
Il Comune di Milano vuole chiedere lo scostamento di bilancio
La prossima settimana il sindaco di Milano Giuseppe Sala volerà a Roma per incontrare di nuovo il ministro dell'Economia e delle Finanze Daniele Franco. L’obiettivo è ottenere rassicurazioni sul futuro. Per gli amministratori locali, l'ipotesi più percorribile per Milano sembrerebbe uno scostamento di bilancio, auspicato da tempo dal Movimento 5 Stelle e dai partiti di centrodestra della maggioranza di governo.
Anche il Pd negli ultimi giorni sembrava disponibile a questa soluzione. «Riteniamo che entro aprile sia necessaria una manovra di bilancio infra-annuale per prorogare le misure che finiscono a giugno» e che «lo scostamento non possa e non debba essere un tabù. I comuni, le regioni, gli enti territoriali non ce la fanno più», ha dichiarato il senatore del Partito democratico, Antonio Misiani.
Intanto a Palazzo Senatorio a Roma si stima un aggravio di 50 milioni di euro l'anno per il caro bolletta. L’amministrazione è corsa ai ripari con ordinanze a contrasto degli sprechi energetici negli uffici pubblici. Tuttavia lo spettro di un assottigliamento delle entrate provenienti dai tributi locali è sempre dietro l'angolo. Con la crisi economica, le imprese che chiudono e quelle che stentano ad arrivare alla fine del mese, la percentuale di non riscosso - che nella Capitale è già alle stelle, si stima un evaso da 9 miliardi - potrebbe aumentare. Per questa ragione le categorie chiedono esoneri e sospensioni anche sulle tasse comunali. Ma anche per venire incontro ad imprenditori e cittadini è necessario che il governo stanzi nuove risorse.
Secondo il sindaco Sala, bisogna consentire agli amministratori locali almeno di utilizzare gli avanzi di bilancio che a regime ordinario vanno accantonati. Tra l'altro «lo chiedono tutti i sindaci», ha rimarcato Sala. La situazione è esplosiva ovunque nella Penisola. Nel capoluogo campano, ad esempio, il disavanzo di amministrazione ha raggiunto cinque miliardi e il governo è intervenuto con il Patto per Napoli: 1,2 miliardi in vent'anni, in cambio dell'impegno a intraprendere misure per aumentare le entrate dell'erario cittadino. Con i venti di guerra, la crisi energetica e la recessione alle porte si rischia di comprimere ulteriormente i bilanci degli enti locali. Con conseguenze sui servizi ai cittadini. La coperta è corta e quindi gli amministratori locali saranno costretti a tagliare il budget per i servizi.
DOSSIER CALDO
Il tema è un sempre verde della politica locale, ma due anni di pandemia e la guerra in Ucraina, tra mancate entrate e rincari, ora rischiano di mandare in rosso i bilanci degli enti locali, a partire dalle 14 città metropolitane. L'Anci, l’associazione che riunisce i comuni italiani, ha stimato che nel complesso gli ottomila comuni italiani, solo per i rincari previsti sull'energia elettrica, andranno incontro a un aggravio di spesa almeno 550 milioni di euro per quest'anno. «Dal governo abbiamo ricevuto per ristori e trasferimenti straordinari per 478 milioni nel 2020 e 467 milioni nel 2021. Per il 2022 per ora la risposta da Roma è zero, o giù di lì, parliamo di 3, 4 o 5 milioni, come se nel 2022 i problemi fossero risolti», ha detto Sala, lamentando quattro mesi di interlocuzioni con il Tesoro che non hanno portato a nulla.
«Abbiamo congelato una parte della spesa perché così vogliono le regole, ma è evidente che se sarò costretto a fare dei tagli non potrò rifiutarmi», ha aggiunto. E non ha perso un minuto il sindaco di Roma a sostenere il collega: «Condivido l’appello di Beppe Sala: il governo sostenga i bilanci dei Comuni per contrastare il caro bollette e l'inflazione e affrontare l'emergenza rifugiati garantendo i servizi ai cittadini», ha scritto Gualtieri su Twitter.
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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