
Diciamo la verità: ne abbiamo sempre avuto il sospetto. Ma a differenza che nel passato, oggi ne abbiamo la certezza: le Ong servono a fare soldi e, non di rado, a nasconderli. Lo dice uno che se ne intende, ovvero l’ex assistente parlamentare di Antonio Panzeri e attuale compagno di vita di Eva Kaili, la vicepresidente del Parlamento europeo il cui padre è stato beccato mentre scappava con una valigia rigonfia di contanti. A casa di Francesco Giorgi, in provincia di Milano, gli agenti di polizia giudiziaria incaricati della perquisizione hanno trovato 20.000 euro cash. Spiccioli rispetto a ciò che hanno rinvenuto nell’appartamento di Bruxelles che ospitava la coppia più invidiata nei palazzi dell’Unione europea, perché sia l’onorevole di Salonicco che il suo boyfriend erano belli e in carriera. Giorgi, ex militante dei Democratici di sinistra «emigrato» in Belgio per seguire il suo mentore, ossia Antonio Panzeri, interrogato da Michel Claise, il magistrato titolare dell’inchiesta, avrebbe ammesso che le Ong usate dalla banda servivano solo per far transitare i soldi. Dietro gli alti proclami, di difesa delle minoranze e dei diritti umani, in realtà si nascondevano soltanto gli affari sporchi.
Nei giorni scorsi ci eravamo già incaricati di segnalare l’ipocrisia di una battaglia che a parole tutela i più deboli, ma nei fatti sembra celare interessi meno nobili. In tutte le vicende, da quella ormai divenuta nota come Qatargate, all’indagine sulle cooperative gestite dalla suocera dell’onorevole della sinistra Aboubakar Soumahoro, per finire all’inchiesta della Procura di Ragusa sulla Mare Jonio, ossia sulla nave armata da Luca Casarini «per soccorrere i migranti», il filo rosso è sempre quello dei diritti. Ognuna di queste vicende (ma sfogliando le edizioni degli ultimi mesi altri casi si aggiungono) ha un punto in comune ed è che tutti i protagonisti si sono sempre riempiti la bocca con la difesa dei diritti. Che siano quelli dell’accoglienza indiscriminata o quelli contro le dittature, ogni volta con discorsi alti si nascondevano le intenzioni più basse, ossia la voglia di fare soldi, soldi, soldi.
Qualcuno ha chiamato il caso delle mazzette all’Europarlamento «Sinistropoli», rievocando il periodo di Mani pulite. Giusto trent’anni fa, la stampa etichettò i giri di denaro e le bustarelle con un termine che ha fatto epoca: «Tangentopoli». Non ricordo chi fu il primo a usare una simile definizione, che immagino sia stata presa a prestito da Walt Disney e dai fumetti con i paperi. Tuttavia, i casi di cui discutiamo in questi giorni e che vedono coinvolte le Ong, non hanno nulla a che fare con Tangentopoli. Salvo rare eccezioni, le ruberie del 1992 avvenivano in nome del partito, ossia per finanziarne la politica. Severino Citaristi non aveva certo bisogno di mettersi in tasca qualche milione per fare la bella vita e Sergio Moroni, il parlamentare che si suicidò scrivendo una lettera straziante all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, non mirava di sicuro ad arricchirsi.
No, le tangenti servivano in gran parte a finanziare l’attività politica e non gli affari personali. Certo, né il democristiano Citaristi né il socialista Moroni facevano vacanze da 100.000 euro. Né avevano mogli o figlie che, mentre non si trovavano soldi per pagare gli stipendi ai lavoratori, si mettevano in mostra con le borsette di Vuitton. Neppure brindavano a champagne per i soldi che avrebbe fruttato una «partita» di immigrati raccolti in mezzo al mare e traghettati da una nave all’altra. No, Tangentopoli, con tutti i suoi eccessi e i suoi reati, perfino con il suo tintinnio di manette ingiustificato, non era lo schifo a cui assistiamo oggi, con i viaggi extra lusso, i contanti nei sacchi e il papà che scappa dall’albergo cercando di mettere in salvo il bottino. Soprattutto, nessuno nascondeva le ruberie dietro a nobili intenti in difesa dei più deboli, tanto meno barattavano i diritti umani in cambio di denaro.
Ciò detto, di fronte alla questione morale che emerge dal Qatargate, appare del tutto sproporzionata la risposta della classe politica di sinistra di casa nostra. Ma come? Trovano uno dei più importanti dirigenti con le banconote sotto il letto e Roberto Speranza, leader del partito in cui milita Antonio Panzeri, si mette a frignare, dicendo di essere incazzato nero? Invece di dimettersi per non aver vigilato su una vicenda che vede coinvolti i compagni, l’ex ministro fa la vittima e si atteggia a parte lesa. Ma la parte veramente offesa sono gli italiani che si vedono sputtanati anche a Bruxelles e anche quei cittadini i cui diritti umani sono violati, ma nascosti in cambio di soldi. E come fa Speranza a difendere Massimo D’Alema, beccato al telefono a trafficare con le armi? Soprattutto: come si può credere a un tipo che prima parla di una comunità politica che si autotassa e poi sostiene che chiamare in causa D’Alema sugli affari con la Colombia o con i russi è improprio?
Qui di improprio c’è solo la doppiezza di una classe politica che neanche di fronte a fatti gravi ha il coraggio di parlare chiaro.





