2018-03-25
Michael Dukakis: «Ormai noi democratici ignoriamo la gente sfiniti da faide interne»
L'ex governatore del Massachusetts: «Per vincere le elezioni di metà mandato a novembre dobbiamo tornare a guardare alla base popolare».La politica ad alti livelli, si sa, è un gioco sporco. Duro, maschio, a volte brutale. Soprattutto in America, dove le competizioni elettorali si rivelano spesso duelli cattivi, intrisi d'acrimonia e colpi bassi. Lo sapeva bene Gore Vidal che, nel 1964, sceneggiò L'amaro sapore del potere: un film dove, nel corso di una convention democratica, il candidato idealista si scontra con le tattiche scorrette del suo avversario. Un destino che non è solo finzione cinematografica. Ne sa qualcosa Michael Dukakis. Governatore del Massachusetts dal 1983 al 1991, fu il candidato democratico che sfidò George H. Bush alle presidenziali del 1988. Forte degli ottimi risultati economici ottenuti nella sua amministrazione governatoriale, vinse la nomination dell'Asinello e fu considerato subito da molti come l'uomo perfetto per spazzare via otto anni di reaganismo. Le cose andarono ben diversamente. Idealista convinto, Dukakis dovette scontrarsi con la campagna di Bush che lo demolì, facendolo spietatamente passare per un radicale sinistrorso e inconcludente. Una campagna a cui il governatore non seppe replicare adeguatamente. Due, in particolare, furono i suoi errori. Una volta, per guadagnarsi la nomea di duro, si fece riprendere a bordo di un carro armato con in testa un elmetto decisamente troppo grande, attirandosi così le irrisioni degli avversari. Tuttavia la sua avventura naufragò definitivamente in un dibattito televisivo contro Bush. Il moderatore gli chiese se, nel caso sua moglie Kitty fosse stata stuprata e uccisa, avesse potuto dirsi favorevole alla pena di morte: il «no» della risposta gli fu fatale, davanti a un'opinione pubblica all'epoca fortemente schierata in favore della pena capitale.Oggi che il Partito democratico statunitense appare in profonda difficoltà, La Verità ha deciso di intervistare Dukakis per la sua conoscenza delle dinamiche interne a questa compagine. Dopo la disastrosa débâcle del 2016, l'Asinello è sprofondato in un'anarchia interna, ostaggio di uno scontro tra centristi e radicali. Una linea unitaria non esiste e le stesse recenti vittorie conseguite dai dem in alcune elezioni locali devono essere prese con le pinze. Si tratta infatti di voti territoriali la cui valenza nazionale è tutta da dimostrare. Senza dimenticare come Conor Lamb, il democratico che ha vinto in Pennsylvania alcuni giorni fa, abbia cavalcato un programma tendenzialmente trumpista, in aperta polemica con l'establishment del suo partito.Michael Dukakis, perché, secondo lei, il Partito democratico ha subito una sconfitta così grave nel 2016? Quali sono le mosse che dovrebbe compiere per cercare di tornare a vincere?«Non è complicato. Il mio partito deve tornare in mezzo alla gente, con una campagna sul territorio, distretto per distretto, in tutti i cinquanta Stati. Deve smettere di accettare questa narrativa repubblicano-democratico. Nel 1988 ho conquistato la West Virginia e l'Iowa. Allora, perché devono essere considerati territori repubblicani? Trump sta guidando un'amministrazione da tipico uomo ricco repubblicano. La riforma fiscale è un regalo alle classi agiate. Non c'è motivo per cui i democratici non debbano competere e vincere in molti Stati. Per farlo, però, devono guardare alla base popolare. Questo è, d'altronde, quello che è successo in Pennsylvania alcuni giorni fa. Questo dovrebbe accadere in tutto il Paese il prossimo novembre. Hillary semplicemente non ha condotto una campagna elettorale attraverso tutti i cinquanta Stati. Questo è un dovere».Il prossimo novembre si terranno le elezioni di metà mandato, in cui si voterà per rinnovare la Camera e un terzo del Senato. Pensa che il Partito democratico abbia buone chances di conquistare almeno uno dei due rami del Congresso?«Dovremmo battere i repubblicani a novembre, ma ciò richiederà lo stesso tipo di campagna che ha vinto in Pennsylvania. Una campagna, cioè, con determinate caratteristiche: un buon candidato; un forte attacco alle politiche repubblicane che sono fiscalmente irresponsabili e non fanno nulla per la classe media; e, infine, un particolare impegno a favore dello sviluppo economico regionale, specialmente in quei territori che stanno ancora soffrendo».Il Partito democratico è costantemente dilaniato da lotte intestine, che vedono contrapposte le correnti centriste alla sinistra, guidata dal senatore Bernie Sanders. Un tema di divisione è soprattutto quello sanitario. Come pensa si possa uscire da questa faida interna?«Il Partito democratico non può permettersi battaglie tra i sostenitori di Sanders e altri. Indipendentemente dal fatto che uno sostenga una sanità pubblica per tutti o qualcosa come l'Affordable care act, queste posizioni non dovrebbero costituire una cartina di tornasole. La domanda chiave è: sosterremo un sistema sanitario che fornisca assistenza di qualità e completa a tutti, a costi accessibili? Ci sono molti modi per farlo. Non richiedono necessariamente un sistema sanitario universale, anche se alla fine questo è il sistema che dovremmo avere».Una delle principali motivazioni dello scontro interno ai democratici riguarda i cosiddetti superdelegati. Maggiorenti del partito che, senza essere eletti nel corso delle primarie, hanno comunque voce in capitolo nella scelta definitiva del candidato. Crede che, come chiede Sanders, vadano aboliti?«Ritengo che i superdelegati abbiano uno scopo importante. E io sono per mantenerli».Il presidente Trump ha recentemente imposto pesanti dazi sull'importazione di acciaio e alluminio. L'obiettivo sarebbe quello di tutelare la classe lavoratrice della Rust belt. Ritiene che il protezionismo possa essere una buona strada per la salvaguardia dei lavoratori americani?«Il commercio equo è la migliore politica, con una strategia economica americana aggressiva che competa con il meglio e si concentri sui propri punti di forza. Laddove uno Stato o una regione abbiano una base industriale che non competerà o non può competere, dovremmo fare investimenti in nuove strategie, creando posti di lavoro per quegli Stati e quelle regioni. Le aziende di energia eolica ora stanno assumendo i minatori di carbone licenziati nel Wyoming come tecnici del vento. Non c'è motivo per cui non possiamo fare cose simili in tutto il Paese».Che cosa si aspetta dalle prossime primarie democratiche?«Ci sarà una gran quantità di candidati per la nomination democratica nel 2020. Dovremo vedere chi sono e che cosa fanno, prima di decidere chi dovrebbe essere il candidato. Sono tuttavia fiducioso sul fatto che sapremo trovare la persona giusta e mandare Trump in pensione».Alla luce della sua esperienza nella corsa presidenziale del 1988, quali consigli darebbe all'Asinello per il 2020?«Due sono le lezioni da apprendere dalla campagna elettorale del 1988. Bisogna organizzare ciascuno dei 185.000 distretti del Paese e non pensare che rifiutare di rispondere alle campagne di attacco mosse da Trump non rechi danno. Trump attaccherà ogni singolo giorno. Il nostro candidato può condurre una campagna forte e positiva, ma dovrà anche indicare senza mezzi termini che tipo di persona e di presidente sia Trump. Data la personalità dell'attuale presidente e l'incapacità di dire la verità, ciò non dovrebbe essere difficile. La sua capriola in circa due giorni sulla questione del controllo delle armi è emblematica».