
l’amministratore delegato di Moderna, Stéphane Bancel. E gli ricorda di quando, durante l’edizione 2020, si erano incrociati nella sala colazioni e lui l’aveva informata che la compagnia stava «lavorando su un vaccino per il Covid. Allora», sottolinea giustamente la conduttrice, «il Covid-19, in realtà, nemmeno esisteva». «Sì, non aveva ancora un nome», conferma, raggiante, il ceo della casa farmaceutica. La conversazione prosegue in un’atmosfera di amicizia e compiacimento per i successi dell’azienda. A nessuno viene in mente che la rivelazione di Bancel meriti di essere approfondita. Sì, Moderna aveva un vaccino prima che l’Oms inventasse la sigla «Sars-Cov-2»: era stato concepito a gennaio 2020; il virus venne ribattezzato un mese dopo. Un vaccino espresso. Solo applausi? Nessun quesito?
Che la corporation americana avesse bruciato le tappe non era un mistero. Il mistero è come ci sia riuscita, considerate anche le reticenze cinesi nelle prime fasi dell’emergenza. All’inizio, le autorità del Dragone punivano i sanitari che osavano lanciare l’allarme per l’epidemia di polmoniti.
Dei prodigi di Moderna parlò sulla Verità, a maggio 2020, Antonio Grizzuti. Due giorni dopo che Pechino aveva comunicato la sequenza genetica del nuovo patogeno, i ricercatori statunitensi avevano messo a punto lo schema di quello che sarebbe diventato l’immunizzante a mRna. Era il 13 gennaio 2020. Il Wef sarebbe partito otto giorni dopo. Per capire che aria tirasse, basta recuperare l’archivio del Sole 24 Ore: nei pezzi che presentavano la kermesse, di Covid non si parlava manco in maniera collaterale. A tenere banco erano le stramberie di Donald Trump e «le trecce di Greta». Da noi, la versione ufficiale era che mai avremmo dovuto rinunciare al nostro stile di vita; chi aveva paura, sotto sotto, era razzista. Nei laboratori di Big pharma, invece, ci si affrettava a compiere l’opera: il 7 febbraio 2020 fu realizzato il primo lotto del medicinale, il 16 marzo venne somministrata la prima dose per i trial. Di lì a poco, la società si era dichiarata capace di avviare una produzione su larga scala entro l’autunno. E adesso, il numero uno della multinazionale ha spiegato a Reuters che sono in piedi trattative con la Cina per la fornitura dei sieri, oltre che dei futuri vaccini a mRna per il cancro.
Come fu possibile lo strabiliante risultato del 2020? C’entravano qualcosa i rapporti di Moderna con il governo americano? La partnership con il National institute of allergy and infectious diseases, branca dei National institutes of health? I cospicui fondi ricevuti dal Dipartimento della Salute, ben 483 milioni di dollari? E, magari, i vecchi legami con la Difesa Usa, che nel 2013 elargì 25 milioni di dollari per studi sui vaccini contro le malattie infettive «conosciute e sconosciute»? Insomma, l’accesso a materiali militari top secret? Qualcuno avrebbe potuto chiederglielo, a Bancel. Anche se i pezzi grossi delle case farmaceutiche non amano le domande. E il dialogo.
S’è capito dalle argomentazioni che il miliardario, nativo di Marsiglia, ha tirato fuori in uno dei panel del Wef. Nei Paesi in cui ci sono stati «dibattito scientifico», «dibattito politico» e dispute sui social, ha lamentato Mr Moderna, «il tasso di vaccinazione è stato molto basso». Ben diverso l’andazzo laddove «tutti i partiti», senza distinzioni, esortavano le persone: «Dovreste vaccinarvi». Sorge una perplessità: si può davvero esultare, se per convincere la gente a sottoporsi alle punture bisognava tenerla all’oscuro di controindicazioni e limiti dell’efficacia delle fialette? Si vede che il mondo ideale dei super manager di Big pharma è poco compatibile con i rituali della democrazia liberale. Ma tanto peggio per la democrazia liberale.
Ne sa qualcosa l’altro ceo accorso in Svizzera, quello di Pfizer, Albert Bourla. Curioso che costui abbia trovato il tempo di andare a Davos benché, per due volte, abbia declinato l’invito a presentarsi al cospetto della commissione d’inchiesta del Parlamento Ue. Sarà perché, alle domande degli eurodeputati a proposito di contratti per i vaccini e trattative via messaggio con Ursula von der Leyen, l’ad sarebbe stato costretto a rispondere. Al contrario, mentre si trovava al meeting delle élite mondiali, ha potuto serenamente ignorare un cronista che gli chiedeva: «Da quando sapeva che i vaccini non fermavano la trasmissione del virus? Per quanto tempo ne è stato consapevole, senza rivelarlo?». «Grazie mille, buona giornata», l’ha liquidato Bourla. Un fulgido esempio di quella che gli anglosassoni definiscono accountability: dare conto delle proprie azioni dinanzi all’opinione pubblica. L’impressione è che, per questi signori, sarebbe meglio se non ci fossero né un pubblico di fronte al quale giustificarsi, né opinioni diverse da avanzare.
Intanto, Davos ha portato la pace tra gli sfidanti nella partita pandemica. Bourla ci ha tenuto a minimizzare la vicenda della causa in corso con Moderna, in tema di paternità della tecnologia a mRna. Anzi, il ceo greco-americano ha riconosciuto i meriti della concorrenza, impegnata per un vaccino contro il virus sinciziale. La cui ondata tra i bambini, tanto per essere precisi, è stata una conseguenza del debito immunitario provocato da lockdown e mascherine. È un circolo vizioso che, chi (legittimamente) lucra sul business delle medicine, confida possa non interrompersi.
Celebrati i fasti del vaccino espresso di Bancel, Pfizer ha annunciato che il 2023 sarà l’anno del vaccino che è al contempo anti Covid e antinfluenzale. Prendi due e paghi uno. Oppure, come sta accadendo con le dosi per il coronavirus, toccherà pagare quattro volte di più?