2022-01-30
La seconda dose
Sergio Mattarella (Alessandro Di Meo/Pool /Insidefoto/Mondadori Portfolio via Getty Images)
Macché trasloco: Sergio Mattarella era da sempre in pista. Destra a pezzi e Pd-M5s spaccati portano al bis. Sconfitto Mario Draghi che voleva il Colle. Perde il Paese.All’incirca un anno fa, su questo giornale, scrivevamo che Mario Draghi si era fatto fregare. Il governo era in carica da appena un giorno e già ci era venuto il sospetto che il presidente della Repubblica, invece di sciogliere le Camere come sarebbe stato giusto fare dopo le dimissioni di Giuseppe Conte, si fosse affrettato a sciogliere nell’acido della politica le ambizioni dell’ex governatore della Banca centrale europea, affidandogli l’incarico di guidare l’esecutivo per togliersi di torno un pericoloso concorrente nella corsa al Colle. In effetti, nel caso in cui Sergio Mattarella avesse aspirato al bis, l’unica persona che avrebbe potuto intralciargli la strada era Mr. Bce. Ma dopo dodici mesi a Palazzo Chigi, con un esecutivo zavorrato da gente del calibro di Roberto Speranza, Luciana Lamorgese, Andrea Orlando e Dario Franceschini (ministri imposti dal Colle o dal Pd), la marcia di Draghi verso il Quirinale sarebbe stata un’impresa quasi impossibile, proprio come è avvenuto. Un anno di governo logora chiunque, soprattutto se ci sono una pandemia e una crisi economica: figuratevi l’indebolimento di un premier che è costretto a guidare un’armata Brancaleone. Peraltro, noi non abbiamo mai creduto alla narrazione di un capo dello Stato impaziente di far le valigie e di ritirarsi in solitudine. Nessun presidente della Repubblica ha mai lasciato volentieri gli stucchi e i lussi del Quirinale e, non essendo escluso dalla Costituzione, ognuno ha provato a prolungare il settennato con un secondo incarico. Dite che siamo troppo maliziosi? Forse, ma come diceva Giulio Andreotti, che i democristiani li conosceva bene, a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca. Così, per quanto ci riguarda, non ci siamo mai bevuti la favoletta pubblicata a testate unificate della ricerca di una nuova casa dove avrebbe dovuto alloggiare il presidente emerito. Né ci hanno convinto le fotografie degli scatoloni in vista del trasloco o dei materassi trasferiti da Palermo a Roma. No, se il 14 febbraio dello scorso anno eravamo dubbiosi circa il destino di Mattarella e di Draghi, il 20 marzo, un mese dopo l’insediamento del nuovo governo, lo eravamo ancora di più, perché ci pareva che il presidente del Consiglio si stesse impantanando. A maggio, elencammo addirittura alcuni indizi in base ai quali era logico ritenere che il capo dello Stato stesse lavorando più per rimanere che per lasciare. E ancora nei giorni scorsi segnalavamo come, nonostante la girandola di nomi messa in circolo dai partiti (Draghi, Pera, Moratti, Frattini, Nordio, Cartabia, Casellati, Riccardi e Belloni), Mattarella fosse sempre in pista per il bis. Forse, più di prima. E infatti così è stato. Per il presidente della Repubblica, che 24 anni fa era un fiero sostenitore della rielezione di Oscar Luigi Scalfaro (altro che doppio mandato contrario al dettato costituzionale, come faceva trapelare nei mesi scorsi probabilmente per farsi supplicare di restare in carica), è una vittoria su tutta la linea, in quanto con la sua riconferma non solo escono a pezzi quasi tutte le leadership dei partiti, ma anche quella del capo del governo, il quale si è dato da fare per passare da Palazzo Chigi al Quirinale, ma è stato vittima di veti e della sua stessa ambizione. Mattarella è il trionfatore di questa partita e Draghi lo sconfitto, che rischia di essere inchiodato al ruolo di premier non per un altro anno, cioè fino alla fine della legislatura, ma anche dopo. Già, perché insieme al presidente del Consiglio (il quale cerca di leccarsi le ferite attribuendosi il ruolo di king maker della riconferma del capo dello Stato), in questa vicenda si sono rotti le corna in tanti, con il risultato che le forze politiche sono più divise e deboli di prima, al punto da far immaginare che alle prossime elezioni, con l’attuale legge elettorale oppure con un’altra, nessuno sarà davvero in grado di governare. Il centrodestra di fatto non esiste più, perché la seconda dose di Mattarella ha avuto come effetto collaterale di dividerlo in tre, se non in quattro, tronconi. Da una parte c’è Salvini, che ha giocato terne, quaterne e anche cinquine, ma l’unica tombola che gli è riuscita è la sua, e questo non gli sarà perdonato tanto facilmente, anche perché il capitano della Lega si era intestato il diritto di condurre in prima persona il valzer della nomina. Dall’altra parte c’è Silvio Berlusconi, che fino all’ultimo ha inseguito il sogno del Colle, ma poi, dopo il ritiro e la caduta dei candidati di centrodestra, ha autorizzato una trattativa diretta con il Pd, rompendo il fronte e accordandosi per il bis dell’attuale capo dello Stato. Non va meglio a Giorgia Meloni, che assecondando il Cavaliere e Salvini, si ritrova con Mattarella al Quirinale, Draghi a Palazzo Chigi e le elezioni che si allontanano. Per non parlare poi dei cespugli, che dovevano fiorire e consentire la nomina di un capo dello Stato di centrodestra e invece sono sfioriti per uno di centro sinistra, dimostrando di non contare niente.Se il centrodestra è mezzo morto, non si può dire che il centrosinistra stia meglio. Enrico Letta voleva Draghi sul Colle e deve far buon viso a un Mattarella senza termine, che rischia di prolungare il mandato oltre la fine della legislatura. Ma soprattutto, al segretario del Pd rimane un partito diviso e un alleato come i 5 stelle in pezzi. Conte e compagni, pur essendo in teoria il gruppo più numeroso del Parlamento, hanno dimostrato di non essere d’accordo su nulla e di non potere nulla, e con questa certezza si avviano alla fine della legislatura e anche alla loro. Va male anche a Matteo Renzi, che sognava un’altra mossa del cavallo e che invece è stato preso a calci dal quadrupede: nessuno dei suoi candidati (Casini e Draghi) l’ha avuta vinta e lui ora è costretto ai margini della scena politica. Ciò detto, la doppia dose di Mattarella non è una buona medicina per il Paese. Non solo per l’instabilità politica che seguirà alla prova di forza di queste settimane, instabilità che rischia di restituirci un presidente del Consiglio più debole di prima e una maggioranza più rissosa della precedente, mettendo a rischio l’operato dell’esecutivo quando sarebbe necessario rilanciare l’economia. Ma anche perché Mattarella è il presidente che non ha sciolto il Csm nonostante gli scandali che hanno coinvolto la magistratura. È il capo dello Stato a cui dobbiamo il pasticcio di un Conte bis e perfino la riconferma di Speranza e Lamorgese invece delle elezioni. Oltre a ciò, è l’uomo che ha chiuso gli occhi sui Dpcm e sulla violazione di una serie di diritti costituzionali in nome della campagna vaccinale. Sì, a differenza di quanto scriverà gran parte della stampa italiana, non pensiamo affatto che la riconferma del capo dello Stato sia una buona cosa. Anzi, per dirla tutta, pensiamo che per il Paese sia un pessimo affare. Un ritorno alla prima Repubblica, ai compromessi, ai giochi di Palazzo, al proporzionale, dove ogni partito gioca in proprio. Sì, è la fine del bipolarismo e la rivincita del bizantinismo. Del resto, l’elezione di Mattarella – che prima di diventare presidente è stato per 25 anni in Parlamento e tre volte ministro – si accompagna alla nomina di Giuliano Amato alla guida della Corte costituzionale. Rieccoli: la restaurazione è servita.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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