2024-04-15
«Non vedo ancora la voglia di fare chiarezza sui vaccini»
Giovanni Frajese (Imagoeconomica)
Il medico Giovanni Frajese: «L’archiviazione di Speranza, senza approfondire la questione, è un segnale evidente. E i miei colleghi continuano a contestarmi quando partecipo ai convegni».«Credo che in questo momento ancora non ci sia la voglia di guardare in faccia la realtà, perché facendolo bisognerebbe mettere in discussione quelli che sono stati gli atteggiamenti incredibilmente violenti e discriminatori messi in atto contro chi, a ragion veduta, ha avuto il coraggio di dire le cose esattamente come stavano», spiega l’endocrinologo Giovanni Frajese, professore associato di Uniroma Foro Italico, tra le poche voci critiche delle misure pandemiche e dell’obbligo vaccinale, costatogli nel 2022 la sospensione. Pochi giorni fa ha partecipato a un convegno nell’Aula Magna del Polo Universitario. La sua presenza ha causato lo sdegno di alcuni suoi colleghi medici, alcuni dei quali hanno addirittura contattato Repubblica per lamentarsi della sua partecipazione. Il giornale l’ha definita «il medico no vax e anti gender». Pare che il clima di acredine verso i suoi confronti e verso chiunque non si sia adeguato alla narrazione mainstream sul periodo pandemico sia ancora forte.«Sì, e continuano a utilizzare questo termine, che ha perso qualunque significato, “no vax”, che io ho rifiutato fin dall’inizio, perché è una semplificazione che serve semplicemente a screditare la persona che fa notare qualche discrepanza tra quello che veniva propagandato, cioè delle menzogne, e quello che in realtà era scritto anche sul bugiardino della Pfizer stessa. È un peccato che i colleghi, al posto di lamentarsi, non siano venuti a sentire invece di che cosa si parlava, perché magari avrebbero potuto capire che è molto semplice rendersi conto di quello che è successo in questi anni».Ovvero?«Il governo e tutti gli ordini a esso collegati hanno mentito alle persone. È ora che di ciò ne venga preso atto. Per esempio, l’ex presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha detto pubblicamente che il Green pass dava la certezza di stare tra persone che non potevano contagiare, ma era una menzogna. Il vaccino non era mai stato testato per questa ragione, fin dall’inizio era noto sia all’Aifa che all’Ema. Oggi ci si deve fermare un secondo e rendersi conto di cosa non ha funzionato, anziché continuare a bollare le persone con questo tipo di parole che servono semplicemente a screditarne l’opinione senza neanche ascoltarla».Secondo lei la commissione parlamentare d’inchiesta potrà essere determinante nella ricerca della verità? «Diciamo che l’archiviazione, senza neanche approfondire la questione, dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza è un segnale abbastanza chiaro della direzione in cui si vuole procedere. Siamo oramai a quasi due anni dall’insediamento del governo e ancora la commissione non è stata istituita. Non vedo dall’attuale esecutivo, al momento, la voglia di far chiarezza. Eppure dovrebbero essere decisi a comprendere tutto quello che è stato fatto. Parlo di lockdown, distanziamento sociale, mascherine e vaccinazione, quali sono stati gli effetti reali nella vita, non quelli propagandati fin dall’inizio. E gli effetti reali, documentati dalla letteratura scientifica, hanno bocciato tutte queste misure, anzi si è arrivato anche a mettere nero su bianco che, per esempio, il distanziamento sociale non aveva nessuna base scientifica, le mascherine non impediscono la trasmissione, anzi possono causare tutta una serie di problemi, eppure ancora oggi se si entra negli ospedali viene richiesta la mascherina come se fosse un dispositivo di protezione, non si sa bene da che cosa. Allo stesso modo, il lockdown ha creato una serie di problemi che stanno scontando soprattutto i nostri giovani, con una percentuale di ragazzi, e soprattutto ragazze, che soffrono di depressione.Cosa dovrebbe fare il governo per le vittime di effetti avversi?«Due cose: intanto prendersene carico, e secondo sdoganare la possibilità di fare ricerca scientifica seria sugli effetti collaterali, il che significa capire il meccanismo di eziopatogenesi, cioè che cosa sta causando il danno. Queste persone vivono in una condizione di grossa sofferenza giornaliera oramai da più di due anni, alcune arrivano a togliersi addirittura la vita perché non hanno la prospettiva di poter guarire o di essere presi sul serio. Abbiamo assistito anche qui a un comportamento vergognoso da parte della classe medica che trattava la maggior parte di queste persone come pazienti psichiatrici. È necessario che invece i sanitari prendano atto che l’esperimento farmacologico, perché di questo si è trattato, doveva essere eseguito con una farmacovigilanza attiva, proprio per poter registrare tutto quello che eventualmente sarebbe derivato e che non potevamo conoscere, visti i pochi tempi di sperimentazione». Secondo lei durante la pandemia, ma anche attualmente, tra i sanitari erano tutti convinti di ciò che facevano o si sono semplicemente adeguati, sia per non essere sospesi senza retribuzione, sia per convenienza?«Beh, direi che per rispondere a questa domanda basta vedere la percentuale di personale sanitario che si vaccinò prima che ci fosse l’obbligo. Meno del 20%. Il che significa che fin dall’inizio la maggior parte dei colleghi qualche dubbio lo aveva. Poi con l’obbligo è scattato un meccanismo di tipo psicologico completamente diverso, sono riusciti a compattare l’opinione di chi è stato forzatamente obbligato a vaccinarsi. Perfino chi come me, e altri, aveva già avuto il Covid e a distanza di 3 mesi avrebbe dovuto vaccinarsi per la stessa patologia. Un’indicazione che grida ancora vendetta, perché significa fondamentalmente non avere nessuna idea di come funziona il sistema immunitario umano».Il suo libro si intitola Contrastare le minacce alla salute e all’anima delle generazioni presenti e future. Quali sono queste minacce?«Il libro è stato scritto pensando ai bambini, poiché abbiamo assistito a una cosa che non era mai accaduta nella storia dell’umanità, cioè abbiamo fatto entrare in una sperimentazione di massa i piccoli dai 5 anni in su, dicendo che era importante proteggere i nonni dall’eventuale contagio della patologia. Abbiamo sperimentato sui bambini, sulla base di una menzogna, perché in realtà questi prodotti non hanno mai impedito la trasmissione della patologia. Queste menzogne venivano direttamente dall’Oms. La stessa Oms che sta sdoganando quello che viene oggi comunemente chiamato «il diritto alla sessualità dei bambini» e che prevede un programma di insegnamento e sessualizzazione precoce dai 4 anni. Questa francamente mi sembra una follia».Cosa ne pensa della somministrazione dei bloccanti della pubertà ai giovani a cui viene diagnosticata la disforia di genere?«In Gran Bretagna si stanno rendendo conto di tutto quello che è successo negli ultimi anni, della maniera troppo semplice con la quale si ricorre a degli strumenti di tipo chimico, se non chirurgico, che poi hanno delle conseguenze a lungo termine, se non permanenti. Stanno vedendo che la maggior parte delle persone che soffrono di disforia di genere dovrebbero essere trattate per problemi di tipo psicologico, psichiatrico, che stanno alla base del problema. Quindi si sta andando in una direzione che finalmente torna a essere logica. Anziché assecondare qualunque cosa la mente dica, forse prima va verificato se la situazione è realmente come viene descritta o invece è in atto un tentativo di fuga dai propri problemi, che molto spesso sono difficilmente superabili da ragazzi in quell’età».Anche su questo l’ambiente medico è diviso. Parte consistente della comunità scientifica, inclusa la Società italiana di pediatria, ritiene il blocco della pubertà un trattamento reversibile e utile ai minori in difficoltà. Dal suo punto di vista, questo è un approccio ideologico, anziché scientifico, conveniente da sposare?«È conveniente, perché si possono ottenere fondi di ricerca e perché in qualche maniera ci si aggrega a quello che è un determinato modo di pensare, che è quello che viene rappresentato di più a livello mediatico, e perciò sembra essere la parte giusta. In realtà poi questi farmaci sono associati a una serie di problemi che possono essere anche gravi. Ma di questo non si può parlare perché altrimenti è lesa maestà. Esattamente come con il Covid, tutto quello che viene propagandato e reso ideologico da un certo tipo di approccio che vuole normalizzare quello che normale non è mai stato, porta alla fine a una perdita del senso della scienza stessa, la quale diventa un mezzo di propaganda». Molti genitori di ragazzi con disforia di genere sono favorevoli all’uso dei bloccanti della pubertà, in quanto ritengono che abbiano aiutato i loro figli. Cosa direbbe loro?«Che per comprendere se hanno aiutato o meno i loro figli dovrebbero aspettare il tempo necessario a vedere veramente che cosa succede, e che l’esperienza internazionale, purtroppo, ha portato invece a conclusioni che sono completamente differenti. Prima di interrompere lo sviluppo fisiologico del bambino o dell’adolescente bisognerebbe pensarci cento volte. Invece c’è una superficialità diffusa, anche perché c’è un ricco giro di indotti, sia dal punto di vista farmacologico che chirurgico, collegato a questo tipo di attività».
Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio europeo (Ansa)
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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