2020-12-13
Nel poker della crisi stanno bluffando tutti. Il re dei bari però resta sempre Renzi
Il Bullo minaccia Giuseppi anche se nessuno gli crede. Il Pd sta a guardare ma non difende più il premier. E lo stallo può durare.Se fosse una mano di carte sarebbe il momento clou in una partita di bari. E al tavolo di gioco della maggioranza, in questo momento, ci sono un mazzo di carte truccato e tre pokeristi in crisi: il Partito democratico, il premier Giuseppe Conte, e ovviamente lo statista di Rignano. Tre bluff che non si incastrano, e il valore del piatto che sale - insieme al rischio -a ogni giro: c'è uno che minaccia una crisi a cui non crede nessuno, c'è una task force che avrebbe dovuto cambiare l'Italia ma che è stata congelata (forse non si farà mai), e c'è un partito che prende le distanze (ma nemmeno troppo) indeciso tra i due contendenti. E infine c'è un mistero da chiarire: come mai il Pd, che fino a ieri si proclamava la forza più vicino a Conte («Sarà il campione di una coalizione», pronosticava Goffredo Bettini), oggi ha visibilmente raffreddato i suoi entusiasmi? E come mai, dopo aver quasi destituito un capogruppo (Andrea Marcucci), accusandolo di «intelligenza con il nemico» (cioè lo stesso Renzi), adesso il Pd usa toni molto più cauti? Per chiarire questo gioco di specchi, di finzioni e di parti recitate, che tuttavia oggi è il cardine intorno a cui gira la galassia del governo, occorre fare chiarezza. Dice un dirigente dem di peso (è di fatto il numero due di Zingaretti) come Andrea Orlando: «Qualcuno vuole fare un Papeete a dicembre». Ed è il suo modo per spiegare che il partito avverte il tentativo di Renzi di provare ad aumentare il suo peso e la sua influenza nella maggioranza giallorossa, esattamente come fece nella famosa estate 2019, l'altro Matteo (cioè Salvini). Tuttavia, a questa analisi molto dura, non fa seguito la stesura di un cordone sanitario simile a quello che in passato il partito aveva stretto intorno a Renzi (ad esempio ai tempi del tentativo di spallata con la fiducia al ministro Alfonso Bonafede). Allora Zingaretti e il partito fecero muro sia intorno al governo che intorno al premier, oggi prevalgono sentimenti diversi che hanno nomi incerti come sfiducia e disincanto. Una faglia ha indebolito la maggioranza. In off record, uno dei dirigenti della maggioranza spiega il perché di questo disincanto: «Conte ha commesso una grave leggerezza, o peggio, un errore. Non ha avvisato nessuno. Si è esposto. Renzi fa il filibustiere, ma il premier aveva immaginato la sua task force senza consultarsi». Non solo: «Procedere in questo modo sul Recovery fund, significa farsi nemiche tutte le burocrazie istituzionali e ministeriali di questo Paese. E senza di loro - conclude - non si va da nessuna parte». Queste parole spiegano bene quello che in aperto nessuno dice: il motivo per cui il Pd ha raffreddato il suo entusiasmo. Poi c'è Renzi: apparentemente in questa mini crisi gli era andato tutto bene. Era tornato al centro della scena, aveva ripreso in mano l'agenda mediatica, aveva trovato un tallone di Achille del premier. Poi ha esagerato. Un dirigente dem com il gusto dell'ironia come Gianni Cuperlo la riassume così: «Mi sembra come un corridore che in pista le azzecca tutte, e poi, appena uscito con la coppa, cappotta nel parcheggio». Chiedo a Cuperlo di spiegare la battuta e lui lo fa così: «Aveva fatto leva su tante motivazioni fondate, per la prima volta aveva raccolto un seguito oltre i suoi. E poi...». E poi? «Attaccare il governo, su uno dei giornali più influenti d'Europa, proprio nel momento più delicato della trattativa con Bruxelles durante il Consiglio europeo è stata una indubbia gaffe. E la politica non ti perdona: si è indebolito, ha spaventato anche i suoi». Cuperlo coglie nel segno perché la sovraesposizione ha rivelato anche il bluff del senatore di Pontassieve. E il segnale che in mano non c'erano assi è la rivolta dei suoi stessi senatori, terrorizzati dall'idea che si potesse mettere in moto un meccanismo fatale. «Se salta questa maggioranza c'è solo il voto», ha spiegato ancora Orlando (delegato a difendere la linea del Pd dopo lo strappo), e così ieri la chat degli eletti di Iv ha iniziato a ribollire: «Matteo, non puoi rischiare di strappare: se si va a votare scompariamo», ha scritto uno di loro. E molti altri, meno brutalmente, dicono, e fanno sapere, che se si rompesse la maggioranza «durante il Covid» nessuno dei loro elettori capirebbe. Fra l'altro non è ancora chiusa la partita della legge elettorale, e nessuno nei nutriti gruppi parlamentari renziani (30 deputati 18 senatori) ha certezza di tornare, nemmeno con la legge attualmente in vigore (che ironia della sorte, porta il nome di un renziano: il Rosatellum). La differenza che rende visibile il bluff è semplice: se ci fosse una crisi andrebbero a casa, se non ci sarà crisi restano in carica fino al 2022. Chi correrebbe rischi?Ma l'ultimo tema, l'ultimo bluff sul tavolo è quello che riguarda il tentativo di Palazzo Chigi. Conte è ferito, dispiaciuto, addirittura amareggiato: anche ieri lo descrivevano così. Ha provato a incontrare Renzi personalmente, e questo ha fatto infuriare ancora di più il Pd, come se fosse l'ammissione di una preferenza tra alleati. Ha perso il sostegno incondizionato di Zingaretti, che dava per scontato. Ha dovuto frenare il suo progetto ambizioso, congelare l'operazione Recovery plan. Riesumarla adesso, per lui, significherebbe esporsi a un rischio, sapendo che in caso di crisi un governo comunque si farebbe. Ed ecco perché, fino al semestre bianco, il tavolo dei bluff resta aperto: tutti i giocatori hanno abbastanza forza per rilanciare. Nessuno ha quella che serve per prendersi tutto il piatto.