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2025-12-18
Sì dell’Eurocamera all’iniziativa anti vita per far pagare a noi il turismo abortivo
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La proposta introduce un fondo per sostenere i viaggi verso Paesi con regole più lasche.
L’Unione europea, che ha oscurato e negato le radici giudaico-cristiane del nostro continente, ha aggiunto un’altra medaglia al suo vergognoso palmares di scelte contro la vita: oggi è passata al Parlamento europeo l’Iniziativa cittadini europei (Ice) siglata «My voice, my choice»: «La mia voce, la mia scelta: per un aborto sicuro e accessibile». Patrocinata da sigle radicali femministe e sostenuta da schieramenti politici europei, la proposta ha raccolto 1 milione e 120.000 firme, proponendo un adeguato sostegno finanziario europeo per garantire un aborto legale e sicuro a tutte le cittadine europee, in particolare a coloro che vivono in Paesi con legislazioni restrittive circa l’accesso alla interruzione volontaria di gravidanza.
Secondo gli organizzatori, «il mancato accesso all’aborto in molte parti d’Europa provoca non solo danni fisici ma sottopone le donne e le famiglie a un ingiusto stress economico e psicologico». In concreto, la risoluzione - al momento non vincolante - stabilisce che si debba garantire che una donna residente in un Paese che prevede l’aborto solo entro un termine temporale ristretto (ad esempio, la dodicesima settimana) possa contare e usufruire di un aiuto economico europeo che le permetta di recarsi in altro Paese con una legge più permissiva.
Viene denominato «sacrificio solidale», e alla sua realizzazione devono essere coinvolti tutti gli Stati europei. Come sempre, quando ci troviamo di fronte a una normative contro la vita, ci si imbatte nella più bieca ipocrisia: il vero «sacrificio» non sono i soldi per finanziare l’aborto, ma il bimbo che viene sacrificato, senza appello alcuno, dalla dittatura del «my voice, my choice». La voce del bimbo non esiste, la sua scelta per la vita non esiste, conta e ha valore soltanto la volontà di chi vuole liberarsene. Il grande assente, il «convitato di pietra», come oggi si usa dire, è il bambino, il suo diritto alla vita, la sua difesa, la sua incolumità. Se di solidarietà vogliamo parlare, perché non finanziare un fondo per aiutare mamme in crisi nel portare a termine la propria gravidanza, con un sostegno economico che salvi le due vittime di ogni aborto, bimbo e mamma? Perché, di fronte alla possibilità di salvare anche una sola vita, la scelta cade sempre sulla morte del bimbo? Non è più «civile» salvare che uccidere?
Un altro aspetto non si può tacere: nel 2012 la campagna europea «One of Us» - in Italia fortemente sostenuta da Carlo Casini e il Movimento per la Vita - per il riconoscimento giuridico del concepito e la difesa della vita umana fin dal concepimento raccolse circa 1 milione e 750.000 firme (650.000 in più di questi), la più alta quota mai raggiunta da una Ice, l’Iniziativa dei cittadini europei, ma venne respinta senza dibattito parlamentare. Motivazione? Proposta legislativa non in linea con i principi generali dell’Ue, oltre al fatto che nel continente «la protezione della vita prenatale è già garantita». Ogni commento è superfluo, perché l’ipocrisia si commenta da sé. Ma una domanda rimane: perché due pesi e due misure? Perché una raccolta firme viene oscurata, mentre una inferiore trova diritto a essere dibattuta e accolta? Forse una risposta c’è, anzi, purtroppo una risposta c’è: perché questa Ue ha scelto come collante l’euro e il mercato, e ha rifiutato i principi fondanti la storia della cultura occidentale, da Atene a Gerusalemme e Roma.
Se da un lato non si può che provare amarezza e vergogna per questo nuovo tassello contro la vita, dall’altra si deve raccogliere la sfida a non arretrare. Resta più che mai attuale il monito di quel vecchio profeta vissuto 700 anni prima di Cristo, di nome Isaia, che ci interpella già dal suo nome - «Isaia: Il Signore salva» - ammonendoci di non arrenderci mai, soprattutto nel tempo in cui si chiama «il bene male e il male bene, si trasforma la luce in tenebra e la tenebra in luce, confondendo il dolce con l’amaro» (Isaia, capitolo 5). Un capovolgimento di valori e principi morali e umani che non sta portando nulla di buono, basta guardarsi attorno.
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Fabrizio Corona (Ansa)
L’ex fotografo mostra presunte chat hot. Il presentatore: «Tutto i mano ai miei avvocati».
Il Me too in salsa gay incontra il Grande Fratello. Fabrizio Corona ha sparato il suo ennesimo petardo: «Se non vai a letto con Alfonso Signorini non lavori in televisione». Il conduttore Mediaset gli ha risposto secco: «Non parlo di questo, ho già messo in mano tutto ai miei legali». Nel frattempo, sui social, tra allusioni e mezze frasi, spuntano ragazzi che hanno il dente avvelenato con Alfonsino e consentono a Corona, di fatto, di continuare a montare la panna sulla vicenda.
I due protagonisti sono volti noti della televisione. Milanese, 61 anni, ex insegnate di liceo, il conduttore del Grande Fratello è direttore editoriale del settimanale scandalistico Chi ed è titolare, insieme a Mondadori, della Talent Agency, che seleziona idee e personaggi da lanciare sul piccolo schermo. Corona, dieci anni di meno, ha iniziato come fotografo e si è legato alla scuderia di Lele Mora. Ha avuto qualche guaio con la giustizia, tra cui una pesante condanna per ricatti vari a 13 anni nel 2015, ma nel 2019 ha ottenuto i domiciliari per motivi terapeutici. L’unica cosa certa in questa storia è che i due hanno nuotato nelle stesse acque per oltre un ventennio. Ora succede che Corona conduce un programma online chiamato prudentemente Falsissimo e nell’ultima puntata ha sparato a zero sul rivale: «Se non vai a letto con Alfonso Signorini non lavori in televisione». E ha descritto il giornalista come «l’unico vero trampolino di lancio per il mondo dello spettacolo», denunciando l’esistenza di un «sistema Signorini» che comprenderebbe circa 500 persone e durerebbe da circa 10 anni, seguendo all’incirca sempre lo stesso schema. Che, inutile dirlo, secondo Corona prevederebbe prima le prestazioni sessuali omo e poi l’ingresso nel mondo dello spettacolo. Secondo una modalità che Corona ha già sperimentato in passato con altri obiettivi delle sue «inchieste», al primo scoop segue una sorta di call to action. E qualcuno salta sempre fuori, ovviamente. Così, specialmente su Instagram, adesso è il momento delle allusioni pesanti contro Signorini. Una serie di personaggi da reality sono usciti allo scoperto. Uno di questi si chiama Antonio Medugno, che da piccola celebrità dei social è diventato concorrente dell’edizione 2022 del Grande Fratello. A Corona ha raccontato che si scambiò messaggi vari con Signorini per 4-5 mesi, fino ad arrivare a un incontro in cui avrebbe respinto le sue avance. Il risultato è stato ambiguo: il ragazzo fu inizialmente scartato, ma poi ripescato pochi mesi dopo. Fanpage ha ricostruito altri due casi di concorrenti che si sono lamentati dei metodi di Signorini, tra cui uno che si sarebbe «difeso» solo raccontando di conoscere Maria De Filippi. E poi c’è chi come l’ex calciatore della Sampdoria Stefano Bettarini ha scritto su Instagram: «Quando sei sulla riva del fiume da 4 anni e… Karma». Signorini non ha voluto rispondere: lo faranno per lui i suoi avvocati, ai quali ha dato ampio mandato.
Vista la fedina penale già appesantita, per Corona non è una buona notizia. Ieri pomeriggio, infine, è toccato anche a Rosario Fiorello intervenire. Nella sua trasmissione La Pennicanza, prima ha affrontato il caso Signorini con prudenza, ma poi ha sentenziato: «Ragazzi, lo scandalo è grosso» e ha videochiamato Corona. Quello, con grande maestria, ha finto di tentennare un po’, dopo di che ha alzato il tiro: «Io sto combattendo una guerra contro il sistema, l’unico vero, onesto, pulito è Rosario Fiorello! La vuoi un’esclusiva? La storia che ho lanciato ieri non finisce qui!». E ha fatto chiaramente il gesto delle manette. Non si è capito per chi.
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Tra gli anni '20 e '30 furono venduti liberamente bevande, cosmetici e oggetti al radio e al torio, pubblicizzandone le proprietà benefiche. Furono prodotte e diffuse anche in Italia. Saranno le vittime famose e la bomba atomica a decretarne il declino.
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Negli anni Venti la radioattività diventò una moda. Sulla scia delle scoperte di Röntgen e dei coniugi Pierre e Marie Curie alla fine dell’Ottocento, l’utilizzo di elementi come il radio e il torio superò i confini della fisica e della radiodiagnostica per approdare nel mondo del commercio. Le sostanze radioattive furono esaltate per le presunte (e molto pubblicizzate) proprietà benefiche. I produttori di beni di consumo di tutto il mondo cavalcarono l’onda, utilizzandole liberamente per la realizzazione di cosmetici, integratori, oggetti di arredo e abbigliamento. La spinta verso la diffusione di prodotti a base di elementi radioattivi fu suggerita dalla scienza, ancora inconsapevole delle gravi conseguenze sulla salute riguardo al contatto di quelle sostanze sull’organismo umano. Iniziata soprattutto negli Stati Uniti, la moda investì presto anche l’Europa. Il caso più famoso è quello di un integratore venduto liberamente, il Radithor. Brevettato nel 1925 da William Bailey, consisteva in una bevanda integratore in boccetta la cui formula prevedeva acqua distillata con aggiunta di un microcurie di radio 226 e di radio 228. A seguito di un grande battage pubblicitario, la bevanda curativa ebbe larga diffusione. Per 5 anni fu disponibile sul mercato, fino allo scandalo nato dalla morte per avvelenamento da radio del famoso golfista Eben Byers, che in seguito ad un infortunio assunse tre boccette al giorno di Radithor che inizialmente sembravano rinvigorirlo. Grande scalpore fece poi il caso delle «Radium girls», le operaie del New Jersey che dipingevano a mano i quadranti di orologi e strumenti con vernice radioluminescente. Istruite ad inumidire i pennelli con la bocca, subirono grave avvelenamento da radio che generò tumori ossei incurabili. Prima di soccombere alla malattia le donne furono protagoniste di una class action molto seguita dai media, che aprì gli occhi all'opinione pubblica sui danni della radioattività sul corpo umano. A partire dalla metà degli anni ’30 la Fda vietò definitivamente la commercializzazione delle bevande radioattive. Nel frattempo però, la mania della radioattività benefica si era diffusa ovunque. Radio e torio erano presenti in creme di bellezza, dentifrici, dolciumi. Addirittura nell’abbigliamento, come pubblicizzava un marchio francese, che presentò in catalogo sottovesti invernali con tessuti radioattivati. Anche l’Italia mise in commercio prodotti con elementi radioattivi. La ditta torinese di saponi e creme Fratelli De Bernardi presentò nel 1923 la saponetta «Radia», arricchita con particelle di radio. Nello stesso periodo fu messa in commercio la «Fiala Pagliani», simile al Radithor, brevettata dal medico torinese Luigi Pagliani. Arricchita con Radon-222, la fiala detta «radioemanogena» era usata come una vera e propria panacea.
Fu la guerra, più che altri fattori, a generare il declino definitivo dei prodotti radioattivati. Le bombe atomiche del 1945 con le loro drammatiche conseguenze a lungo termine e la continua minaccia di guerra nucleare dei decenni seguenti, fecero comprendere ai consumatori la pericolosità delle radiazioni non controllate, escludendo quelle per scopi clinici. A partire dagli anni Sessanta sparirono praticamente tutti i prodotti a base di elementi radioattivi, vietati nello stesso periodo dalle leggi. Non si è a conoscenza del numero esatto di vittime dovuto all’uso di alimenti o oggetti, in quanto durante gli anni della loro massima diffusione non furono da subito identificati quali causa dei decessi.
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La famiglia Trevallion
La famiglia anglo-australiana è stata separata quasi un mese fa, ma i giudici ancora non hanno deciso sulla sorte dei bimbi. Osservati da «esperti» come animali in gabbia, mentre le loro informazioni, pure le più riservate, continuano a essere date in pasto ai media.
Viene da domandarsi da chi siano davvero danneggiati i bambini del bosco. Dalla famiglia, da papà Nathan e mamma Catherine che li facevano vivere in una antica casa di campagna con bagno esterno? Oppure dalle solerti istituzioni che da qualche tempo li stanno trattenendo in una casa famiglia per il loro «migliore interesse»? La domanda a questo punto è più che lecita. I piccoli Trevallion stanno in una struttura protetta da circa un mese. Sono stati portati via da casa il 20 novembre, con un robusto dispiegamento di forze e solo grazie all’intervento dell’allora avvocato della famiglia, Giovanni Angelucci, si ottenne che la madre potesse seguirli. Da allora vivono sotto osservazione, vedono il padre molto poco e in orari prestabiliti, incontrano la mamma in occasione dei pasti. Il tribunale dei minori dell’Aquila continua a rinviare la decisione sulla loro sorte: potranno tornare a casa per Natale?
Viene spontaneo interrogarsi su questi tempi dilatati. Se la situazione dei Trevallion era così grave da condurre all’allontanamento dei bambini, possibile che ci voglia così tanto a stabilire se debbano o no ritornare con i genitori? Il buon senso ma soprattutto la legge dicono che i minori vanno allontanati dalla famiglia solamente in caso di grave emergenza, di rischi evidenti per la salute fisica o psichica dei piccoli. Ebbene, a quanto pare i rischi non sono poi così evidenti se serve un mese per giudicare. In compenso, sappiamo per certo che l’allontanamento da casa e genitori provoca traumi.
Non è tutto. Inizialmente, ai Trevallion fu rimproverato di aver esposto i bambini sul palcoscenico mediatico a causa di una intervista concessa alle Iene. Ebbene, martedì il Garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Abruzzo ha diffuso dichiarazioni piuttosto dure, spiegando che è stata «violata la privacy di questi bambini. Sono state pubblicate informazioni riservate, sulla scolarizzazione, sulle vaccinazioni o sullo stile di vita che dovevano transitare in un fascicolo non sui media. La riservatezza viene prima del diritto di cronaca».
Il fatto è che qualcuno queste informazioni le ha diffuse, sappiamo che cosa hanno scritto e detto gli assistenti sociali e la tutor della famiglia.
Lo dice anche Danila Solinas, una dei due nuovi avvocati dei Trevallion, che avevano cominciato il mandato scegliendo silenzio totale e collaborazione con i giudici, ma ora forse un po’ hanno cambiato idea, visto che i risultati si fanno desiderare. «Non parlo né di delusione né di aspettative disattese per il mancato ricongiungimento immediato», dice Solinas. «Non mi aspetto che il tribunale elargisca favori, ma che applichi la legge. Semmai mi chiedo come si concili il rigoroso rispetto della riservatezza dei minori con la diffusione di elementi sensibili che li riguardano». Già, come si concilia questa esposizione con il bene superiore dei bambini?
Per altro, quel che leggiamo delle valutazioni delle autorità non è incoraggiante. L’assistente sociale Veruska D’Angelo, per esempio, esprime valutazioni che sollevano qualche dubbio. «Si ribadisce», scrive, «che anche l’individuazione delle problematiche riguardanti la situazione abitativa, socioeconomica, igienico sanitaria, socioculturale ed educativo relazionale è stata condivisa e sottoscritta dai genitori e dall’avvocato, riconoscendo e condividendo dunque tali aspetti».
Secondo l’assistente sociale, il «disagio maggiore» dei piccoli Trevallion nel vivere con altri bambini «si può osservare quando si attivano fra loro confronti sia per le proprie esperienze personali che per le proprie competenze, in quanto si evidenziano deprivazioni di attività condivisibili con il gruppo dei pari, per esempio da un semplice gioco ad attività più specifiche come i compiti scolastici e le conoscenze generali».
Insomma, non conoscono i giochi che fanno gli altri. Davvero terribile. Leggiamo ancora: «Il loro sonno è stato turbato dalla presenza, all’interno della stanza, di oggetti di uso comune quali l’interruttore della luce e il pulsante di scarico dello sciacquone del bagno». E poi «L’igiene personale dei minori è apparsa subito scarsa e insufficiente. Gli operatori sono riusciti a fare la doccia ai bambini soltanto nella serata del secondo giorno di collocamento ma solo con acqua, non volendo usare i saponi messi a disposizione... Uno dei fratelli ha dimostrato timore nei confronti del soffione della doccia. Rispetto al cambio degli indumenti i bambini hanno spiegato che indossano gli stessi vestiti per un’intera settimana e in genere il sabato li cambiano».
Capito? Si sono cambiati i vestiti una volta la settimana e uno di loro aveva timore del soffione della doccia perché era abituato a lavarsi in altro modo. Sembra quasi uno scherzo: si devono allontanare i bambini da casa perché si cambiano solo una volta alla settimana? Meritano di essere separati da madre e padre perché non hanno la doccia ma si lavano in altra maniera? Bisognerebbe dirlo a tutti gli illustri ecologisti che negli anni passati hanno spiegato in tv e sui giornali che non si deve sprecare acqua.
In ogni caso, l’assistente sociale ci tiene a spiegare che i piccoli «reagiscono con gioia e gratitudine alle varie attenzioni che ricevono, dai vestiti puliti e profumati che annusano continuamente oltre ad annusare le persone che li circondano, alle varie attività ludiche proposte, esprimendo spesso di voler restare “al caldo”».
Si tratta degli stessi bambini che alle autorità hanno dichiarato di trovarsi benissimo a casa. Utopia Rose, la più grande, ha fornito un racconto idilliaco: «Ci piace giocare insieme, all’aperto. Costruiamo una casetta e ci occupiamo dell’orto. Amiamo lavorare la lana con i ferri, lo facciamo tutti e tre. Siamo vegani e mangiamo quasi tutte cose prodotte da noi. Io cucino a colazione i pancake per tutti. Ci piacciono molto le cose che mangiamo e ci piace prepararle insieme, come i panini con le uova delle nostre galline. I parenti che vivono in Australia li vediamo in videochiamata con il tablet».
Non risulta che, da maggio a novembre scorso, gli assistenti sociali abbiano visitato con frequenza la casa della famiglia. Non risulta nemmeno che ci siano state altre audizioni dei bambini. Sembra che tutto si basi soltanto sulla valutazione di alcuni esperti i quali appaiono molto interessati a normalizzare i Trevallion, a rimarcare quanto piacciano le comodità ai bambini, a sottolineare tutte le stranezze mostrate da questi. A che cosa è servito allontanarli? A osservarli per un mese come bestioline allo zoo e a esporli alle feroci valutazioni del pubblico? Forse è il caso di domandarselo.
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