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2025-12-08
Prima della Scala, Milano inventa una Lady «sbagliata» e trova Dante dentro Shostakovich
- Il finale a sorpresa del regista esalta il Piermarini: Katerina uccide e muore nel fuoco, non nelle acque gelide. Un’idea che rimanda alla «Commedia». Undici minuti di applausi, Chailly acclamato al suo ultimo 7 dicembre.
- Proteste in tono minore di sindacati e pro Pal. Fontana: niente governo? Va bene così.
Lo speciale contiene due articoli.
Piovono rose (rosse e bianche) e applausi su assi di legno che sanno ancora di morte, mista a cherosene. Per raccontare il capodanno della Scala partiamo dalla fine (non dal finale «sbagliato», quello va metabolizzato e il suo odore pungente in teatro si sente ancora). Iniziamo dal Dopo la Prima, dal verdetto dei cronometristi che conferma il successo (per i trionfi il pubblico pretende titoli che conosce a memoria) di questo 7 dicembre, festa del patrono di Milano, Sant’Ambrogio, e stavolta pure di Dmitri Shostakovich, martire (artisticamente parlando) di Iosif Stalin.
Sono oltre 11, infatti, i minuti di giubilo certificati e da consegnare ai posteri per questa Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Non saranno gli irraggiungibili 92 giri d’orologio di fantozziana memoria (l’irripetibile stroncatura della Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn da parte del mitico ragioniere sembra la parodia di quanto fece vergare sulla Pravda il dittatore comunista contro il povero Dmitri Dmitrievic), ma siamo a un soffio dalla fortunata - fa strano scriverlo perché dicono che porti sfiga - Forza del destino di Verdi dell’anno scorso.
L’applausometro, che rileva le vibrazioni del Piermarini, è inequivocabile: il cuore del pubblico se l’è rubato il soprano venuto dal Michigan per impossessarsi del ruolo principale, Sara Jakubiak. Partita un po’ frenata, ha saputo ridare vita alla tragedia di Katerina L’vovna. Dalla romanza dell’atto iniziale ha preso fiducia, coprendo il primo squillo di cellulare della serata (non succederà quasi più, ma ne cadranno a terra molti). Solo di qualche decibel inferiore il boato per Alexander Roslavets, basso bielorusso con il physique du rôle - tra il tenente Kojak e Mastro Lindo - che ha portato in scena la versione virile del claustrofobico Boris: suocero, ma soprattutto spirito maligno, che tormenta la protagonista anche da morto. Anche se accolto quasi dallo stesso entusiasmo - ma non è una gara e non siamo a X Factor, con buona pace di Achille Lauro, ben accomodato - ha forse convinto meno Najmiddin Mavlyanov, tenore uzbeko, nei panni dell’amante Sergej.
In pieno controllo di una partitura più che impegnativa, dai mille stili e colori (valzer viennese, Mahler, Offenbach e molto altro), il direttore musicale, Riccardo Chailly, alla sua dodicesima e ultima inaugurazione. Gli applausi tra un atto e l’altro (molti i «Bravo Maestro», urlati prima del terzo e quarto) sapevano di grazie per questi anni e lasciavano presagire l’abbraccio finale, che è puntualmente arrivato.
Riavvolgiamo il nastro. Neanche il tempo di aprire il sipario alle 18.01 - dopo un inno nazionale mai così poco partecipato (anche al Loggione calma piatta) - che il regista moscovita Vasily Barkhatov - pure per lui solo ovazioni e complimenti - ha già fatto tre mosse: del villaggio russo del 1860 non c’è traccia, l’azione si svolge a Mosca, al tramonto dell’era Stalin (morirà nel 1953, 17 anni dopo aver censurato questo capolavoro). L’azienda rurale degli Izmailov è diventata un ristorante. Ma soprattutto il caso è già chiuso. Katerina sta «cantando». Non in senso letterale - dove sarebbe la notizia? - ma in gergo mafioso. Nella prima scena la bella moglie (a questo punto vedova) del ricco mercante siede a un tavolino Ikea da interrogatorio. Accetta le sigarette dello sbirro in uniforme bianca e collabora. Tra i capelli il beffardo velo delle nozze con Sergej, stroncate dalla polizia dopo il ritrovamento del cadavere del pingue marito.
Primo strappo: nel libretto deve succedere tutto, sul palcoscenico il giallo è risolto (altro che Garlasco e cold case all’italiana). Giudicando con le orecchie, la Izmajlova soffre di noia cronica, «da impiccarsi». E nemmeno immagina che uno stalliere (pardon, cameriere) sta per stravolgerle la vita. Per lui però sarà disposta persino a condire i funghi del suocero con il veleno per sorci (il tema di Boris è una marcetta da topo, lo spiega su Youtube Pietro Rigacci). Per l’occhio invece è svanita ogni suspense. Da qui alla fine, la narrazione sarà un ping pong perpetuo tra ricordi del passato e disperante attualità di una confessione che prepara l’inevitabile condanna. A indicare dove siamo nella linea spazio-tempo ci pensano i cambi di luce e le morbose incursioni dei poliziotti che obbligano i Bonnie e Clyde sovietici a rimettere in scena ogni cosa, compresa la loro sfrenata passione. Terribile quando i due sono costretti a replicare il loro primo amplesso con le manette ai polsi (una delle trovate con le quali il regista riesce a non essere didascalico nelle scene di sesso, lasciando fare ai glissando di tromboni e alle percussioni). Pochi letti, si fa l’amore su tavoli. Il fantasma di Stalin, dal palchetto dei dittatori, storce il naso.
I piani temporali cambiano all’istante, come quando i due amanti strangolano Zinovij, mentre al poveretto cascano i pantaloni. Una scena da commedia di Lino Banfi (dramma e grottesco insieme, sarcasmo shostakovichiano in purezza). Un secondo dopo, il corpo del consorte soffocato si trasforma in manichino, svelando il flashback: una ricostruzione da Quarto Grado, da plastico di Porta a Porta.
Ma è l’epilogo «opposto» a ciò che sulla carta dovrebbe accadere a offrire una prospettiva originale e metafisica a questa rappresentazione lacerante e sarcastica nello stesso tempo.
Ultimo atto: le domande dei celerini finiscono, Katerina si ritrova in una landa desolata. Manca solo la scritta «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate» per far diventare Divina quella che non è mai stata una commedia, ma una «tragedia satirica». Sulle teste dei prigionieri cadono fiocchi candidi. Nessuno però pensa al «Natale con la neve» di Vasco. I brividi dei condannati rimandano alla Siberia e all’Inferno dantesco. A quel «pozzo scuro» e freddo che ripaga i traditori, lasciandoli al gelo. «L’acqua è nera come la mia coscienza», canta quest’anima tormentata che, a breve, dovrebbe trascinare con sé la rivale nell’abisso. Invece - nello choc del pubblico in smoking - si inonda di benzina e sceglie di finire nel fuoco, insieme a Sonetka (da film l’ingresso delle due torce umane, con le fiamme che sfiorano i nobili tendaggi rossi). È lei l’ultima conquista di quello «sciupafemmine» di Sergej (che non merita di essere più chiamato amorevolmente Sëreza) per il quale aveva inutilmente scommesso la vita, alla ricerca di un’inafferrabile felicità.
Viene il sospetto che Barkhatov sia un fan di Una pura formalità di Giuseppe Tornatore. La suggestione si fa strada pensando che questa centrale di polizia sia un po’ il tribunale celeste, alla fine dei tempi. Chi è sottoposto al giudizio rivede e rivive la sua esistenza scegliendo liberamente il proprio destino finale. Impressioni? Ipotesi? Lapidario il commento di un’elegante sciura milanese alla consegna dei cappotti: «La Katerina che prende fuoco, pure questa mi toccava vedere…».
Cori contro la Venezi, lodi all’imam di Torino
Come ogni anno la Prima della Scala rappresenta l’occasione per un ricettacolo di proteste più o meno variopinte. Questa volta, con un pizzico di fantasia in più, i manifestanti hanno persino creato dei cartonati del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con scritto «Lady MacMelon», allegoria del vero spettacolo di ieri sera. Una manifestazione dal carattere prettamente antifascista e antisemita. All’altoparlante, in collegamento telefonico, è intervenuto anche Mohammad Hannoun, presidente dell’associazione palestinesi d’Italia, che ha ricevuto un foglio di via di un anno da Milano. Tanti gli slogan e gli striscioni pro Pal e in solidarietà a Mohamed Shanin, l’imam di Torino colpito da un decreto di espulsione per un comizio in cui parlava del 7 ottobre. Per i manifestanti, l’appuntamento sotto il Piermarini (al quale hanno partecipato anche le sigle sindacali Cgil e Cub) e davanti al municipio di Milano «non è una ricorrenza, ma resistenza». Nel mirino, come detto, anche Giorgia Meloni: «Lady Mac Melon del distretto è venuta qui a ricordarci come la cultura non serve a niente, o meglio, non tutte le culture servono. Quelli come lei dicevano, libro e moschetto, fascista perfetto», ha proclamato un manifestante nel bel mezzo di un vero e proprio spettacolo inscenato in strada.
Tra fumogeni e slogan, sul palco dei contestatori sono comparsi anche i personaggi caricaturali del ministro Giuseppe Valditara, vestito da militare, del ministro della Cultura, Alessandro Giuli, del sindaco Beppe Sala e di Manfredi Catella, l’imprenditore (ceo di Coima) coinvolto nell’inchiesta sull’urbanistica a Milano. Infine, cori contro la neo direttrice della Fenice di Venezia, Beatrice Venezi. Un militante, sul piccolo palcoscenico di fortuna sui cui campeggiava la scritta «Il teatro delle complicità», ha detto: «Non vogliamo essere complici di un genocidio e non vogliamo un sindaco che dice “Palestina libera” e poi il Comune continua a incassare soldi da Israele».
Per Riccardo De Corato, deputato Fdi ed ex vicesindaco di Milano, «in piazza della Scala a Milano abbiamo assistito a nuove dichiarazioni offensive al presidente del Consiglio. In particolare, da parte di una consigliera ed esponente del Movimento 5 stelle sono state pronunciate frasi inaccettabili nei confronti di Giorgia Meloni», accusa. In scena, anche la protesta di una decina di ucraini, per tenere accesi i riflettori sulla guerra nel loro Paese.
Dentro il teatro, scarsa come annunciato la rappresentanza politica nazionale: niente Sergio Mattarella, niente Giorgia Meloni, il solo ministro della Cultura Alessandro Giuli per l’esecutivo: la star è la senatrice Liliana Segre. Tanto che il governatore lombardo Attilio Fontana ha buon gioco a fare l’autonomista: «Governo assente? Ce ne faremo una ragione».
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Giovanni Segantini, Ritorno dal bosco, 1890. © Segantini Museum St. Moritz - Deposito della Fondazione Otto Fischbacher Giovanni Segantini
Tra i massimi esponenti del Divisionismo italiano e fra i più sensibili osservatori del mondo naturale, a Giovanni Segantini Bassano del Grappa dedica una retrospettiva (sino al 22 febbraio 2026) di oltre 100 capolavori, mostra che inaugura ad oltre dieci anni dall’ultima esposizione italiana dedicata al grande Maestro trentino.
Nato ad Arco di Trento nel 1858, quando quella parte d’Italia era ancora terra austriaca, un’adolescenza travagliata, trascorsa tra Milano e la Valsugana, segnata anche da un arresto per vagabondaggio e un periodo in riformatorio, Giovanni Segantini (1858-1899), che nonostante le vicende personali riuscì a frequentare per quasi un triennio l’Accademia di Brera e stringere amicizie negli ambienti artistici cittadini che ne influenzarono profondamente la sua arte , è stato un artista innovativo e poliedrico, capace di catturare la bellezza della natura e la spiritualità dell'esistenza umana come pochi altri hanno saputo fare.
Visceralmente legato alla sua terra d’origine e all’Engadina (il luogo che lo ha ospitato negli ultimi anni della sua breve vita), il suo stile, caratterizzato da una profonda connessione spirituale con la montagna e la vita rurale, ha lasciato il segno nella storia dell’arte italiana e internazionale, che lo annovera fra il massimi esponenti ( se non il più importante..) del Divisionismo italiano : punto d’arrivo della sua parabola artistica , il «Segantini divisionista» abbandonerà via via i soggetti agresti per il «simbolismo naturalistico » e per una più personale interpretazione del rapporto panteistico tra Uomo e Natura, sostituendo alla tecnica tradizionale dei colori mischiati sulla tavolozza singole, piccole, nette pennellate posizionate l’una accanto all’altra sulla tela, per formare, nell’insieme, l’immagine. Mosso da una ricerca spasmodica, quasi ossessiva, di riscrivere in termini pittorici gli spazi naturali e di rappresentare la forza evocativa delle scene di vita montana che lo circondavano, Segantini, soprattutto nell’ultimo decennio della sua vita, visse quasi in totale isolamento, alimentando così il mito di un artista « eroicamente solitario ». In realtà, la sua figura e le sue straordinarie opere vanno inquadrate nei contesti artistici e culturali in cui visse e che lo influenzarono, elementi fondamentali per comprendere a fondo questo grande artista. Ed è questo l’obiettivo della mostra allestita fino al 22 febbraio 2026 ai Musei Civici di Bassano del Grappa, un'occasione davvero unica per ammirare la produzione artistica di Segantini in tutta la sua complessità e bellezza. Come ha ben sottolineato Barbara Guidi, Direttrice dei Musei Civici di Bassano del Grappa, «…la mostra sfata il mito del genio isolato per consegnarci un Segantini perfettamente integrato nei dibattiti figurativi del proprio tempo, audace sperimentatore di tecniche pittoriche, inventore di un’iconografia della montagna così potentemente evocativa, carica di poesia e sentimento, da risultare eterna e inscalfibile nella sua laica sacralità. Un’eternità oggi messa in discussione dal repentino cambiamento climatico che rende questo soggetto prepotentemente attuale».
La Mostra
Fra le iniziative più attese dell’Olimpiade Culturale di Milano Cortina 2026, un’iniziativa che accompagna i Giochi Olimpici e Paraolimpici Invernali con un ricco calendario di eventi culturali diffusi sul territorio nazionale, la retrospettiva dedicata a Giovanni Segantini offre al visitatore un percorso espositivo vario e articolato, composto da circa 100 opere tra dipinti, disegni, incisioni, ma anche fotografie e documenti archivistici. Curata da Niccolò D’Agati, la mostra è divisa in quattro sezioni, ognuna delle quali esplora un aspetto diverso dell'arte di Segantini: si parte dalla fase milanese, segnata dall'incontro con il gallerista e sodale Vittore Grubicy De Dragon, che influenzerà radicalmente l'evoluzione del suo percorso artistico, per arrivare agli ultimi anni, quando l’arte di Segantini si fa più sperimentale e caratterizzate da una profonda ricerca sulla luce e il colore. Nel mezzo, il periodo brianzolo, con quel crescente interesse per la natura e la rappresentazione della comunione tra uomo, paesaggio e animali e poi la fase svizzera, forse la più nota, durante la quale Segantini si dedica alle sue grandi e celebri composizioni della vita montana, nelle quali si legge la sua personale interpretazione del rapporto tra l’Uomo e il Creato. Opera dopo opera, passando da Ave Maria a trasbordo a Ritorno dal bosco, da Pascoli di primavera a Dopo il temporale, quello che emerge è la straordinaria capacità di Segantini di catturare la bellezza della natura e di rappresentare la spiritualità dell'esistenza umana.
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Monterosa ski
Freeride, sci alpinismo da urlo, una nuova pista da slittino e baby snow park appena rinnovato. In più, sconti e voucher.
Se chi ben comincia è a metà dell’opera, allora si apre una stagione con i fiocchi ai piedi del Monte Rosa. L’inverno debutta tra le valli e le vette di Ayas, Gressoney e Alagna, portando in pista una «montagna» di novità, esperienze e tecnologie di ultima generazione.
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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2025-12-07
Alla Scala trionfa il nero (e qualche sfumatura): la Prima tra glamour, assenze e record d’incassi
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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