con rispetto».
Che il sistema sia sotto pressione i cittadini emiliano romagnoli se ne sono accorti, anche perché da maggio si sono visti aumentare i ticket, e non poco. Ai non esenti - cioè circa due abitanti su tre - è stato richiesto di pagare 2,20 euro a confezione di medicinale, fino a un massimo di 4 euro a ricetta. Sono aumentati anche i costi per le visite: per un controllo da uno specialista si pagano 17,90 euro, mentre in caso di «accesso inappropriato» al pronto soccorso il ticket per la prima visita è di 25 euro più altri 23 euro per visite di consulenza aggiuntive e 36,15 euro per gli esami prescritti dal medico.
«Una decisione definita anche a seguito di un positivo confronto con le organizzazioni sindacali volta a continuare a garantire la qualità e la sostenibilità economica del servizio sanitario regionale, messo a dura prova dal sottofinanziamento statale, e necessaria anche in seguito all’introduzione di farmaci e terapie altamente innovativi, che consentono di curare meglio tante patologie ma che sono al contempo molto dispendiosi», dissero De Pascale e l’assessore alle Politiche per la salute Massimo Fabi.
Tutto comprensibile: aumenta la richiesta di farmaci, aumentano i prezzi, aumenta l’età media dei cittadini... Tutti questi aumenti, tuttavia, vengono illuminati da una luce diversa nel momento in cui si compie una piccola verifica e si scopre quanto spende la Regione per curare gli stranieri. Priamo Bocchi, consigliere regionale emiliano di Fratelli d’Italia, ha fatto un accesso agli atti chiedendo quanti denari vengano sborsati per l’assistenza sanitaria ai cittadini extra Ue. «Alla luce di una linea che pare quantomeno assurda, ho ritenuto doveroso fare chiarezza sui numeri reali. Dai dati emersi tramite accesso agli atti risulta che, nel periodo 2020-2024, la Regione Emilia-Romagna abbia speso oltre 180 milioni di euro per l’assistenza sanitaria ai cittadini stranieri extra Ue, di cui quasi 10 milioni solo a Parma», dice Bocchi. «Un dato che colpisce ancora di più se si considera che oltre il 75% di questa spesa resta a carico del Ssr. Mancano tetti adeguati, manca un sistema di vigilanza efficace e le percentuali di rimborso sono estremamente basse. Il tutto mentre ai cittadini residenti, alle strutture pubbliche e al privato accreditato viene imposto il razionamento delle cure».
In effetti i numeri sono abbastanza impressionanti. Parliamo di 34,255 milioni di euro nella Provincia di Piacenza; 53,125 milioni a Reggio Emilia; 52,957 milioni a Bologna; 29,928 milioni a Modena; 9,943 a Parma. La gran parte di questi soldi è appunto a carico del sistema sanitario regionale, solo una piccolissima fetta è rimborsata da altre Regioni o dai Paesi di provenienza degli stranieri in virtù di accordi bilaterali.
«La gestione della sanità regionale da parte del governatore Michele De Pascale e dell’assessore Massimo Fabi non smette di destare la nostra preoccupazione», dice Bocchi. «A un anno di distanza dal loro insediamento, pur nella piena continuità con una Regione da sempre guidata dalla stessa parte politica, i problemi strutturali del Servizio sanitario regionale restano irrisolti e, in alcuni casi, risultano persino aggravati. Un anno fa De Pascale e Fabi hanno dato il benvenuto ai cittadini con una stangata per colmare un maxi buco ereditato dai predecessori. Eppure, nel corso del 2025, i disagi non sono affatto scomparsi: liste d’attesa interminabili, pronto soccorso in sofferenza, carenza di medici e infermieri. E come si è deciso di rispondere? Tagliando ulteriormente i servizi per chi paga le tasse sul territorio».
«In questo contesto», prosegue il consigliere, «si inserisce il tetto alla mobilità extra-regionale, una scelta miope e ingiusta. Una misura che penalizza i pazienti provenienti da Regioni meno attrezzate e che, al tempo stesso, mette in difficoltà le strutture emiliano-romagnole, costringendo alla chiusura o al ridimensionamento reparti che non vengono considerati di alta complessità solo sulla carta, ma che nella realtà lo sono eccome. Come se non bastasse la giunta ha introdotto limiti sempre più stringenti anche per il privato accreditato, arrivando a tetti persino per i pazienti extra Provincia. Un sistema di vincoli che, mentre produce liste d’attesa sempre più lunghe e riduce l’offerta di servizi, rischia di compromettere la sopravvivenza stessa delle eccellenze sanitarie regionali, che non possono reggere con i soli numeri dell’utenza emiliano-romagnola. Quanto sta accadendo è inaccettabile. Per alcuni si mettono tetti, limiti e budget mentre si lascia fuori controllo una voce che pesa in modo crescente sul sistema. La priorità deve tornare a essere la tutela dei nostri cittadini e la salvaguardia di un servizio sanitario che rischia di perdere, giorno dopo giorno, qualità ed equità».
Difficile dargli torto. L’Emilia-Romagna aumenta i ticket per i residenti e pensa di introdurre un tetto alle prestazioni sanitarie per chi viene da fuori Regione. Ma intanto sborsa milioni e milioni per gli extracomunitari, soprattutto albanesi, indiani, marocchini, egiziani e - in alcune Province - anche ucraini. Giova ricordare che nel 2024 il disavanzo della sanità regionale ammontava a 378 milioni di euro. Una cifra di cui converrebbe tenere conto prima di mostrarsi così tanto accoglienti.
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Ansa
Seguendo il presupposto dei giudici, ogni farmaco «efficace» e in grado di alleggerire gli ospedali può diventare obbligatorio.
La sentenza della Corte costituzionale n. 199, con la quale i giudici hanno di fatto legittimato l’imposizione del green pass, apre in teoria le porte all’estensione degli obblighi di trattamento sanitario. Finora, almeno formalmente, la Costituzione imponeva infatti che questi fossero legittimi solo se, oltre al ricevente, avessero tutelato anche la salute degli altri, «riducendo la circolazione del patogeno». Gli obblighi in questione sarebbero d’ora in poi costituzionalmente legittimi, anche se ritenuti efficaci per «tutelare la salute del solo ricevente», e/o per «contenere il carico ospedaliero».
Molti vaccini sono oggi presentati da fabbricanti e istituzioni con tali requisiti. Anche gran parte dei farmaci in commercio vanta tali proprietà: d’ora in poi quindi qualche autorità potrebbe pensare di renderli obbligatori per legge. Per scongiurare questa pericolosa deriva occorre entrare nel merito su tutti e tre i fronti: effetti sulla salute dei singoli, sulla trasmissione comunitaria e sul carico ospedaliero. Gli argomenti per farlo non mancano: la divulgazione «scientifica» propone un grande uso di farmaci quando, in realtà, le ricerche scientifiche suggerirebbero approcci più prudenti o ben diversi. Vediamo alcuni esempi.
1Lo screening con Psa del cancro alla prostata. Il New England journal of medicine ha appena pubblicato i risultati finali della più grande e valida ricerca randomizzata controllata su oltre 160.000 maschi di sette Paesi europei, in media di 60 anni al reclutamento e 83 dopo 23 anni di follow up. I gruppi di controllo erano confrontati con gruppi sottoposti a screening ripetuti con misura del Psa, per la diagnosi precoce del cancro prostatico. Gli autori dichiarano una (modica) riduzione significativa del 13% delle morti da cancro prostatico, grazie ai risultati di due soli Paesi, Olanda e Svezia, pur in presenza, nei gruppi con Psa, di una generale sovradiagnosi di tumori che non si sarebbero manifestati nel corso della vita. Nella maggioranza degli altri Paesi, però, la mortalità da cancro prostatico in tendenza è persino aumentata (in Italia +6%). Peggio ancora, in Italia è anche aumentata la mortalità totale: 67 morti in più nei 7.500 soggetti con Psa. Dunque, in Italia lo screening ha comportato in media svantaggi su tutti i fronti: più diagnosi, trattamenti e complicanze (e verosimili carichi ospedalieri), più danni individuali, più morti e costi per la comunità. Le regioni che hanno avviato screening organizzati dovrebbero rimetterli in discussione, smettere di promuoverli e, quanto meno, far figurare i risultati delle migliori prove a oggi sui modelli di consenso informato di chi vuole iniziare un Psa di screening, cui spesso seguono cascate di ulteriori test, anche invasivi, costi e danni.
2Le vaccinazioni pediatriche obbligatorie. Il tema, reso tabù, richiederà molti approfondimenti scientifici in contraddittorio. Basti per ora ricordare che in vaccinologia sono abituali questi inganni: usare falsi placebo nei gruppi di controllo, garantendo ai vaccini un’errata percezione di sicurezza, mentire su «protezioni di gregge» che gran parte dei vaccini non assicurano affatto, dichiarare del tutto sicure vaccinazioni multiple simultanee mai studiate in modo corretto - che i vaccini siano «efficaci e sicuri» come classe, anziché valutarli in modo scientifico critico uno per uno, come si dovrebbe per ogni farmaco - che i profarmaci a base di mRna siano «vaccini», per sottrarli a controlli di legge riservati ai farmaci, basare gran parte delle valutazioni di efficacia e sicurezza su studi clinici affidati ai produttori, in gravi conflitti di interessi.
3Una ricerca scomoda. Tanti studi di confronto «vaccinati verso non vaccinati» erano stati respinti non per avere dati deboli, ma perché questi non erano graditi, sostenendo che non provenivano da istituzioni di alto livello o non apparivano sulle maggiori riviste mediche. Ciò ha spinto il regista Del Bigtree a rivolgersi al dottor Zervos, importante infettivologo Usa dello stimato centro medico Henry Ford Health. Bigtree chiese a Zervos, convinto fautore dei vaccini, di dimostrare che i no vax sbagliavano, attuando la maggior ricerca di confronto su 16.500 vaccinati e 2.000 non vaccinati seguiti fino a dieci anni, completata nel 2020. I risultati furono devastanti per i vaccinati contro le convinzioni di Zervos, che però scelse di non pubblicarli.
Nel 2022, Bigtree lo convinse a spiegare il perché, registrando con una telecamera nascosta. Zervos ammise apertamente: «Se pubblicassi una cosa simile, sarebbe la mia fine». Tale episodio reale, insieme ai risultati della ricerca, consegnata a Bigtree, compaiono nel film An inconvenient study, che mostra che i bambini vaccinati hanno avuto probabilità:
• 4,29 volte maggiore di soffrire d’asma;
• 3 volte maggiore di malattie atopiche (come l’eczema);
• quasi 6 volte maggiore di patologie autoimmuni, con oltre 80 diverse malattie;
• 5,5 volte più disturbi del neurosviluppo;
• 2,9 volte più disabilità motorie;
• 4,5 volte più disturbi del linguaggio;
• 3 volte più ritardi di sviluppo;
• 6 volte più infezioni acute/croniche dell’orecchio;
• In circa 2.000 bambini non vaccinati non si sono avuti disturbi d’attenzione/iperattività (Adhd), diabete, problemi comportamentali, difficoltà d’apprendimento, disabilità intellettive, tic o altri disturbi psicologici.
La ricerca ha concluso che, contrariamente alle aspettative, l’esposizione alle vaccinazioni si associava in modo indipendente a un aumento complessivo di 2,5 volte della probabilità di una condizione di salute cronica rispetto ai non vaccinati, che hanno avuto nei dieci anni studiati il 17% di probabilità di malattia cronica, contro il 57% nei vaccinati, con evidente aumento di danni individuali e carico ospedaliero.
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