2021-11-09
All’Ocse le toghe sono innocenti a prescindere
«L'Ocse faccia luce sui piani per colpire i pm di Milano», titolava ieri Repubblica. «Corruzione internazionale: in Italia la lotta è a rischio», rincarava Il Fatto Quotidiano. I due giornali davano in questo modo notizia della lettera di quindici magistrati di tutto il mondo in difesa dei pm che hanno indagato sul cosiddetto Nigeriagate, ovvero su una presunta tangente pagata dall'Eni che il tribunale di Milano, con due sentenze distinte, una delle quali passata in giudicato, ha ritenuto frutto di fantasia e fors'anche di depistaggio.Proprio a questo proposito, per capire chi abbia costruito notizie false e perché i pubblici ministeri titolari dell'azione penale non se ne siano accorti, la Procura di Brescia ha aperto un'inchiesta, indagando i vertici di quella di Milano. «Accuse infondate per azzerare la lotta alla corruzione», scrivono le toghe appartenenti al Corruption Hunters Network. Come facciano i firmatari di quest'appello citato da Repubblica e Fatto a emettere una sentenza di assoluzione nei confronti dei colleghi che hanno accusato i vertici del cane a sei zampe è incomprensibile, a meno di non partire dal presupposto che i magistrati sono innocenti a prescindere, prima ancora che le inchieste a loro carico si concludano con un non luogo a procedere o un'archiviazione. Fabio De Pasquale, il pm capo delle indagini sull'Eni, non è sotto accusa perché qualcuno vuole colpire i magistrati milanesi o mettere in discussione la lotta alla corruzione, ma perché lui e i suoi colleghi non solo si sono bevuti le frottole contro i manager della compagnia petrolifera, instaurando un processo lungo e costoso che si è risolto con delle assoluzioni, ma non hanno prodotto nel processo alcuni documenti, tra i quali un video, che avrebbero scagionato gli imputati e fatto comprendere le intenzioni calunniose messe in atto da Vincenzo Armanna e Pietro Amara, i due super testimoni della tangente farlocca. E dire che sarebbe bastato sequestrare i telefoni dei due e decrittare i messaggi scambiati fra loro e con altri per comprendere che molte delle testimonianze accolte come oro colato erano in realtà delle patacche. Ieri una perizia, chiesta dagli stessi pm che hanno rappresentato l'accusa contro l'amministratore delegato del gruppo di San Donato, ha stabilito che le chat consegnate per avvalorare un tentativo di depistaggio dei vertici dell'Eni sono false e fabbricate proprio per accreditare un'operazione di subornazione dei testimoni. «Con la consulenza viene meno il principale riscontro documentale alle dichiarazioni di Armanna», scrive il Corriere della Sera. Ma ci sono voluti tre processi, una sentenza definitiva, e un dibattimento lungo anni e una sfilata di testimoni improbabili fatti venire appositamente dalla Nigeria per arrivare a questa conclusione? Non si poteva procedere più speditamente, sequestrando i telefoni, il patrimonio degli accusatori, bloccando certe operazioni che avevano l'aria di mirare solo all'inquinamento delle prove portando a spasso gli inquirenti? Altro che lanciare appelli affinché l'Ocse faccia luce sui piani per colpire i pm di Milano. Qui c'è da fare luce sulle cause che hanno portato i pubblici ministeri del capoluogo lombardo a non capire di avere tra le mani non la più grande tangente della storia, ma la storia incredibile di una tangente che non c'era e non ci poteva essere. Capisco che Fabio De Pasquale, il magistrato finito sotto inchiesta e prossimo a lasciare l'incarico per prendere servizio proprio all'Ocse, non voglia assumere il nuovo incarico inseguito dalla pendenza di fallimento, ma questa non è una buona ragione né per accreditare l'idea che in Italia la lotta alla corruzione sia a rischio, né per non accertare chi ha sbagliato nel processo Eni.