True
2021-11-22
Allarme mascherine. Nessuno pensa a smaltirle
(IStock)
Le abbiamo cercate e spesso odiate. Quest'anno sono entrate a far parte del paniere di beni e servizi di largo consumo usato dall'Istat per calcolare l'inflazione. Sono indispensabili, e chissà ancora per quanto tempo saremo obbligati a portarle visto il prolungarsi dello stato di emergenza, ma sono anche l'oggetto che più spaventa chi ha a cuore la tutela ambientale. Le mascherine chirurgiche disperse nell'ambiente sono diventate il nuovo ecopericolo, l'incubo dei pasdaran verdi. Sono fatte di materiali plastici, e già questo è un bel paradosso: in questa pandemia, ci ha in parte salvato la vita proprio la vituperata plastica, quella che da anni si cerca di eliminare e di riciclare nella raccolta differenziata dei rifiuti per non disperderla nell'ambiente. Mascherine e relativi imballaggi, guanti monouso, bottigliette di gel igienizzante: tutti materiali plastici. Ma nessuno, né al governo né nelle varie strutture commissariali, ha pensato di organizzare una raccolta differenziata delle mascherine e un corretto smaltimento. Così i dispositivi ora vanno ad accumularsi nelle discariche creando un problema ambientale dopo aver aiutato a frenare i contagi da Covid.
problemi ambientali
Non esiste un rapporto ufficiale su quanti di questi dispositivi individuali vengano smaltiti. Si stima un uso mensile di 129 miliardi di mascherine di protezione (3 milioni al minuto) in tutto il mondo. Il Wwf Italia calcola addirittura 7 miliardi di dispositivi al giorno, 210 miliardi al mese. Il continente europeo ne consumerebbe circa 900 milioni al giorno. Considerando che una mascherina chirurgica pesa sui 3 grammi, nella sola Ue ogni giorno 2.600 tonnellate di mascherine finiscono tra i rifiuti o disperse nell'ambiente. Ne esistono in commercio anche di più pesanti, come le Ffp2 e 3. In Italia l'Ispra ha stimato un consumo di mascherine pari a circa 1 miliardo al mese per 3.000 tonnellate di rifiuti aggiuntivi. Solo alle scuole, ad esempio, la struttura del commissario straordinario per l'emergenza ne fornisce 11 milioni al giorno per docenti e studenti. Sempre l'Ispra ha calcolato che nel 2020 ci sono stati tra 160.000 e 440.000 tonnellate di rifiuti aggiuntivi da dispositivi di protezione individuale usa e getta. Se anche solo l'1% delle mascherine usate in un mese fosse disperso nell'ambiente, deliberatamente o accidentalmente, ciò significherebbe 10 milioni di pezzi. Una vera emergenza.
Le quantità sono enormi. Ma le mascherine, realizzate in plastica, vengono gettate tra i rifiuti indifferenziati. Come mai? Il governo ha seguito le linee guida dell'Istituto superiore di sanità, che le equipara ai comuni scarti domestici. Il Rapporto Iss Covid-19 numero 26/2020 fornisce indicazioni precise, raccomandando «di smaltire mascherine e guanti monouso, come anche la carta per usi igienici e domestici (ad esempio fazzoletti, tovaglioli, carta in rotoli) nei rifiuti indifferenziati». Il loro destino è dunque la discarica o l'incenerimento (quando non vengono dispersi nell'ambiente), nonostante che, mediante un ciclo di sanificazione e lavorazione, questi materiali potrebbero trasformarsi in risorse da riciclare. Il Wwf ricorda che le mascherine monouso, realizzate in diversi strati di fibre di plastica, non sono biodegradabili. Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia fa presente che, anche per la loro forma, se esposte agli agenti atmosferici le mascherine si frammentano in micro e nanoplastiche, che si disperdono nell'aria entrando nella catena alimentare, con potenziali conseguenze negative anche per la salute umana. Al pari di altri detriti di plastica, possono accumulare e rilasciare sostanze chimiche nocive, metalli pesanti, così come microrganismi patogeni.
le microparticelle
Le mascherine monouso, diventate il simbolo della lotta alla pandemia, oltre ad avere invaso le nostre vite rischiano di invadere il pianeta. È davvero sconcertante che, nel dilagare della sensibilità green in tutto il mondo, né il governo guidato da Giuseppe Conte né quello di Mario Draghi abbiano pensato a recuperare guanti e mascherine usa e getta. Nel decreto Rilancio del 19 maggio 2020, convertito in legge il successivo 17 luglio, l'articolo 229-bis prevedeva un fondo per uso e riciclo dei dispositivi di protezione individuale con dotazione di 1 milione di euro per l'anno 2020, da ripartire con un successivo decreto del ministero dell'Ambiente. Il finanziamento doveva aiutare gli interventi di recupero e riciclo. Una somma poco più che simbolica, che però è finita per realizzare alcune campagne di sensibilizzazione volute dal ministero dell'Ambiente in collaborazione con la guardia costiera, l'Ispra, l'Enea, tra cui quella intitolata «Alla natura non servono» e con l'attore Enrico Brignano come testimonial il quale invitava a non abbandonare la mascherina in mare ma, appunto, a conferirle nell'indifferenziata. Nessun incentivo, invece, a studiare un ciclo sostenibile di corretto smaltimento.
Anche l'Unione europea ha lanciato un allarme rimasto inascoltato.
L'Agenzia europea per l'ambiente ha diffuso un rapporto lo scorso 22 giugno («Impatto del Covid 19 sulle plastiche monouso e l'ambiente in Europa) in cui si dice che l'aumento dell'uso di maschere e guanti ha avuto enorme impatto sull'ambiente: estrazione delle risorse, produzione, trasporto, gestione e abbandono dei rifiuti. La fase produttiva è per lo più extraeuropea, mentre al nostro continente spetta la gestione dei rifiuti.
Per le mascherine monouso, il 63% dell'impatto ambientale è legato alla produzione e il 37% all'incenerimento. Oggi possiamo dire che il danno è perfino doppio per la perdita di altre potenziali risorse.
altri soldi persi
Il 15 ottobre scorso il ministero della Transizione ecologica ha pubblicato sette bandi con i fondi del Pnrr dedicati all'economia circolare, cioè al recupero dei materiali scartati. Si tratta di 2,6 miliardi di euro complessivi, dei quali 600 milioni sono destinati alle filiere di carta e cartone, plastiche, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche e tessili. In sostanza, una quota consistente del Pnrr andrà a potenziare la rete di raccolta differenziata e degli impianti di trattamento e riciclo per una serie di materiali ben individuati. Ma le mascherine chirurgiche, in quanto rifiuti indifferenziati, ne sono escluse. E continueranno a inquinare.
Dalle scatole alle strade: tutte le possibilità per evitare la discarica
Non chiamatele rifiuti indifferenziati: le mascherine chirurgiche possono essere risorse da inserire in una filiera del riciclo, ecologica e sostenibile, di quelle che oggi sono invocate come la soluzione ai problemi del pianeta. I governi non si pongono il problema, gli ambientalisti protestano a parole ma sono incapaci di passare ai fatti. Ma ricercatori di tutto il mondo sono al lavoro per tentare una risposta all'opportunità di non complicare ulteriormente la gestione dei rifiuti. Le idee non sono rimaste sulla carta ma non hanno ancora incontrato l'interesse di chi ha il potere di prendere decisioni per evitare che le discariche siano riempite dalle mascherine per chissà quanti anni ancora.
In Italia è fondamentale il lavoro di Alberto Frache, professore ordinario del dipartimento di scienze applicate e tecnologia dei materiali del Politecnico di Torino (sede di Alessandria). Frache, specializzato nel recupero dei biopolimeri, ha analizzato e provato a dare una nuova vita ai dispositivi di protezione individuale attualmente destinati all'indifferenziato. «Occorrerebbe avviare una raccolta partendo dalle comunità chiuse, come le scuole», spiega il docente. «Si può partire consegnando una mascherina a ogni studente che entra a scuola con la raccomandazione di gettarla, all'uscita, in un apposito contenitore che possa renderle sterili, per esempio con una sanificazione ai raggi ultravioletti. Il premio finale potrebbe essere un portacellulare o un altro oggetto frutto del riciclo delle sue mascherine. Si riuscirebbe, così, a coinvolgere ed educare i ragazzi alla raccolta differenziata». Lo stesso può avvenire in qualsiasi luogo di lavoro opportunamente attrezzato.
Nei laboratori di Alessandria, il professore e i suoi colleghi hanno pensato a quattro processi differenti per ottenere quattro materiali termoplastici, con caratteristiche diverse tra loro, realizzando oggetti in plastica che possono essere stampati a iniezione oppure estrusi: porta cellulari, scatole, gadget, per arrivare ai fili per la stampa 3D con cui realizzare oggetti di varie forme. Le mascherine vengono dapprima sminuzzate, quindi si ottengono granuli di plastica dalla fusione dei materiali macinati.
Tante le idee di chi considera le mascherine una risorsa. Il designer sudcoreano Haneul Kim, ad esempio, ha trovato una soluzione di arredamento eco-compatibile, raccogliendo migliaia di mascherine usa e getta dal suo campus universitario e creando uno sgabello impilabile. Un'idea di design che ha permesso di non disperdere in ambiente né buttare in discarica circa 250 mascherine con le quali ha prodotto ogni gamba dello sgabello, oltre alle 750 con cui ha realizzato il sedile: in tutto 1.750 mascherine. Haneul Kim è riuscito a fondere le mascherine, ottenendo una resina liquida che ha poi fatto raffreddare per rimodellarla. Il risultato finale è anche bello da vedere ed è stato ottenuto con mascherine di diverso colore.
Il dottor Mohammad Saberian del Royal Melbourne institute of technology, è il primo ad aver indagato sulle potenziali applicazioni delle mascherine chirurgiche nel settore della costruzione civile. La ricerca, pubblicata sulla rivista Science of the total environment, ha dimostrato come le mascherine potrebbero essere reimpiegate per creare sottofondi stradali, in una soluzione di economia circolare: i rifiuti generati dalla pandemia diventano materiali per il settore delle costruzioni. Per realizzare 1 chilometro di una strada a due corsie si smaltirebbero circa 3 milioni di mascherine, impedendo a 93 tonnellate di rifiuti di finire in discarica.
In Francia è stata una startup, la Plaxtil, che nel giugno 2020 ha avviato, nella cittadina di Châtellerault non lontano da Poitiers, la prima raccolta di mascherine: sono state tenute in «quarantena» per quattro giorni e poi trattate con raggi ultravioletti per 30 secondi per ottenere la decontaminazione. Successivamente sono state lavorate e trasformate in prodotti utili contro la pandemia, come le visiere protettive, fino a coinvolgere i cittadini del Comune bretone di Locminé, primo in Europa, che hanno raccolto e consegnato quasi 30.000 mascherine trasformate successivamente in kit scolatici composti da righello, squadra e goniometro.
La Thermal compaction group, con sede a Cardiff, capitale del Galles, ha brevettato un macchinario chiamato Sterimelt, che compatta il polipropilene a una temperatura di 350 gradi e lo riprogetta in modo che possa essere utilizzato per realizzare nuovi prodotti in plastica come sedie, mobili, cassette per gli attrezzi. Reworked, con sede nel Nordest dell'Inghilterra, invece raccoglie, sanifica e trasforma le mascherine in pannelli di plastica resistenti destinati, tra l'altro, all'edilizia e all'allestimento di negozi. Se il ministero dell'Ambiente e della Transizione ecologica sono davvero in cerca di idee per evitare di intasare le discariche di mascherine, ora sanno dove andarle a trovare.
«Così ci guadagna la mafia. Con il traffico illegale le trasforma in oro colato»
La criminalità è entrata nel business dello smaltimento delle mascherine? Lo abbiamo chiesto al colonnello Massimiliano Corsano, del comando Carabinieri per la tutela ambientale e la transizione ecologica.
Cosa avete riscontrato durante la pandemia?
«La criminalità ambientale, oltre a mettere le mani sul traffico illecito dei rifiuti, ha concentrato la propria attenzione sulle aziende in difficoltà. I nostri studi di analisi hanno confermato i nostri timori: l'indebolimento economico di alcune realtà imprenditoriali, dovuto alla pandemia, ha favorito l'ingresso di capitali illeciti nel settore. Si tratta di un effetto indiretto della pandemia, ma molto più grave di quello che riguarda la singola filiera dei rifiuti».
Si è aperta una nuova frontiera investigativa?
«Il traffico illecito di rifiuti è sicuramente quello in cui si guadagna rapidamente e si rischia meno. Negli ultimi mesi registriamo un aumento di traffici transfrontalieri, soprattutto verso l'Est Europa e i Balcani. Nel tempo, i gruppi criminali si sono dotati di figure professionali che conoscono perfettamente ogni meandro del settore e sanno come aggirare la legge».
Quali strumenti state mettendo in campo per contrastare il fenomeno?
«Abbiamo eseguito decine di arresti, sequestrato centinaia di capannoni adibiti a discarica abusiva e scoperto la tendenza di questi gruppi criminali a portare i rifiuti all'estero. È bene ricordare che, nei settori ambientali, i gruppi criminali decidono dove andare a delinquere sulla base di parametri ben precisi: il basso costo della manodopera e la presenza di un apparato normativo e di controllo meno efficace rispetto al luogo da cui parte l'attività criminale. L'Italia è il Paese meno conveniente per commettere illeciti ambientali, non a caso in questo settore non importiamo, ma esportiamo criminalità».
Se gruppi specializzati sono incentivati ai traffici transfrontalieri significa che c'è un anello debole nel sistema.
«Non dal punto di vista investigativo. I rifiuti indifferenziati, e quindi anche le mascherine chirurgiche e i dispositivi di protezione individuale, vengono mascherati attribuendo codici di comodo, ad esempio come “rifiuti recuperabili". Ciò li sottrae agli obblighi di notifica e autorizzazione e consente di spedirli all'estero con una mera comunicazione».
È così facile aggirare la legge?
«Smaltire illecitamente i rifiuti fuori dai confini è meno rischioso di altri reati, come il traffico di sostanze stupefacenti. Non a caso i camorristi hanno ammesso che “i soldi si fanno con la droga o con i rifiuti, ma con i rifiuti rischi meno e i rifiuti meno li tocchi e più valgono"».
C'è collaborazione in Europa nel contrasto a queste mafie?
«Sin dall'inizio, l'Ue ha diramato le linee di gestione dei rifiuti sanitari e, parallelamente, Europol ha lanciato l'operazione Retrovirus, ancora in corso, per controllarne l'effettiva applicazione. Trenta Paesi hanno preso parte all'operazione. In Italia, solo nel 2020 sono state effettuate 1.400 ispezioni, segnalate 68 persone all'autorità giudiziaria, elevate 22 sanzioni amministrative per 13.498 euro. Registriamo sempre più spesso sodalizi tra la criminalità ambientale e quella organizzata di stampo mafioso. In quei casi, il nostro lavoro diventa ancora più complesso».
Come mai?
«Ci troviamo davanti a enormi capitali e un'area grigia di connivenze anche nelle istituzioni. Ecco perché le attività investigative sfociano spesso in reati contro la pubblica amministrazione. Tutto il settore ambientale è basato sulle autorizzazioni e se l'autorità che le rilascia è corrotta, noi abbiamo il dovere di perseguire l'imprenditore ma soprattutto di arrivare a chi ha rilasciato l'autorizzazione. Contro realtà sempre più specializzate siamo coscienti che la battaglia sarà lunga. Anzi, considerando gli ingenti finanziamenti che deriveranno dal Pnrr, la nostra attività sarà ancora più complessa, costante e articolata».
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Sono di fibre plastiche e potrebbero essere riciclate, ma il governo se n'è disinteressato. Perciò ogni mese ne vengono incenerite 3.000 tonnellate. O abbandonate dappertutto.Il Politecnico di Torino usa stampanti 3D per ricavare oggetti vari. In Francia producono squadre e righelli per le scuole.Il colonnello del comando Carabinieri tutela ambientale Massimiliano Corsano: «Lo smaltimento nei Balcani e nell'Est Europa è semplice e redditizio, basta cambiare etichette e si evitano tutti i controlli».Lo speciale contiene tre articoli.Le abbiamo cercate e spesso odiate. Quest'anno sono entrate a far parte del paniere di beni e servizi di largo consumo usato dall'Istat per calcolare l'inflazione. Sono indispensabili, e chissà ancora per quanto tempo saremo obbligati a portarle visto il prolungarsi dello stato di emergenza, ma sono anche l'oggetto che più spaventa chi ha a cuore la tutela ambientale. Le mascherine chirurgiche disperse nell'ambiente sono diventate il nuovo ecopericolo, l'incubo dei pasdaran verdi. Sono fatte di materiali plastici, e già questo è un bel paradosso: in questa pandemia, ci ha in parte salvato la vita proprio la vituperata plastica, quella che da anni si cerca di eliminare e di riciclare nella raccolta differenziata dei rifiuti per non disperderla nell'ambiente. Mascherine e relativi imballaggi, guanti monouso, bottigliette di gel igienizzante: tutti materiali plastici. Ma nessuno, né al governo né nelle varie strutture commissariali, ha pensato di organizzare una raccolta differenziata delle mascherine e un corretto smaltimento. Così i dispositivi ora vanno ad accumularsi nelle discariche creando un problema ambientale dopo aver aiutato a frenare i contagi da Covid.problemi ambientaliNon esiste un rapporto ufficiale su quanti di questi dispositivi individuali vengano smaltiti. Si stima un uso mensile di 129 miliardi di mascherine di protezione (3 milioni al minuto) in tutto il mondo. Il Wwf Italia calcola addirittura 7 miliardi di dispositivi al giorno, 210 miliardi al mese. Il continente europeo ne consumerebbe circa 900 milioni al giorno. Considerando che una mascherina chirurgica pesa sui 3 grammi, nella sola Ue ogni giorno 2.600 tonnellate di mascherine finiscono tra i rifiuti o disperse nell'ambiente. Ne esistono in commercio anche di più pesanti, come le Ffp2 e 3. In Italia l'Ispra ha stimato un consumo di mascherine pari a circa 1 miliardo al mese per 3.000 tonnellate di rifiuti aggiuntivi. Solo alle scuole, ad esempio, la struttura del commissario straordinario per l'emergenza ne fornisce 11 milioni al giorno per docenti e studenti. Sempre l'Ispra ha calcolato che nel 2020 ci sono stati tra 160.000 e 440.000 tonnellate di rifiuti aggiuntivi da dispositivi di protezione individuale usa e getta. Se anche solo l'1% delle mascherine usate in un mese fosse disperso nell'ambiente, deliberatamente o accidentalmente, ciò significherebbe 10 milioni di pezzi. Una vera emergenza.Le quantità sono enormi. Ma le mascherine, realizzate in plastica, vengono gettate tra i rifiuti indifferenziati. Come mai? Il governo ha seguito le linee guida dell'Istituto superiore di sanità, che le equipara ai comuni scarti domestici. Il Rapporto Iss Covid-19 numero 26/2020 fornisce indicazioni precise, raccomandando «di smaltire mascherine e guanti monouso, come anche la carta per usi igienici e domestici (ad esempio fazzoletti, tovaglioli, carta in rotoli) nei rifiuti indifferenziati». Il loro destino è dunque la discarica o l'incenerimento (quando non vengono dispersi nell'ambiente), nonostante che, mediante un ciclo di sanificazione e lavorazione, questi materiali potrebbero trasformarsi in risorse da riciclare. Il Wwf ricorda che le mascherine monouso, realizzate in diversi strati di fibre di plastica, non sono biodegradabili. Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia fa presente che, anche per la loro forma, se esposte agli agenti atmosferici le mascherine si frammentano in micro e nanoplastiche, che si disperdono nell'aria entrando nella catena alimentare, con potenziali conseguenze negative anche per la salute umana. Al pari di altri detriti di plastica, possono accumulare e rilasciare sostanze chimiche nocive, metalli pesanti, così come microrganismi patogeni. le microparticelleLe mascherine monouso, diventate il simbolo della lotta alla pandemia, oltre ad avere invaso le nostre vite rischiano di invadere il pianeta. È davvero sconcertante che, nel dilagare della sensibilità green in tutto il mondo, né il governo guidato da Giuseppe Conte né quello di Mario Draghi abbiano pensato a recuperare guanti e mascherine usa e getta. Nel decreto Rilancio del 19 maggio 2020, convertito in legge il successivo 17 luglio, l'articolo 229-bis prevedeva un fondo per uso e riciclo dei dispositivi di protezione individuale con dotazione di 1 milione di euro per l'anno 2020, da ripartire con un successivo decreto del ministero dell'Ambiente. Il finanziamento doveva aiutare gli interventi di recupero e riciclo. Una somma poco più che simbolica, che però è finita per realizzare alcune campagne di sensibilizzazione volute dal ministero dell'Ambiente in collaborazione con la guardia costiera, l'Ispra, l'Enea, tra cui quella intitolata «Alla natura non servono» e con l'attore Enrico Brignano come testimonial il quale invitava a non abbandonare la mascherina in mare ma, appunto, a conferirle nell'indifferenziata. Nessun incentivo, invece, a studiare un ciclo sostenibile di corretto smaltimento.Anche l'Unione europea ha lanciato un allarme rimasto inascoltato. L'Agenzia europea per l'ambiente ha diffuso un rapporto lo scorso 22 giugno («Impatto del Covid 19 sulle plastiche monouso e l'ambiente in Europa) in cui si dice che l'aumento dell'uso di maschere e guanti ha avuto enorme impatto sull'ambiente: estrazione delle risorse, produzione, trasporto, gestione e abbandono dei rifiuti. La fase produttiva è per lo più extraeuropea, mentre al nostro continente spetta la gestione dei rifiuti. Per le mascherine monouso, il 63% dell'impatto ambientale è legato alla produzione e il 37% all'incenerimento. Oggi possiamo dire che il danno è perfino doppio per la perdita di altre potenziali risorse. altri soldi persiIl 15 ottobre scorso il ministero della Transizione ecologica ha pubblicato sette bandi con i fondi del Pnrr dedicati all'economia circolare, cioè al recupero dei materiali scartati. Si tratta di 2,6 miliardi di euro complessivi, dei quali 600 milioni sono destinati alle filiere di carta e cartone, plastiche, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche e tessili. In sostanza, una quota consistente del Pnrr andrà a potenziare la rete di raccolta differenziata e degli impianti di trattamento e riciclo per una serie di materiali ben individuati. Ma le mascherine chirurgiche, in quanto rifiuti indifferenziati, ne sono escluse. E continueranno a inquinare.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mascherine-smaltimento-2655773989.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dalle-scatole-alle-strade-tutte-le-possibilita-per-evitare-la-discarica" data-post-id="2655773989" data-published-at="1637578918" data-use-pagination="False"> Dalle scatole alle strade: tutte le possibilità per evitare la discarica Non chiamatele rifiuti indifferenziati: le mascherine chirurgiche possono essere risorse da inserire in una filiera del riciclo, ecologica e sostenibile, di quelle che oggi sono invocate come la soluzione ai problemi del pianeta. I governi non si pongono il problema, gli ambientalisti protestano a parole ma sono incapaci di passare ai fatti. Ma ricercatori di tutto il mondo sono al lavoro per tentare una risposta all'opportunità di non complicare ulteriormente la gestione dei rifiuti. Le idee non sono rimaste sulla carta ma non hanno ancora incontrato l'interesse di chi ha il potere di prendere decisioni per evitare che le discariche siano riempite dalle mascherine per chissà quanti anni ancora. In Italia è fondamentale il lavoro di Alberto Frache, professore ordinario del dipartimento di scienze applicate e tecnologia dei materiali del Politecnico di Torino (sede di Alessandria). Frache, specializzato nel recupero dei biopolimeri, ha analizzato e provato a dare una nuova vita ai dispositivi di protezione individuale attualmente destinati all'indifferenziato. «Occorrerebbe avviare una raccolta partendo dalle comunità chiuse, come le scuole», spiega il docente. «Si può partire consegnando una mascherina a ogni studente che entra a scuola con la raccomandazione di gettarla, all'uscita, in un apposito contenitore che possa renderle sterili, per esempio con una sanificazione ai raggi ultravioletti. Il premio finale potrebbe essere un portacellulare o un altro oggetto frutto del riciclo delle sue mascherine. Si riuscirebbe, così, a coinvolgere ed educare i ragazzi alla raccolta differenziata». Lo stesso può avvenire in qualsiasi luogo di lavoro opportunamente attrezzato. Nei laboratori di Alessandria, il professore e i suoi colleghi hanno pensato a quattro processi differenti per ottenere quattro materiali termoplastici, con caratteristiche diverse tra loro, realizzando oggetti in plastica che possono essere stampati a iniezione oppure estrusi: porta cellulari, scatole, gadget, per arrivare ai fili per la stampa 3D con cui realizzare oggetti di varie forme. Le mascherine vengono dapprima sminuzzate, quindi si ottengono granuli di plastica dalla fusione dei materiali macinati. Tante le idee di chi considera le mascherine una risorsa. Il designer sudcoreano Haneul Kim, ad esempio, ha trovato una soluzione di arredamento eco-compatibile, raccogliendo migliaia di mascherine usa e getta dal suo campus universitario e creando uno sgabello impilabile. Un'idea di design che ha permesso di non disperdere in ambiente né buttare in discarica circa 250 mascherine con le quali ha prodotto ogni gamba dello sgabello, oltre alle 750 con cui ha realizzato il sedile: in tutto 1.750 mascherine. Haneul Kim è riuscito a fondere le mascherine, ottenendo una resina liquida che ha poi fatto raffreddare per rimodellarla. Il risultato finale è anche bello da vedere ed è stato ottenuto con mascherine di diverso colore. Il dottor Mohammad Saberian del Royal Melbourne institute of technology, è il primo ad aver indagato sulle potenziali applicazioni delle mascherine chirurgiche nel settore della costruzione civile. La ricerca, pubblicata sulla rivista Science of the total environment, ha dimostrato come le mascherine potrebbero essere reimpiegate per creare sottofondi stradali, in una soluzione di economia circolare: i rifiuti generati dalla pandemia diventano materiali per il settore delle costruzioni. Per realizzare 1 chilometro di una strada a due corsie si smaltirebbero circa 3 milioni di mascherine, impedendo a 93 tonnellate di rifiuti di finire in discarica. In Francia è stata una startup, la Plaxtil, che nel giugno 2020 ha avviato, nella cittadina di Châtellerault non lontano da Poitiers, la prima raccolta di mascherine: sono state tenute in «quarantena» per quattro giorni e poi trattate con raggi ultravioletti per 30 secondi per ottenere la decontaminazione. Successivamente sono state lavorate e trasformate in prodotti utili contro la pandemia, come le visiere protettive, fino a coinvolgere i cittadini del Comune bretone di Locminé, primo in Europa, che hanno raccolto e consegnato quasi 30.000 mascherine trasformate successivamente in kit scolatici composti da righello, squadra e goniometro. La Thermal compaction group, con sede a Cardiff, capitale del Galles, ha brevettato un macchinario chiamato Sterimelt, che compatta il polipropilene a una temperatura di 350 gradi e lo riprogetta in modo che possa essere utilizzato per realizzare nuovi prodotti in plastica come sedie, mobili, cassette per gli attrezzi. Reworked, con sede nel Nordest dell'Inghilterra, invece raccoglie, sanifica e trasforma le mascherine in pannelli di plastica resistenti destinati, tra l'altro, all'edilizia e all'allestimento di negozi. Se il ministero dell'Ambiente e della Transizione ecologica sono davvero in cerca di idee per evitare di intasare le discariche di mascherine, ora sanno dove andarle a trovare. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mascherine-smaltimento-2655773989.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="cosi-ci-guadagna-la-mafia-con-il-traffico-illegale-le-trasforma-in-oro-colato" data-post-id="2655773989" data-published-at="1637578918" data-use-pagination="False"> «Così ci guadagna la mafia. Con il traffico illegale le trasforma in oro colato» La criminalità è entrata nel business dello smaltimento delle mascherine? Lo abbiamo chiesto al colonnello Massimiliano Corsano, del comando Carabinieri per la tutela ambientale e la transizione ecologica. Cosa avete riscontrato durante la pandemia? «La criminalità ambientale, oltre a mettere le mani sul traffico illecito dei rifiuti, ha concentrato la propria attenzione sulle aziende in difficoltà. I nostri studi di analisi hanno confermato i nostri timori: l'indebolimento economico di alcune realtà imprenditoriali, dovuto alla pandemia, ha favorito l'ingresso di capitali illeciti nel settore. Si tratta di un effetto indiretto della pandemia, ma molto più grave di quello che riguarda la singola filiera dei rifiuti». Si è aperta una nuova frontiera investigativa? «Il traffico illecito di rifiuti è sicuramente quello in cui si guadagna rapidamente e si rischia meno. Negli ultimi mesi registriamo un aumento di traffici transfrontalieri, soprattutto verso l'Est Europa e i Balcani. Nel tempo, i gruppi criminali si sono dotati di figure professionali che conoscono perfettamente ogni meandro del settore e sanno come aggirare la legge». Quali strumenti state mettendo in campo per contrastare il fenomeno? «Abbiamo eseguito decine di arresti, sequestrato centinaia di capannoni adibiti a discarica abusiva e scoperto la tendenza di questi gruppi criminali a portare i rifiuti all'estero. È bene ricordare che, nei settori ambientali, i gruppi criminali decidono dove andare a delinquere sulla base di parametri ben precisi: il basso costo della manodopera e la presenza di un apparato normativo e di controllo meno efficace rispetto al luogo da cui parte l'attività criminale. L'Italia è il Paese meno conveniente per commettere illeciti ambientali, non a caso in questo settore non importiamo, ma esportiamo criminalità». Se gruppi specializzati sono incentivati ai traffici transfrontalieri significa che c'è un anello debole nel sistema. «Non dal punto di vista investigativo. I rifiuti indifferenziati, e quindi anche le mascherine chirurgiche e i dispositivi di protezione individuale, vengono mascherati attribuendo codici di comodo, ad esempio come “rifiuti recuperabili". Ciò li sottrae agli obblighi di notifica e autorizzazione e consente di spedirli all'estero con una mera comunicazione». È così facile aggirare la legge? «Smaltire illecitamente i rifiuti fuori dai confini è meno rischioso di altri reati, come il traffico di sostanze stupefacenti. Non a caso i camorristi hanno ammesso che “i soldi si fanno con la droga o con i rifiuti, ma con i rifiuti rischi meno e i rifiuti meno li tocchi e più valgono"». C'è collaborazione in Europa nel contrasto a queste mafie? «Sin dall'inizio, l'Ue ha diramato le linee di gestione dei rifiuti sanitari e, parallelamente, Europol ha lanciato l'operazione Retrovirus, ancora in corso, per controllarne l'effettiva applicazione. Trenta Paesi hanno preso parte all'operazione. In Italia, solo nel 2020 sono state effettuate 1.400 ispezioni, segnalate 68 persone all'autorità giudiziaria, elevate 22 sanzioni amministrative per 13.498 euro. Registriamo sempre più spesso sodalizi tra la criminalità ambientale e quella organizzata di stampo mafioso. In quei casi, il nostro lavoro diventa ancora più complesso». Come mai? «Ci troviamo davanti a enormi capitali e un'area grigia di connivenze anche nelle istituzioni. Ecco perché le attività investigative sfociano spesso in reati contro la pubblica amministrazione. Tutto il settore ambientale è basato sulle autorizzazioni e se l'autorità che le rilascia è corrotta, noi abbiamo il dovere di perseguire l'imprenditore ma soprattutto di arrivare a chi ha rilasciato l'autorizzazione. Contro realtà sempre più specializzate siamo coscienti che la battaglia sarà lunga. Anzi, considerando gli ingenti finanziamenti che deriveranno dal Pnrr, la nostra attività sarà ancora più complessa, costante e articolata».
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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