2023-12-12
«Masterchef» non cambia ricetta
Da sinistra: Giorgio Locatelli, Bruno Barbieri e Antonino Cannavacciuolo (Ansa)
Giovedì inizia la tredicesima stagione del popolare talent show culinario. A parte alcuni piccoli ritocchi, il formato rimane lo stesso: perché piace e crea appartenenza.Viene dicembre, e Masterchef torna a essere argomento di conversazione. Accade ogni anno, da tredici edizioni. La televisione comincia a restituire i primi spot, una certa frenesia si respira nell’aria. Profumo di spezie, di burro e cucina, un profumo di casa, caldo e avvolgente. Poi, la conferenza stampa, il momento dell’ufficialità, l’inizio dei giochi. Ogni anno, viene dicembre e il copione si ripete. Di Masterchef si dice tutto, ogni anno come fosse il primo. Eppure, nell’eterno ripetersi dell’uguale, non c’è la monotonia che sarebbe lecito aspettarsi. Masterchef è Masterchef, il sempreverde di una televisione che arranca sul genere talent. È la copertina di Linus, da tirarsi fuori alla vigilia dell’inverno. È il noto che conforta, la conoscenza che genera appartenenza. «Masterchef», che su Sky Uno riparte nella prima serata di giovedì, «ha cambiato il pensiero gastronomico della gente comune, della gente lontana da questo mestiere. Ha fatto sì che si accordasse un’importanza alla professione di cuoco. Non solo ha saputo raccontare quale lavoro ci sia dietro la cucina, ma ha dato ai piccoli produttori, quelli che per natura sarebbero travolti dalle multinazionali, la possibilità di emergere», ha provato a spiegare Bruno Barbieri, di nuovo giudice del talent insieme a Giorgio Locatelli e Antonino Cannavacciuolo. «L’esposizione mediatica che la cucina ha avuto negli ultimi anni ha sicuramente rivoluzionato il modo di fare questo mestiere. Attualmente, nella mia brigata ho il figlio di un chirurgo, cosa che un tempo sarebbe stata impensabile. Solo i figli dei cuochi avrebbero fatto i cuochi», gli ha fatto eco Locatelli. «C’è un po’ di Masterchef in ognuno di noi», ha sentenziato la voce narrante nella pubblicità. Ciascuno dei presenti, nel corso della conferenza stampa annuale, si è affannato nel tentativo di dare un nome e una sostanza al successo di Masterchef. «Esternalità», le hanno chiamate. Ma quali che siano, queste cose che lo show negli anni ha saputo generare all’infuori di sé, non sono riusciti a dirlo. Ed è qui, in questa sua insondabilità di fondo, che a ben guardare si è sempre trovata la fortuna di Masterchef, la sua magia. Lo show - che anche quest’anno, per il tredicesimo consecutivo, ha deciso di affidarsi allo schema di sempre - ha saputo parlare all’individualità dello spettatore. Masterchef è l’empatia di un momento di cui tutti, bravi e meno bravi, possiamo fare esperienza. È cucina e, dunque, quotidianità. È ricette e, dunque, tradizioni, famiglia. È gusto e, perciò, soggettività. Lo si guarda ciascuno per sé, chiedendosi - e legittimamente, pure - come ci si sarebbe comportati in circostanze analoghe. Masterchef, televisivamente parlando, è il trionfo del singolo sulla collettività, senza bisogno di un televoto a legittimare le classifiche, senza bisogno di un talento oggettivo che renda più veri e più validi i giudizi espressi. Masterchef è la minestra da scaldare, di dicembre in dicembre: un piatto del cuore, al quale non è chiesto altro che rassicurare. Ben venga, allora, la formula immutata. Ben vengano le prove già scritte, gli ospiti già visti, Iginio Massari, una presenza fisica in bilico fra terrore e autorevolezza. Ben vengano anche le piccole sorprese, la figura del giudice ombra introdotta quest’anno per dare manforte alla triade composta da Locatelli, Barbieri e Cannavacciuolo, e l’idea di un programma che possa essere declinato all’infinito, su pubblici infiniti e concorrenti diversi. «Sarebbe interessante pensare a un’edizione teen del programma, con gli adolescenti come protagonisti, perché potremmo raccontare una generazione. I meccanismi di Masterchef, infatti, potrebbero farci capire meglio cosa passa per la testa di questi ragazzi», ha azzardato nel corso della conferenza stampa Leonardo Pasquinelli, ad della produttrice Endemol Shine Italy.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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