2019-08-23
Nuovo taglio degli eletti, manovra ora e immigrazione. Il Pd vuole strozzare il M5s
Rifilati tre bocconi amari al Movimento. Fermare la legge bandiera anti Casta e toccare il reddito sono un pugno in faccia. Il capo dem: «Si può iniziare un lavoro».Alzare l'asticella della trattativa, e della sfida politica. Ma alzare l'asticella, per trattare o per rompere? Ieri è stato lo «Zinga day», il giorno della «reconquista». La partita è sempre più difficile, ed entra nel suo momento-verità, perché nel Partito democratico si gioca su almeno due tavoli, due partite parallele: sul primo contro giocatori esterni, i grillini. Sul secondo contro gli avversari interni, nel tavolino dei bari dove ogni giorno i renziani gli provano a fare un dispetto al segretario. L'ultimo? L'intervista sul Fatto con cui Matteo Renzi ieri apriva al «Conte bis», mentre il segretario era impegnato sulla linea esattamente opposta. Tuttavia nella prima mano - quella che si è giocata ieri - il Pd aveva una scelta chiara da fare: mettere la posta e vedere oppure dire «passo». E invece di passare, la mattina, dopo le consultazioni, ha messo la posta e ha visto. La partita con il M5s continua: sarà brevissima ma complessissima. Le condizioni e i bluff sono stati tanti, e continueranno a susseguirsi, imprevedibili, anche all'ultimo minuto. Matteo Renzi ha bruciato i ponti dietro le sue spalle, e oggi ha un solo risultato utile, il governo che scongiura il voto anticipato. Zingaretti - invece - vuole arrivare al tavolo negoziale avendo almeno una principale e una subordinata. Al segretario serve poter brandire la minaccia del voto per affrontare la difficile trattativa con Di Maio, che è partita ufficialmente ieri notte. Ma in questo momento la sfida è ancora, in corso. Al netto delle azioni di disturbo, Zingaretti ha espresso al presidente della Repubblica la sua volontà di andare a vedere. E ha dichiarato pubblicamente, dalla vetrata del Quirinale: «Siamo disponibili ad un governo di svolta». Ovvero un governo politico con il M5s, con il respiro di anni. Poi - sempre ieri - c'è stata una scaramuccia tra Andrea Orlando e Anna Ascani sui punti del mandato. I renziani hanno attaccato, fino ad ottenere una rettifica: Ascani: «I punti sono quelli posti in direzione». Ivan Scalfarotto: «Spero che il segretario si sia attenuto alla direzione». Andrea Orlando: «Il passo indietro sui decreti sicurezza è imprescindibile». Contemporaneamente il Pd ha fatto imbufalire il M5s, facendo circolare, in via informale, un lodo con tre condizioni «irrinunciabili» e «discriminanti» (no al taglio dei parlamentari così come è scritto, abolizione dei decreti sicurezza, e accordo preventivo sulla manovra, con attenzione al reddito di cittadinanza). E così Gianluigi Paragone, senatore del Movimento, ha tuonato sui social: «Rivedo la solita boria del Pd!». Ma in questa fase - si vis pacem, para bellum - è normale che i due contrattatori si mostrino reciprocamente i denti, digrignando. Un dettaglio: Zingaretti ha sfumato il punto sulla discontinuità (ovvero il veto per gli ex del governo gialloblù). Così l'unico vero nodo di incompatibilità (se si sta alle dichiarazioni pregiudiziali, e se si incrociano le rispettive liste di priorità) è quello sul taglio dei parlamentari. Su questo uno dei due leader non potrà che cedere o rompere, anche se le parole del capogruppo M5s Patuanelli («ci vedremo e parleremo su questo») lasciano intendere spazi di manovra. E, in serata, lo stesso Zingaretti risponde: «Emerge un quadro in cui iniziare a lavorare con i 5 stelle». Al Quirinale, nella parte di conversazione che Sergio Mattarella ha ovviamente tenuto riservata, sia Di Maio sia Zingaretti hanno risposto alle altre domande cruciali: chi vogliono come premier, di che partito deve essere il premier, quali sono le incompatibilità (sui nomi) veramente non negoziabili o incompatibili. E poi, sempre al presidente della Repubblica, i due leader hanno parlato dei tempi: il M5s vuole più di 48 ore per decidere. Mentre il Pd, informalmente, poco prima della comunicazione di Mattarella che rimanda tutti a martedì fa sapere: «Perché si possa dialogare la condizione preliminare è che siano chiusi gli altri forni». Il riferimento è al fatto che sul tema del taglio dei parlamentari esiste una labile posizione di recupero da parte della Lega, unica forza (al momento) che continua ad esprimere la sua disponibilità a votare la riforma Costituzionale. Ma il messaggio di Mattarella mette fine a tutte le schermaglie. Quello che il presidente non può concedere è un tempo indeterminato. I nodi veri, occulti o pubblici, devono essere risolti entro cinque giorni. «Le decisioni chiare e in tempi brevi» riguardano il perimetro della nuova maggioranza e il nome di chi la guiderà. Poi il tempo del Pd sarà scaduto: è restata solo una strada, il voto. Quello in cui Zingaretti, male minore, ma utilità marginale, pensa di liberarsi di due problemi in un colpo solo: il M5s al 30% e la minoranza renziana padrona del gruppo del Senato. Una certezza che lo rende più forte, bluff a parte.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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