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2023-10-22
La Meloni s’intesta i negoziati. «La vendetta è un tranello e caderci sarebbe stupido»
Giorgia Meloni e Abdel Fattah Al Sisi (Ansa)
L’Italia c’è e batte un colpo. Giorgia Meloni, alla Conferenza di pace organizzata al Cairo dal presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, conferma che Roma giocherà un ruolo importante nel tentativo di risolvere la crisi in Medio Oriente.
Con un intervento di circa sette minuti, risoluto ancorché equilibrato, il premier s’intesta la complicata missione di impedire l’escalation e favorire il processo di pace. Non una fragile tregua, no; proprio una «soluzione strutturale». Partendo da una certezza: la condanna «senza ambiguità» del terrorismo, che colpisce anzitutto «il mondo musulmano» e ne indebolisce «le legittime istanze». Prima di ogni sacrosanto ragionamento sulle radici del conflitto israelo-palestinese, quindi, viene l’indignazione per l’attacco del 7 ottobre, «che lascia inorriditi»: «Nessuna causa», tuona il presidente del Consiglio, magari con un pensiero alle piazze che confondono palestinesi e jihadisti, o agli intellettuali à la page che blaterano del dovere di «comprendere le ragioni» degli estremisti, «giustifica donne massacrate e neonati decapitati volutamente ripresi con una telecamera». Israele «è pienamente legittimato a rivendicare il suo diritto all’esistenza, alla difesa, alla sicurezza dei propri cittadini e dei propri confini».
Tuttavia, la Meloni si fa portavoce della preoccupazione che anima le cancellerie di Europa e America, nonché di molti Paesi arabi: che la guerra si allarghi. «La reazione di uno Stato», ammonisce, «non può e non deve mai essere motivata da sentimenti di vendetta». Essa va progettata «commisurando la forza, tutelando la popolazione civile». Altrimenti, si fa il gioco dei tagliagole, i quali non hanno intenzione di difendere i palestinesi, bensì di innescare una miccia che crei «un solco incolmabile» con i vicini di Tel Aviv e l’Occidente. Essi brigano per sabotare gli sforzi di normalizzazione che, ad esempio, stavano portando a un riavvicinamento tra Israele e Arabia Saudita. «Significa», avverte l’inquilina di Palazzo Chigi, «che il bersaglio siamo tutti noi. E io non credo che noi possiamo cadere in questa trappola: sarebbe una cosa molto, molto stupida». Sono giudizi netti, che non si limitano alla reprimenda contro Hamas, anzi, sollecitano direttamente la classe dirigente ebraica. Perché urge, sì, rispondere ai vili attentati di Hamas, purché si continui «a dialogare e ragionare».
Avessimo adottato lo stesso approccio quando la Russia ha aggredito l’Ucraina, ci saremmo guadagnati un margine di manovra, avremmo prevenuto le conseguenze economiche della guerra per procura e, chissà, avremmo contribuito a salvare decine di migliaia di vite. Nemmeno la Meloni ci ha provato. Pazienza. Non c’era lo spazio politico e, con ogni probabilità, non ci sarebbe stato il beneplacito degli Stati Uniti. Che invece, adesso, hanno tutta l’intenzione di frenare la rappresaglia di Israele. È un assist da raccogliere.
È evidente la convergenza tra l’invito della Meloni a non cercare vendette e le parole di Joe Biden a Benjamin Netanyahu: «Dopo l’11 settembre abbiamo commesso degli errori, molti americani erano consumati dalla rabbia».
La strada che indica il premier, oltre all’impegno umanitario e alla mediazione per «l’immediato rilascio degli ostaggi», è «la ripresa di un’iniziativa politica» ispirata alla «prospettiva dei due popoli e due Stati». Di nuovo, una piena sintonia con Washington. Giovedì sera, rivolgendosi ai cittadini, il presidente americano aveva riproposto esattamente questo principio: «Non possiamo rinunciare a una soluzione a due Stati». Più facile da scrivere su un parere dell’Onu che da realizzare; ma comunque, si tratta dell’unico obiettivo di medio-lungo periodo che possa sottrarre l’operazione a Gaza dal pericolo di trasformarsi in una sanguinosa campagna per sgomberare i palestinesi e occupare la Striscia. «Perdere il controllo di quello che può accadere», avverte la Meloni, avrebbe «conseguenze inimmaginabili».
Dopodiché, se lo scopo è scongiurare la deflagrazione, occorrerà «un lavoro di dialogo fra i Paesi occidentali e i Paesi arabi». Volenti o nolenti. Così, il presidente del Consiglio incontra faccia a faccia sia Al Sisi, cui comunica il desiderio di avviare un’azione diplomatica coordinata, sia Abu Mazen, al quale assicura il sostegno «alla legittima Autorità rappresentativa del popolo palestinese», il quale «non si identifica con Hamas». E al termine del summit, con i giornalisti, pare reclamare quella posizione speciale che l’Italia, nei decenni della prima Repubblica, era riuscita a mantenere in Medio Oriente, al netto delle frizioni con gli Usa: nazione caposaldo del blocco guidato dall’America, ma altresì interlocutore privilegiato nel contesto musulmano. «Dall’inizio ho parlato soprattutto con i Paesi del Nord Africa, con quelli arabi e del Golfo», riferisce il premier. «È fondamentale portare avanti questa strategia. È la cosa più preziosa che abbiamo». «Difendiamo il diritto di Israele a esistere e a difendersi», insiste la numero uno di Fdi, poiché nelle immagini del blitz dei terroristi «c’era un antisemitismo che viene molto prima della questione israelo-palestinese». Però, «bisogna dare una tempistica chiara» e mirare a «una soluzione strutturale».
Meloni si spinge fino a rivendicare in maniera esplicita responsabilità e meriti di Roma. Discutendo della pur breve apertura del valico di Rafah per consentire il transito di aiuti diretti ai civili, commenta: «È un risultato concreto. Piccoli passi a piccoli passi». Poi aggiunge: «Io ho fatto volutamente la scelta di venire a questo vertice. Secondo me i leader devono esserci in questi momenti». Ecco: la sfida, ora, è questa. Stare tra i leader agendo da protagonista.
Subito dopo vola da Bibi a Tel Aviv
Anche il nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ieri, è intervenuto alla Conferenza internazionale di pace che si è svolta al Cairo (Egitto), organizzata dal presidente Al Sisi. All’evento erano presenti una ventina di Paesi, tra cui Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giappone. Per il Vecchio continente, oltre all’Italia, si sono visti i leader di Spagna (Pedro Sánchez), Grecia (Kyriakos Mitsotakis) e Cipro (Nikos Christodoulides), oltre ai ministri degli Esteri di Germania, Francia e Regno Unito.
Terminato il vertice, Meloni è volata a Tel Aviv, dove è atterrata in serata e ha incontrato, per un’oretta, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente, Isaac Herzog. Emmanuel Macron, invece, andrà in visita in Israele martedì.
A inquadrare la preoccupazione dei rappresentanti dei Paesi è stato proprio il nostro premier, ricordando la necessità che «quello che sta accadendo a Gaza non si trasformi in conflitto più ampio, in una guerra di religione, di civiltà, rendendo vani gli sforzi di questi anni per normalizzare i rapporti. Siamo molto preoccupati per la sorte degli ostaggi, ci sono anche degli italiani, chiediamo l’immediato rilascio degli ostaggi».
Il summit, però, era stato aperto dal padrone di casa, il presidente Abdel Fattah Al Sisi, che ha affermato: «L’Egitto rifiuta categoricamente la liquidazione della causa palestinese e Israele non può continuare la colonizzazione della Palestina. La soluzione è la giustizia, il diritto inalienabile all’autodeterminazione». Anche per Al Sisi, insomma, «occorre prevenire l’allargamento del conflitto, che può mettere a rischio la stabilità della regione e far ripartire il processo di pace ed è necessario un ritorno al tavolo di negoziazione per il cessate il fuoco». Il premier spagnolo ha sottolineato che «quello che serve oggi è proteggere tutti i civili, quelli presi in ostaggio e quelli a Gaza». Per Sánchez, la conferenza doveva essere «il primo passo verso una soluzione storica, con due Stati, Israele e Palestina, che si rispettano e vivano in pace». Il leader socialista si è detto d’accordo con il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per il quale è urgente affrontare la crisi dei profughi. Dopo essersi recato al valico di Rafah, il numero uno dell’Onu ha detto di «aver constatato una catastrofe umanitaria. Al di là del confine ci sono due milioni di persone tra cui bambini che necessitano di aiuti. Sono grato all’Egitto per il ruolo che ha avuto e lancio un appello ad una tregua umanitaria». Ha poi sottolineato: «I diritti dei palestinesi sono legittimi e serve una soluzione a due Stati. È ora di porre fine a questo incubo che minaccia i bambini». Non una parola, però, sui civili e i bambini israeliani.
Il presidente palestinese Abu Mazen, che ha avuto anche un incontro bilaterale con Giorgia Meloni, ha ribadito: «Non lasceremo mai la nostra terra. Vogliamo affermare che siamo contro, e denunciamo, l’uccisione di civili da entrambe le parti e invochiamo il rilascio degli ostaggi da entrambe le parti». Il re di Giordania, Abdallah II Ibn Al Hussein, dopo aver accusato Israele di commettere crimini di guerra a Gaza, si è detto favorevole ai due Stati: «L’unica soluzione è riconoscere alla Palestina un proprio territorio secondo le leggi internazionali».
Charles Michel, presidente del Consiglio Ue, ha invece rinnovato a Israele l’appello a rispettare, nella sua reazione, le norme del diritto internazionale. Dopo il vertice, tuttavia, in assenza del pieno accordo di tutti i partecipanti, la dichiarazione finale congiunta è stata sostituita da un comunicato della presidenza egiziana.
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Al summit del Cairo, il premier adotta la linea Usa: no all’escalation, soluzione a due Stati. Ma reclama il ruolo italiano nel dialogo con gli arabi. E vede Al Sisi e Abu Mazen.Un’ora di colloquio con Netanyahu ed Herzog. Macron andrà solo giovedì. Il capo dei palestinesi: «Non lasceremo la nostra terra». In Egitto salta la dichiarazione finale.Lo speciale contiene due articoli.L’Italia c’è e batte un colpo. Giorgia Meloni, alla Conferenza di pace organizzata al Cairo dal presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, conferma che Roma giocherà un ruolo importante nel tentativo di risolvere la crisi in Medio Oriente.Con un intervento di circa sette minuti, risoluto ancorché equilibrato, il premier s’intesta la complicata missione di impedire l’escalation e favorire il processo di pace. Non una fragile tregua, no; proprio una «soluzione strutturale». Partendo da una certezza: la condanna «senza ambiguità» del terrorismo, che colpisce anzitutto «il mondo musulmano» e ne indebolisce «le legittime istanze». Prima di ogni sacrosanto ragionamento sulle radici del conflitto israelo-palestinese, quindi, viene l’indignazione per l’attacco del 7 ottobre, «che lascia inorriditi»: «Nessuna causa», tuona il presidente del Consiglio, magari con un pensiero alle piazze che confondono palestinesi e jihadisti, o agli intellettuali à la page che blaterano del dovere di «comprendere le ragioni» degli estremisti, «giustifica donne massacrate e neonati decapitati volutamente ripresi con una telecamera». Israele «è pienamente legittimato a rivendicare il suo diritto all’esistenza, alla difesa, alla sicurezza dei propri cittadini e dei propri confini».Tuttavia, la Meloni si fa portavoce della preoccupazione che anima le cancellerie di Europa e America, nonché di molti Paesi arabi: che la guerra si allarghi. «La reazione di uno Stato», ammonisce, «non può e non deve mai essere motivata da sentimenti di vendetta». Essa va progettata «commisurando la forza, tutelando la popolazione civile». Altrimenti, si fa il gioco dei tagliagole, i quali non hanno intenzione di difendere i palestinesi, bensì di innescare una miccia che crei «un solco incolmabile» con i vicini di Tel Aviv e l’Occidente. Essi brigano per sabotare gli sforzi di normalizzazione che, ad esempio, stavano portando a un riavvicinamento tra Israele e Arabia Saudita. «Significa», avverte l’inquilina di Palazzo Chigi, «che il bersaglio siamo tutti noi. E io non credo che noi possiamo cadere in questa trappola: sarebbe una cosa molto, molto stupida». Sono giudizi netti, che non si limitano alla reprimenda contro Hamas, anzi, sollecitano direttamente la classe dirigente ebraica. Perché urge, sì, rispondere ai vili attentati di Hamas, purché si continui «a dialogare e ragionare». Avessimo adottato lo stesso approccio quando la Russia ha aggredito l’Ucraina, ci saremmo guadagnati un margine di manovra, avremmo prevenuto le conseguenze economiche della guerra per procura e, chissà, avremmo contribuito a salvare decine di migliaia di vite. Nemmeno la Meloni ci ha provato. Pazienza. Non c’era lo spazio politico e, con ogni probabilità, non ci sarebbe stato il beneplacito degli Stati Uniti. Che invece, adesso, hanno tutta l’intenzione di frenare la rappresaglia di Israele. È un assist da raccogliere. È evidente la convergenza tra l’invito della Meloni a non cercare vendette e le parole di Joe Biden a Benjamin Netanyahu: «Dopo l’11 settembre abbiamo commesso degli errori, molti americani erano consumati dalla rabbia».La strada che indica il premier, oltre all’impegno umanitario e alla mediazione per «l’immediato rilascio degli ostaggi», è «la ripresa di un’iniziativa politica» ispirata alla «prospettiva dei due popoli e due Stati». Di nuovo, una piena sintonia con Washington. Giovedì sera, rivolgendosi ai cittadini, il presidente americano aveva riproposto esattamente questo principio: «Non possiamo rinunciare a una soluzione a due Stati». Più facile da scrivere su un parere dell’Onu che da realizzare; ma comunque, si tratta dell’unico obiettivo di medio-lungo periodo che possa sottrarre l’operazione a Gaza dal pericolo di trasformarsi in una sanguinosa campagna per sgomberare i palestinesi e occupare la Striscia. «Perdere il controllo di quello che può accadere», avverte la Meloni, avrebbe «conseguenze inimmaginabili».Dopodiché, se lo scopo è scongiurare la deflagrazione, occorrerà «un lavoro di dialogo fra i Paesi occidentali e i Paesi arabi». Volenti o nolenti. Così, il presidente del Consiglio incontra faccia a faccia sia Al Sisi, cui comunica il desiderio di avviare un’azione diplomatica coordinata, sia Abu Mazen, al quale assicura il sostegno «alla legittima Autorità rappresentativa del popolo palestinese», il quale «non si identifica con Hamas». E al termine del summit, con i giornalisti, pare reclamare quella posizione speciale che l’Italia, nei decenni della prima Repubblica, era riuscita a mantenere in Medio Oriente, al netto delle frizioni con gli Usa: nazione caposaldo del blocco guidato dall’America, ma altresì interlocutore privilegiato nel contesto musulmano. «Dall’inizio ho parlato soprattutto con i Paesi del Nord Africa, con quelli arabi e del Golfo», riferisce il premier. «È fondamentale portare avanti questa strategia. È la cosa più preziosa che abbiamo». «Difendiamo il diritto di Israele a esistere e a difendersi», insiste la numero uno di Fdi, poiché nelle immagini del blitz dei terroristi «c’era un antisemitismo che viene molto prima della questione israelo-palestinese». Però, «bisogna dare una tempistica chiara» e mirare a «una soluzione strutturale». Meloni si spinge fino a rivendicare in maniera esplicita responsabilità e meriti di Roma. Discutendo della pur breve apertura del valico di Rafah per consentire il transito di aiuti diretti ai civili, commenta: «È un risultato concreto. Piccoli passi a piccoli passi». Poi aggiunge: «Io ho fatto volutamente la scelta di venire a questo vertice. Secondo me i leader devono esserci in questi momenti». Ecco: la sfida, ora, è questa. Stare tra i leader agendo da protagonista.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/meloni-cairo-conferenza-2666038966.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="subito-dopo-vola-da-bibi-a-tel-aviv" data-post-id="2666038966" data-published-at="1697920501" data-use-pagination="False"> Subito dopo vola da Bibi a Tel Aviv Anche il nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ieri, è intervenuto alla Conferenza internazionale di pace che si è svolta al Cairo (Egitto), organizzata dal presidente Al Sisi. All’evento erano presenti una ventina di Paesi, tra cui Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giappone. Per il Vecchio continente, oltre all’Italia, si sono visti i leader di Spagna (Pedro Sánchez), Grecia (Kyriakos Mitsotakis) e Cipro (Nikos Christodoulides), oltre ai ministri degli Esteri di Germania, Francia e Regno Unito. Terminato il vertice, Meloni è volata a Tel Aviv, dove è atterrata in serata e ha incontrato, per un’oretta, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente, Isaac Herzog. Emmanuel Macron, invece, andrà in visita in Israele martedì. A inquadrare la preoccupazione dei rappresentanti dei Paesi è stato proprio il nostro premier, ricordando la necessità che «quello che sta accadendo a Gaza non si trasformi in conflitto più ampio, in una guerra di religione, di civiltà, rendendo vani gli sforzi di questi anni per normalizzare i rapporti. Siamo molto preoccupati per la sorte degli ostaggi, ci sono anche degli italiani, chiediamo l’immediato rilascio degli ostaggi». Il summit, però, era stato aperto dal padrone di casa, il presidente Abdel Fattah Al Sisi, che ha affermato: «L’Egitto rifiuta categoricamente la liquidazione della causa palestinese e Israele non può continuare la colonizzazione della Palestina. La soluzione è la giustizia, il diritto inalienabile all’autodeterminazione». Anche per Al Sisi, insomma, «occorre prevenire l’allargamento del conflitto, che può mettere a rischio la stabilità della regione e far ripartire il processo di pace ed è necessario un ritorno al tavolo di negoziazione per il cessate il fuoco». Il premier spagnolo ha sottolineato che «quello che serve oggi è proteggere tutti i civili, quelli presi in ostaggio e quelli a Gaza». Per Sánchez, la conferenza doveva essere «il primo passo verso una soluzione storica, con due Stati, Israele e Palestina, che si rispettano e vivano in pace». Il leader socialista si è detto d’accordo con il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per il quale è urgente affrontare la crisi dei profughi. Dopo essersi recato al valico di Rafah, il numero uno dell’Onu ha detto di «aver constatato una catastrofe umanitaria. Al di là del confine ci sono due milioni di persone tra cui bambini che necessitano di aiuti. Sono grato all’Egitto per il ruolo che ha avuto e lancio un appello ad una tregua umanitaria». Ha poi sottolineato: «I diritti dei palestinesi sono legittimi e serve una soluzione a due Stati. È ora di porre fine a questo incubo che minaccia i bambini». Non una parola, però, sui civili e i bambini israeliani. Il presidente palestinese Abu Mazen, che ha avuto anche un incontro bilaterale con Giorgia Meloni, ha ribadito: «Non lasceremo mai la nostra terra. Vogliamo affermare che siamo contro, e denunciamo, l’uccisione di civili da entrambe le parti e invochiamo il rilascio degli ostaggi da entrambe le parti». Il re di Giordania, Abdallah II Ibn Al Hussein, dopo aver accusato Israele di commettere crimini di guerra a Gaza, si è detto favorevole ai due Stati: «L’unica soluzione è riconoscere alla Palestina un proprio territorio secondo le leggi internazionali». Charles Michel, presidente del Consiglio Ue, ha invece rinnovato a Israele l’appello a rispettare, nella sua reazione, le norme del diritto internazionale. Dopo il vertice, tuttavia, in assenza del pieno accordo di tutti i partecipanti, la dichiarazione finale congiunta è stata sostituita da un comunicato della presidenza egiziana.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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