2024-01-24
«Repubblica» frigna, ma la Meloni dice il vero
Giorgia Meloni (Getty Images)
Anni fa, durante una puntata di Ballarò, talk show condotto su Rai3 da Giovanni Floris prima che emigrasse a La7, quel sincero democratico (cristiano) che risponde al nome di Dario Franceschini, evidentemente a corto di argomenti sul tema in discussione, altro non seppe dirmi se non che io ero pagato da Berlusconi.Sì, trovandosi in difficoltà, l’esponente del Pd (credo che all’epoca fosse addirittura segretario) si rivolse al pubblico per ricordare che ero un dipendente del presidente del Consiglio. Ovviamente era falso, perché io non sono mai stato dipendente di nessuno, se non dei miei lettori, e la riprova sta nel fatto che gli editori mi hanno più volte licenziato per non aver piegato il capo davanti al potente di turno. Tuttavia, non è questo il punto. Se ricordo le frasi di Franceschini è solo per dire che di fronte all’atteggiamento ignobile di un politico che mi stava dando del servo per evitare di rispondere a fatti che io elencavo con precisione, nessuno si indignò. Rimasero zitti il conduttore e pure il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, come se fosse normale cercare la scorciatoia di un’accusa infondata e ingiuriosa per non rispondere nel merito. Sì, per anni, dopo essere divenuto direttore del Giornale, incarico che ottenni senza aver prima d’allora mai conosciuto Berlusconi, venni inseguito da insulti del genere. Ma né i colleghi di altre testate né il sindacato di categoria pensarono che fosse necessario intervenire per stigmatizzare il comportamento dell’onorevole Franceschini. Anzi, sono certo che alcuni di loro in privato approvarono le parole dell’esponente del Pd. Come applaudirono il giorno in cui svelai l’esistenza di una fotografia che ritraeva il portavoce di Romano Prodi su un viale, con la macchina di fianco a un trans. Gli applausi, ovviamente, non erano rivolti a me per lo scoop, ma a chi mi accusava di agire per conto del Cavaliere e chiedeva le mie dimissioni oltre che il mio deferimento all’Ordine dei giornalisti.Se ricordo tutto ciò, non è per richiedere una solidarietà fuori tempo massimo, ma per segnalare che per aver contestato un titolo di Repubblica, ricordandone la proprietà, Giorgia Meloni rischia il linciaggio. Ospite di Quarta Repubblica, la trasmissione di Rete 4 condotta da Nicola Porro, il presidente del Consiglio ha commentato l’apertura domenicale del quotidiano romano. «Italia in vendita» era scritto a caratteri grossi. Tutto per la decisione di cedere alcune quote delle partecipate statali. Sollecitata da Porro, il premier ha detto di non accettare lezioni dal giornale posseduto da una famiglia che ha venduto la Fiat ai francesi. Risposta ineccepibile, in quanto gli Agnelli, dopo aver avuto molti miliardi pubblici hanno concluso un lauto affare privato trasferendo la holding là dove si pagano meno tasse, per poi cedere le quote dell’azienda a Peugeot. Nonostante la replica di Meloni non facesse un plissé, a Repubblica l’hanno presa male e dunque ecco mobilitarsi il sindacato, la redazione e pure il direttore, il quale ha vergato un editoriale (registrandone uno per i social) in cui rivendica l’autonomia e l’indipendenza della testata da lui condotta, accusando il presidente del Consiglio di aggredire il giornalismo e di ignorare i principi fondamentali della libertà di stampa, confondendo l’autonomia dei giornalisti con gli interessi dell’editore. Sarà, ma a me non pare che a Repubblica si siano occupati spesso di quel che resta dell’impero Fiat. Quando noi, in completa solitudine, abbiamo raccontato che l’azienda invitava i fornitori a trasferirsi in Marocco, dove già il gruppo ha avviato linee di produzione, non mi pare di ricordare titoli di prima pagina sul giornale di casa Agnelli. Oggi, a distanza di settimane da quando svelammo l’operazione, qualche testata si stupisce, ma nessuno scrive «Fuga degli Agnelli in Marocco» o «Fiat, lo scippo marocchino». Né mi pare ci sia stato un soprassalto redazionale quando ho scritto che il giornale diretto da Molinari intervista spesso Maurizio Landini, ma mai chiede al segretario della Cgil un giudizio su Stellantis. Dunque, che c’è da strillare? In passato, quando il governo Prodi svendette i gioielli di Stato, regalando Telecom a un gruppo di azionisti guidato dalla famiglia Agnelli (con il solo 0,6 per cento), in effetti ci sarebbe stato di che strillare. Ma se ben ricordo, in quel periodo a Repubblica si parlava di privatizzazioni come se fossero un miracolo per il Paese. Del resto, erano gli stessi anni in cui, grazie a Carlo Azeglio Ciampi, Carlo De Benedetti (già editore di Repubblica) con Omnitel ottenne la licenza per la telefonia mobile. Storie vecchie? Eh sì, cari colleghi: ci sarebbe proprio da scrivere un libro sulle vecchie storie che hanno visto molti intrecci tra politica, affari e informazione. Il quotidiano fondato da Scalfari di sicuro meriterebbe un capitolo tutto per sé. Anzi: forse più d’uno.