2025-08-08
Non invocando l’interesse nazionale il governo ha scoperto il fianco
Nordio avrebbe potuto schivare il caso Almasri applicando la legge che consente di non dar corso alla domanda di estradizione, qualora questa minacci la sicurezza del Paese. Norma ignorata pure dal Tribunale dei ministri.Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione Secondo un antico detto popolare, «chi ha le comodità e non se ne serve non trova confessore che l’assolva». Di esso avrebbe forse fatto bene a ricordarsi il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quando si è trovato tra le mani la patata bollente dell’avvenuto arresto del presunto torturatore libico Njeem Osama Almasri, in esecuzione del mandato spiccato contro costui dalla Corte penale internazionale. Per trarsi d’impaccio, infatti, egli avrebbe avuto a sua disposizione il comodo strumento offertogli dall’art. 3 della legge n. 327 del 2012, attuativa, per l’Italia, delle disposizioni contenute nello statuto della Corte penale internazionale, in combinazione con l’art. 697, comma 1 bis, del codice di procedura penale. Il primo di detti articoli stabilisce che «In materia di consegna, di cooperazione e di esecuzione di pene si osservano, se non diversamente disposto dalla presente legge e dallo statuto, le norme contenute nel libro undicesimo, titoli II, III e IV, del codice di procedura penale». E fra tali norme, non espressamente derogate né dalla legge speciale né dallo statuto della Corte penale, vi è appunto quella costituita dal citato comma 1 bis dell’art. 697, in forza del quale: «Il ministro della Giustizia non dà corso alla domanda di estradizione quando questa può compromettere la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato». Sarebbe quindi bastato che il ministro, richiamandosi alle suddette norme, avesse ufficialmente adottato la decisione di non dar corso, nel ritenuto, superiore interesse dello Stato, alla richiesta di consegna dell’Almasri alla Corte penale internazionale per risolvere il problema e stroncare, al tempo stesso, sul nascere, ogni e qualsiasi iniziativa giudiziaria che, come poi, invece, avvenuto, si fosse voluta adottare nei suoi confronti. E costituendo quella decisione, all’evidenza, un atto tipicamente «politico», non vi sarebbe stato neppure obbligo, a rigore, di esplicitarne le motivazioni, salva comunque la possibilità, se lo si fosse ritenuto necessario, di ricorrere anche all’imposizione del segreto di Stato - come giustamente ricordato dal prof. Daniele Trabucco nell’articolo a sua firma comparso su La Verità del 6 agosto scorso - ai sensi dell’art. 39 della legge n. 124/2007. Si è, invece, preferito, da parte del ministro, presumibilmente nell’intento di non affrontare le contestazioni politiche alle quali avrebbe dato luogo l’essersi avvalso del potere conferitogli dalle norme dianzi indicate, arrampicarsi sugli specchi per giustificare in altro modo la mancata consegna dell’arrestato. Il che non solo ha lasciato aperto il varco alle iniziative giudiziarie dalle quali è scaturita la richiesta di autorizzazione a procedere avanzata, nei confronti suoi e di altri componenti del governo, dal Tribunale dei ministri per i presunti reati correlati alla mancata consegna, ma non ha neppure evitato, né poteva evitare, le contestazioni politiche. Queste, infatti, vi sarebbero comunque state, quale che fosse stata la giustificazione della mancata consegna, giacché in ogni caso la stessa sarebbe stata attribuita all’intento di non perdere - come invece sarebbe presumibilmente avvenuto se l’Almasri fosse stato consegnato - la collaborazione del governo di Tripoli nel contrasto all’immigrazione irregolare proveniente dalle coste libiche. In realtà, questa è appunto la finalità che sicuramente, nell’indubbio (o, quanto meno, ragionevolmente ritenuto) interesse dell’Italia, si è voluta perseguire, ma è anche quella che, secondo un diffuso convincimento, alimentato dalle opposizioni e da gran parte dell’apparato mediatico, sarebbe da considerare inammissibile e vergognosa a causa delle vere o presunte atrocità di cui i migranti sarebbero vittime in territorio libico a opera o, almeno, con la copertura delle stesse autorità locali. A questo punto vi è, però, da chiedersi se, per il solo fatto che il ministro non abbia esplicitamente evocato, a sostegno del proprio operato, il potere conferitogli dalla legge di rifiutare la consegna nel ritenuto, superiore interesse dello Stato, fosse impedito al Tribunale dei ministri di rilevare, d’ufficio, la oggettiva sussistenza, comunque, del suddetto interesse, con conseguente esclusione di qualunque ipotesi di reato che al rifiuto di consegna potesse essere collegata. La risposta dovrebbe essere, a rigore, negativa. L’esercizio, infatti, di un diritto - quale sarebbe stato, in base alla legge, quello del ministro di rifiutare la consegna dell’Almasri nella ritenuta presenza dell’interesse in questione - costituisce, ai sensi dell’art. 51 del codice penale, una causa di non punibilità che, come tale, se sussistente, dev’essere riconosciuta dal giudice, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, come espressamente stabilito nell’art. 129 del codice di procedura penale, indipendentemente, quindi, dalla circostanza che l’imputato, nel porre in essere la condotta a lui addebitata, vi abbia fatto esplicito riferimento o che l’abbia poi invocata davanti al giudice. E che, nel caso di specie, la motivazione della mancata consegna non potesse che essere stata quella del ritenuto, superiore interesse dello Stato non era ragionevolmente dubitabile, tanto è vero che anche nella relazione redatta dal Tribunale dei ministri a sostegno della richiesta di autorizzazione a procedere, non si fa il benché minimo cenno a quella che, in ipotesi, potesse essere stata una motivazione diversa. Nulla avrebbe impedito, quindi, di considerare la condotta del ministro come legittimo esercizio, di fatto, del potere conferitogli dalla legge, pur avendo egli ritenuto che fosse nel suo interesse giustificarla, maldestramente, in altro modo. E, anzi, proprio la rilevata, palese inconsistenza delle giustificazioni da lui offerte doveva costituire ulteriore conferma dell’unica che, ragionevolmente, poteva darsi per vera. D’altra parte, è la stessa legge costituzionale n. 1/1989, regolatrice dei procedimenti d’accusa per i reati ministeriali, a prevedere, all’art. 9, che l’autorizzazione a procedere debba essere negata qualora l’accusato abbia agito per un «preminente interesse pubblico». Ed è pressoché certo, attesa anche l’esistenza di una maggioranza parlamentare sicuramente favorevole agli accusati, che, nella specie, quella sarà la decisione adottata. Il Tribunale dei ministri, quindi, non avrebbe fatto, come si dice a Roma, «un soldo di danno» se, anticipando tale decisione ma fondandola su ragioni esclusivamente giuridiche, quali potevano essere quelle in precedenza indicate, avesse chiesto, non per il solo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ma anche per il ministro Nordio e per gli altri coimputati, un provvedimento di archiviazione.
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Elly Schlein con Eugenio Giani (Ansa)
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La casa era satura di gas fatto uscire, si presume, da più bombole vista la potente deflagrazione che ha fatto crollare lo stabile. Ad innescare la miccia sarebbe stata la donna, mentre i due fratelli si sarebbero trovati in una sorta di cantina e non in una stalla come si era appreso in un primo momento. Tutti e tre si erano barricati in casa. Nell'esplosione hanno perso la vita 3 carabinieri e sono risultate ferite 15 persone tra forze dell'ordine e vigili del fuoco. (NPK) CC
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