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2018-07-22
Marchionne gravissimo: il nuovo ad di Fca è l’inglese Mike Manley
Ansa
Sergio Marchionne è gravissimo, ricoverato in ospedale. La situazione è drammatica e non potrà tornare a ricoprire le sue cariche in Fca. Per questo ieri il cda ha dovuto scegliere i nuovi vertici. Il nuovo ad è l'inglese Mike Manley, responsabile per i marchi Ram e Jeep. La decisione è stata presa dal presidente John Elkann che ha convocato i cda di urgenza a causa di un aggravamento improvviso, definito «impensabile», delle condizioni del manager. Le prime indiscrezioni erano emerse due giorni fa, rinforzate dal fatto che Marchionne non compariva in pubblico da fine giugno.
Il nome di Mike Manley era tra i favoriti insieme a quelli di Richard Palmer, direttore finanziario Jeep, e Alfredo Altavilla, responsabile operativo per Europa, Africa e Medioriente.
Il nuovo ad, come spiega un comunicato della società, è operativo da subito. «Il consiglio proporrà alla prossima assemblea degli azionisti, che sarà convocata nei prossimi giorni, che Manley sia eletto nel consiglio in qualità di amministratore esecutivo della società. Nel frattempo, al fine di garantire pieni poteri e continuità all'operatività aziendale, Manley ha ricevuto dal consiglio stesso le deleghe a operare immediatamente come ad».
Manley è da sempre considerato un uomo dalle straordinarie doti commerciali e la sua scelta potrebbe dipendere dalle già annunciate intenzioni di sviluppare ulteriormente il marchio Jeep. Va detto che una delle grandi capacità di Sergio Marchionne era quella di circondarsi di grandi professionisti. Il caso di Manley non fa eccezione. Il nuovo ad di Fca dal 2009 ha letteralmente trasformato Jeep e Ram, facendoli passare da marchi nordamericani a internazionali.
Nel 2009 il marchio di Suv che apparteneva a Chrysler vendeva in America circa 340.000 veicoli. In meno di dieci anni, grazie alle capacità di Manley, i due brand sono arrivati a vendere circa 1,4 milioni di fuoristrada nel 2017.
Il nuovo numero uno del Lingotto è nato a Edenbridge, in Gran Bretagna nel 1964. La sua formazione è tutta automobilistica. A 22 anni è stato responsabile vendite della piccola Swan national motors, ad Aberdeen, in Scozia. Il primo grande balzo di carriera arriva nel 2000, quando diviene direttore area sviluppo delle rete di Daimler chrysler nel Regno Unito. Nove anni dopo viene scelto come nuovo numero uno del marchio Jeep, incarico che ha ricoperto fino a oggi. Dal 2015 è anche a capo del marchio Ram, brand specializzato nella produzione di pick up e van.
Ma, sebbene la nomina di Manley alla guida di Fca sia la più importante, non è di certo l'unica che è avvenuta ieri. Marchionne era ed è un manager di grande peso e, all'interno di Fca, ricopriva diversi ruoli. Uno di quelli più importanti era quello di ad di Ferrari, azienda che Marchionne non intendeva lasciare nemmeno dopo il suo addio a Fca, previsto per il 2019.
Il suo posto ora è andato a Louis Carey Camilleri. Il manager, nato ad Alessandria d'Egitto, nel 2017 era già stato nominato direttore non esecutivo e presidente del cda del Cavallino rampante. Noto anche alle cronache rosa per una relazione con Naomi Campbell, viene ritenuto un «signore del tabacco» visto il suo lungo passato come presidente e amministratore delegato di Philip Morris, noto colosso delle sigarette. John Elkann è invece diventato presidente della Rossa.
Il cda ha scelto anche a chi dare la poltrona di presidente di Cnh industrial, la divisione di macchine agricole. Si tratta di Suzanne Heywood, dal 2016 direttore generale di Exor, la capogruppo quotata in Borsa di proprietà degli Agnelli.
Per John Elkann questo non è un momento facile, sia sul piano professionale sia umano. Oltre alle importanti decisioni che il presidente di Fca dovrà prendere, c'è da considerare l'aggravarsi delle condizioni di salute dell'ex ad, che appaiono gravissime. «Sono profondamente addolorato per le condizioni di Sergio. Si tratta di una situazione impensabile fino a poche ore fa, che lascia a tutti quanti un senso di ingiustizia. Quello che mi ha colpito di Sergio fin dall'inizio, quando ci incontrammo per parlare della possibilità che venisse a lavorare per il gruppo, più ancora delle sue capacità manageriali e di una intelligenza fuori dal comune, furono le sue qualità umane, la sua generosità e il suo modo di capire le persone», ha detto. «Negli ultimi 14 anni, abbiamo vissuto insieme successi e difficoltà, crisi interne ed esterne, ma anche momenti unici e irripetibili, sia dal punto di vista personale che professionale. Per tanti Sergio è stato un leader illuminato, un punto di riferimento ineguagliabile. Per me è stato una persona con cui confrontarsi e di cui fidarsi, un mentore e soprattutto un amico. Ci ha insegnato a pensare diversamente e ad avere il coraggio di cambiare, spesso anche in modo non convenzionale, agendo sempre con senso di responsabilità per le aziende e per le persone che ci lavorano. Ci ha insegnato che l'unica domanda che vale davvero la pensa farsi, alla fine di ogni giornata, è se siamo stati in grado di cambiare qualcosa in meglio, se siamo stati capaci di fare una differenza. E Sergio ha sempre fatto la differenza, dovunque si sia trovato a lavorare e nella vita di così tante persone».
La situazione è così drammatica che Elkann dell'amico parla al passato.
Gianluca Baldini
In vista il matrimonio con Hyundai
Era stato Umberto Agnelli negli ultimi giorni di vita a indicare Sergio Marchionne per il ruolo di amministratore delegato del gruppo Fiat, che stava vivendo la più grave crisi nella sua storia ultracentenaria. A giugno del 2004 perdeva più o meno 2 milioni di euro al giorno. Una cifra non troppo distante dal disastro Alitalia. L'impero della famiglia Agnelli era oggetto di vertici di governo e riunioni segrete a via XX Settembre organizzate dall'allora ministro Giulio Tremonti su piani di nazionalizzazione.
Quando Marchionne arrivò al timone, il gruppo Fiat in Borsa valeva solo 4 miliardi, non produceva utili ed era schiacciato da un debito monstre. Nella difficile operazione di riassetto, Marchionne ha potuto contare sul sostegno delle principali banche italiane che si erano impegnate con un convertendo da 3 miliardi di euro nei confronti della Fiat.
Sono state le banche (che Marchionne conosceva bene provenendo da Ubs) a far naufragare il progetto di nazionalizzare la Fiat e consentire al manager con il maglioncino di rilanciare la baracca e trasformare il gruppo in una multinazionale (non ha più sede in Italia) che oggi vale compresa Ferrari e Cnh oltre 66 miliardi di euro. Ben 12 in più rispetto alla competitor Gm e 23 più di Ford. Peugeut e Renault non superano i 20 miliardi.
In questi anni Marchionne ha incassato qualcosa come 90,5 milioni di euro tra stipendi e bonus. Ha maturato circa 4 milioni di stock option che non ha ancora monetizzato. E possiede un portafoglio titoli che consta di 11,86 milioni di azioni Cnh, 1,46 milioni di azioni Ferrari e oltre 16 milioni di titoli Fca (circa l'1% della società) per un controvalore che sfiora i 600 milioni. La cifra complessiva si aggirerebbe sui 700, nel caso in cui si vendessero tutte le azioni oggi. Una somma del tutto meritata se guardiamo indietro e valutiamo l'enorme creazione di valore (due mesi fa ha anche azzerato il debito) che l'opera del manager ha prodotto. Per Fca e soprattutto per la famiglia Agnelli.
Marchionne ha tracciato il sentiero che l'azienda in ogni caso percorrerà nei prossimi cinque anni. Un sentiero che è iniziato quando in piena era Barack Obama è sbarcato negli Usa per salvare Chrysler dalla fallimentare joint venture con Daimler. Il manager italocanadese ha realizzato la prima vera fusione tra aziende nel comparto dell'auto e da subito ha compreso la necessità di un ulteriore consolidamento all'interno di un settore ad altissima intensità di capitale che è entrato in una profonda rivoluzione.
Tant'è che dopo essersi scontrato contro i pregiudizi tedeschi e aver abbandonato l'idea di creare un polo europeo con Opel ha corteggiato a lungo Mary Barra, numero uno di Gm. Accantonato anche questa ipotesi di matrimonio, Marchionne ha rivoluzionato la filosofia interna. Ha abbandonato la teoria dei grandi numeri con minori margini per passare a quella della produzione con numeri più contenuti ma con guadagni e valore aggiunto in continua crescita.
Il manager aveva inizialmente fissato un target di 7 milioni di vetture al 2018 posizionandosi su cifre più basse ma con ritorni più elevati. Di qui il peso crescente che ha assunto Jeep. «Se nel 2013 il brand produceva 700.000 vetture e pesava appena il 16% sulle vendite, a fine 2018, secondo le stime, dovrebbe arrivare a un passo dal 40% sui volumi grazie a 1,7 milioni di auto immatricolate», scriveva Il Sole 24 Ore in occasione della presentazione dell'ultimo piano.
Adesso la principale sfida della Fca senza Marchionne sarà far convivere Jeep, le future auto elettriche, le piccole in Italia ed Europa e il polo del lusso Alfa Maserati. Non a caso ieri è stato scelto per la successione proprio Mike Manley il manager a capo di Jeep e Ram, il quale non solo ha lavorato con Marchionne negli ultimi sei anni ma ha anche ben presente quale dovrà essere la Fca del futuro, che probabilmente seguirà la strada tracciata Marchionne. E soprattutto con chi dovrà fare sposare il gruppo perché diventi un vero colosso dell'automotive.
Tornano così di estrema attualità le voci che serpeggiano da tempo di una fusione con la coreana Hyundai. Qualche mese fa Marchionne aveva detto al Sole 24 Ore che con Hyundai si puntava a un'intesa per le tecnologie dell'idrogeno. In realtà ci sarebbe molto di più. Hyundai motor company, che controlla anche Kia, fa parte di un chaebol (cioè un megagruppo multisettoriale) che ha accesso facilitato non solo a grandi risorse finanziarie, ma anche a tecnologie di punta (robot industriali ed elettronica, ad esempio) e persino a materie prime come l'acciaio. Hyundai steel, che è integrata in Hyundai motors, è una vera major dell'acciaio. Avere la materia prima in casa è un grande asset per una casa automobilistica. Fca dal canto suo porterebbe Jeep che è la punta di diamante che manca ai coreani e metterebbe il carico da undici con l'intero comparto del lusso: da Alfa a Maserati.
Resterebbe fuori Ferrari, che ormai corre sulle proprie ruote. Da che è stata scorporato ed è finito sotto Exor, il Cavallino ha intrapreso una nuova vita fatta non più solo di professionalità e motori, ma anche di marketing. Anche per questo per la successione di Marchionne in Ferrari (John Elkann diverrà presidente) è stato scelto Louis Carey Camilleri, egiziano di 63 anni, presidente di Philip morris international. Anch'egli mago del marketing.
Claudio Antonelli
Finita l’epoca del manager alla John Wayne che ha sestuplicato il valore del gruppo
«Nel nostro Paese continuiamo a ripetere che la produzione scende. Guardiamo le slide e poi andiamo a cena». C'è tutta la fretta esistenziale di Sergio Marchionne in questa frase, che manda a casa una generazione di contabili da salotto. Un bilancio sull'eccezionale impatto di questo manager è doveroso mentre si consuma il suo addio a Fca. L'azienda ha messo fine alle voci sulle sue condizioni di salute con un comunicato che non lascia dubbi: «Sono sopraggiunte complicazioni inattese durante la convalescenza post operatoria del dottor Marchionne, aggravatesi ulteriormente nelle ultime ore. Per questi motivi non potrà riprendere la sua attività lavorativa».
In 14 anni di regno, l'uomo che lascia il timone dell'azienda tricolore più popolare dopo averla salvata dal fallimento e portata via dall'Italia, ha insegnato tre cose: a detestare il capitalismo da weekend che costituiva l'essenza stessa dell'avvocato Giovanni Agnelli, a mettersi al computer all'alba e a rispettare gli operai. Lo conferma una delle sue frasi più celebri: «Ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi». Gli operai, non certo chi li rappresenta, quei sindacati che ha sempre trattato con ostentata diffidenza, contribuendo a scardinarne per sempre i riti babilonesi.
C'è un quarto precetto che il mago italocanadese con residenza in Svizzera ci ha insegnato: per avere successo con le automobili non è necessario saper costruire automobili. A rendere unico il manager nato a Chieti 66 anni fa da mamma Maria, istriana con padre infoibato, e papà Concezio, maresciallo dei carabinieri, è questo: il suo è stato un capolavoro finanziario e di relazioni internazionali (ieri obamiano di ferro, oggi trumpiano ma sottovoce) che niente ha avuto a che fare con il design delle portiere. A tal punto che l'unica vettura di cui ci si ricordi al volo nella sua gestione è la Cinquecento.
Eppure Fca è il sesto player mondiale dell'auto, produce quasi sette milioni di vetture, e quando il suo ormai ex ad viene invitato a parlare agli studenti ad Harvard può dire: «Sembrerò presuntuoso, ma ci ha salvato la crisi». La stessa crisi mondiale che gli consente di ristrutturare le fabbriche italiane di Melfi, Pomigliano e Termini Imerese nonostante le barricate. E che nel 2009 lo aiuta ad acquisire negli Usa il 20% del colosso Chrysler, decotto, per rilanciarlo grazie alla pioggia di milioni di dollari che un terrorizzato Barack Obama mette sul piatto. Nel 2011 Chrysler torna all'utile, Marchionne aumenta la quota di partecipazione italiana e vince la partita. Comprare mentre il mondo piange, vendere mentre il mondo ride; il vecchio motto di Borsa lo aiuta quanto le banche che nel 2004 avevano salvato la baracca torinese nell'ora più buia.
Marchionne ha tre lauree, ottenute in Canada dove la famiglia si era trasferita con lui bambino. Ma è orgoglioso di una sola, quella in filosofia (le altre sono in economia e giurisprudenza). «Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente». Nell'Italia del riformismo annunciato e mai praticato, la sua presenza ha un che di rivoluzionario. Anche all'interno, quando nel 2010 imbarazza il board con la frase: «Pago il prezzo di tutti quelli che hanno mangiato al tavolo prima di me».
Quest'uomo piccolo, con l'aspetto del ragioniere, che si presenta in pullover blu a sfidare il trombonesco potere costituito di Confindustria e sindacati suscita due reazioni opposte: l'irritazione dei principi della concertazione da sacrestia e il boato di approvazione degli imprenditori che vorrebbero sentirsi più liberi di innovare e competere. I suoi gesti più eclatanti sono l'uscita da Confindustria con la denuncia che «la consorteria non fa più gli interessi delle aziende» e il duro confronto con i sindacati americani per rilanciare Chrysler che fa da prova generale alla guerra a Fiom e Cgil nelle fabbriche, vinta con referendum votati a maggioranza dai lavoratori.
Alla morte dell'Avvocato il testamento morale sotto la Mole era chiaro: vendere la Fiat e salvare Ferrari, Stampa e Juventus. Marchionne ha ribaltato il concetto: far fruttare le auto e rendere indipendenti pallone, quotidiano e Maranello. A costo di cedere le quote del giornale a Carlo De Benedetti e di disarcionare dopo 20 anni Luca Cordero di Montezemolo dal Cavallino. Rigoroso, nessun assistenzialismo. Ma in nome del fiuto per il marketing, prima di entrare in clinica ha dato l'ok all'operazione Cristiano Ronaldo.
«La leadership non è anarchia, in una grande azienda chi comanda è un uomo solo», ama ripetere mentre i numeri lo premiano: ha preso la Fiat con 4,4 miliardi di debiti (diventati 9,7 miliardi con l'acquisizione di Chrysler) e l'ha portata a 5 miliardi di utile. Adesso le azioni valgono sei volte di più. E qui Marchionne è coerente con il suo stile da John Wayne e con il calvinismo insito nei pullover con zip e girocollo: nel 2014 decide che è arrivato il momento di spacchettare il fabbricone degli Agnelli (con John Elkann a fungere da bandiera) e di portarlo a pezzi nel mondo. Nasce Fca, Fiat Chrysler automobiles, con sede legale ad Amsterdam, sede fiscale a Londra, quotata a Wall Street. L'allora premier Matteo Renzi è così spaesato da inchinarsi deferente e accompagnare alla frontiera con i fiori Marchionne ed Elkann. «Li ha pure ringraziati indicandoli ad esempio. Non ha pensato neppure per un attimo a una sorta di exit tax. In Francia, Germania, Stati Uniti non sarebbe mai accaduto», scrive Ferruccio de Bortoli nel libro Poteri forti (o quasi).
Entrato al Lingotto nel 2004 in un clima da Saigon con un'azienda che perdeva 2 milioni al giorno, Marchionne ha fatto il miracolo arrivando in ufficio all'alba e fumando due pacchetti di sigarette al giorno (poi sostituite dal vapore acqueo). «Mi rilasso ascoltando arie di Maria Callas e cucinando ragù alla bolognese, la mia specialità». Lo aveva scoperto Umberto Agnelli alla Sgs di Ginevra, di cui la famiglia era azionista. Il fratello dell'Avvocato era incuriosito dal fatto che quel piccolo italocanadese fosse riuscito a mandare avanti il gruppo chimico Serono mentre il proprietario Ernesto Bertarelli stava in barca a vincere la Coppa America con Alinghi. Le prime parole dell'uomo del destino nel grigiore della depressione torinese furono queste: «Fiat ce la farà, il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione. Prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici». Quel giorno portava la cravatta.
Giorgio Gandola
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John Elkann: «Un'ingiustizia, Sergio per me è stato mentore e soprattuto amico». Il cda sceglie come successore l'ex responsabile dei marchi Jeep e Ram. I nuovi vertici probabilmente seguiranno la strada del loro predecessore. Possibile una fusione con i coreani di Hyundai: gli asiatici porterebbero in dote acciaio e tecnologie, il Lingotto Jeep e brand di lusso come Maserati e Alfa. Amante di Maria Callas e del ragù, diceva: «La leadership non è anarchia, in azienda comanda un solo uomo». Ha salvato la società battendo Confindustria, salotti e sindacati. Lo speciale contiene tre articoli Leggi la lettera di John Elkann ai dipendenti Sergio Marchionne è gravissimo, ricoverato in ospedale. La situazione è drammatica e non potrà tornare a ricoprire le sue cariche in Fca. Per questo ieri il cda ha dovuto scegliere i nuovi vertici. Il nuovo ad è l'inglese Mike Manley, responsabile per i marchi Ram e Jeep. La decisione è stata presa dal presidente John Elkann che ha convocato i cda di urgenza a causa di un aggravamento improvviso, definito «impensabile», delle condizioni del manager. Le prime indiscrezioni erano emerse due giorni fa, rinforzate dal fatto che Marchionne non compariva in pubblico da fine giugno. Il nome di Mike Manley era tra i favoriti insieme a quelli di Richard Palmer, direttore finanziario Jeep, e Alfredo Altavilla, responsabile operativo per Europa, Africa e Medioriente. Il nuovo ad, come spiega un comunicato della società, è operativo da subito. «Il consiglio proporrà alla prossima assemblea degli azionisti, che sarà convocata nei prossimi giorni, che Manley sia eletto nel consiglio in qualità di amministratore esecutivo della società. Nel frattempo, al fine di garantire pieni poteri e continuità all'operatività aziendale, Manley ha ricevuto dal consiglio stesso le deleghe a operare immediatamente come ad». Manley è da sempre considerato un uomo dalle straordinarie doti commerciali e la sua scelta potrebbe dipendere dalle già annunciate intenzioni di sviluppare ulteriormente il marchio Jeep. Va detto che una delle grandi capacità di Sergio Marchionne era quella di circondarsi di grandi professionisti. Il caso di Manley non fa eccezione. Il nuovo ad di Fca dal 2009 ha letteralmente trasformato Jeep e Ram, facendoli passare da marchi nordamericani a internazionali. Nel 2009 il marchio di Suv che apparteneva a Chrysler vendeva in America circa 340.000 veicoli. In meno di dieci anni, grazie alle capacità di Manley, i due brand sono arrivati a vendere circa 1,4 milioni di fuoristrada nel 2017. Il nuovo numero uno del Lingotto è nato a Edenbridge, in Gran Bretagna nel 1964. La sua formazione è tutta automobilistica. A 22 anni è stato responsabile vendite della piccola Swan national motors, ad Aberdeen, in Scozia. Il primo grande balzo di carriera arriva nel 2000, quando diviene direttore area sviluppo delle rete di Daimler chrysler nel Regno Unito. Nove anni dopo viene scelto come nuovo numero uno del marchio Jeep, incarico che ha ricoperto fino a oggi. Dal 2015 è anche a capo del marchio Ram, brand specializzato nella produzione di pick up e van. Ma, sebbene la nomina di Manley alla guida di Fca sia la più importante, non è di certo l'unica che è avvenuta ieri. Marchionne era ed è un manager di grande peso e, all'interno di Fca, ricopriva diversi ruoli. Uno di quelli più importanti era quello di ad di Ferrari, azienda che Marchionne non intendeva lasciare nemmeno dopo il suo addio a Fca, previsto per il 2019. Il suo posto ora è andato a Louis Carey Camilleri. Il manager, nato ad Alessandria d'Egitto, nel 2017 era già stato nominato direttore non esecutivo e presidente del cda del Cavallino rampante. Noto anche alle cronache rosa per una relazione con Naomi Campbell, viene ritenuto un «signore del tabacco» visto il suo lungo passato come presidente e amministratore delegato di Philip Morris, noto colosso delle sigarette. John Elkann è invece diventato presidente della Rossa. Il cda ha scelto anche a chi dare la poltrona di presidente di Cnh industrial, la divisione di macchine agricole. Si tratta di Suzanne Heywood, dal 2016 direttore generale di Exor, la capogruppo quotata in Borsa di proprietà degli Agnelli. Per John Elkann questo non è un momento facile, sia sul piano professionale sia umano. Oltre alle importanti decisioni che il presidente di Fca dovrà prendere, c'è da considerare l'aggravarsi delle condizioni di salute dell'ex ad, che appaiono gravissime. «Sono profondamente addolorato per le condizioni di Sergio. Si tratta di una situazione impensabile fino a poche ore fa, che lascia a tutti quanti un senso di ingiustizia. Quello che mi ha colpito di Sergio fin dall'inizio, quando ci incontrammo per parlare della possibilità che venisse a lavorare per il gruppo, più ancora delle sue capacità manageriali e di una intelligenza fuori dal comune, furono le sue qualità umane, la sua generosità e il suo modo di capire le persone», ha detto. «Negli ultimi 14 anni, abbiamo vissuto insieme successi e difficoltà, crisi interne ed esterne, ma anche momenti unici e irripetibili, sia dal punto di vista personale che professionale. Per tanti Sergio è stato un leader illuminato, un punto di riferimento ineguagliabile. Per me è stato una persona con cui confrontarsi e di cui fidarsi, un mentore e soprattutto un amico. Ci ha insegnato a pensare diversamente e ad avere il coraggio di cambiare, spesso anche in modo non convenzionale, agendo sempre con senso di responsabilità per le aziende e per le persone che ci lavorano. Ci ha insegnato che l'unica domanda che vale davvero la pensa farsi, alla fine di ogni giornata, è se siamo stati in grado di cambiare qualcosa in meglio, se siamo stati capaci di fare una differenza. E Sergio ha sempre fatto la differenza, dovunque si sia trovato a lavorare e nella vita di così tante persone». La situazione è così drammatica che Elkann dell'amico parla al passato. 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E possiede un portafoglio titoli che consta di 11,86 milioni di azioni Cnh, 1,46 milioni di azioni Ferrari e oltre 16 milioni di titoli Fca (circa l'1% della società) per un controvalore che sfiora i 600 milioni. La cifra complessiva si aggirerebbe sui 700, nel caso in cui si vendessero tutte le azioni oggi. Una somma del tutto meritata se guardiamo indietro e valutiamo l'enorme creazione di valore (due mesi fa ha anche azzerato il debito) che l'opera del manager ha prodotto. Per Fca e soprattutto per la famiglia Agnelli. Marchionne ha tracciato il sentiero che l'azienda in ogni caso percorrerà nei prossimi cinque anni. Un sentiero che è iniziato quando in piena era Barack Obama è sbarcato negli Usa per salvare Chrysler dalla fallimentare joint venture con Daimler. Il manager italocanadese ha realizzato la prima vera fusione tra aziende nel comparto dell'auto e da subito ha compreso la necessità di un ulteriore consolidamento all'interno di un settore ad altissima intensità di capitale che è entrato in una profonda rivoluzione. Tant'è che dopo essersi scontrato contro i pregiudizi tedeschi e aver abbandonato l'idea di creare un polo europeo con Opel ha corteggiato a lungo Mary Barra, numero uno di Gm. Accantonato anche questa ipotesi di matrimonio, Marchionne ha rivoluzionato la filosofia interna. Ha abbandonato la teoria dei grandi numeri con minori margini per passare a quella della produzione con numeri più contenuti ma con guadagni e valore aggiunto in continua crescita. Il manager aveva inizialmente fissato un target di 7 milioni di vetture al 2018 posizionandosi su cifre più basse ma con ritorni più elevati. Di qui il peso crescente che ha assunto Jeep. «Se nel 2013 il brand produceva 700.000 vetture e pesava appena il 16% sulle vendite, a fine 2018, secondo le stime, dovrebbe arrivare a un passo dal 40% sui volumi grazie a 1,7 milioni di auto immatricolate», scriveva Il Sole 24 Ore in occasione della presentazione dell'ultimo piano. Adesso la principale sfida della Fca senza Marchionne sarà far convivere Jeep, le future auto elettriche, le piccole in Italia ed Europa e il polo del lusso Alfa Maserati. Non a caso ieri è stato scelto per la successione proprio Mike Manley il manager a capo di Jeep e Ram, il quale non solo ha lavorato con Marchionne negli ultimi sei anni ma ha anche ben presente quale dovrà essere la Fca del futuro, che probabilmente seguirà la strada tracciata Marchionne. E soprattutto con chi dovrà fare sposare il gruppo perché diventi un vero colosso dell'automotive. Tornano così di estrema attualità le voci che serpeggiano da tempo di una fusione con la coreana Hyundai. Qualche mese fa Marchionne aveva detto al Sole 24 Ore che con Hyundai si puntava a un'intesa per le tecnologie dell'idrogeno. In realtà ci sarebbe molto di più. Hyundai motor company, che controlla anche Kia, fa parte di un chaebol (cioè un megagruppo multisettoriale) che ha accesso facilitato non solo a grandi risorse finanziarie, ma anche a tecnologie di punta (robot industriali ed elettronica, ad esempio) e persino a materie prime come l'acciaio. Hyundai steel, che è integrata in Hyundai motors, è una vera major dell'acciaio. Avere la materia prima in casa è un grande asset per una casa automobilistica. Fca dal canto suo porterebbe Jeep che è la punta di diamante che manca ai coreani e metterebbe il carico da undici con l'intero comparto del lusso: da Alfa a Maserati. Resterebbe fuori Ferrari, che ormai corre sulle proprie ruote. Da che è stata scorporato ed è finito sotto Exor, il Cavallino ha intrapreso una nuova vita fatta non più solo di professionalità e motori, ma anche di marketing. Anche per questo per la successione di Marchionne in Ferrari (John Elkann diverrà presidente) è stato scelto Louis Carey Camilleri, egiziano di 63 anni, presidente di Philip morris international. Anch'egli mago del marketing. Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/marchionne-gravissimo-il-nuovo-ad-di-fca-e-linglese-mike-manley-2588739328.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="finita-lepoca-del-manager-alla-john-wayne-che-ha-sestuplicato-il-valore-del-gruppo" data-post-id="2588739328" data-published-at="1765403661" data-use-pagination="False"> Finita l’epoca del manager alla John Wayne che ha sestuplicato il valore del gruppo «Nel nostro Paese continuiamo a ripetere che la produzione scende. Guardiamo le slide e poi andiamo a cena». C'è tutta la fretta esistenziale di Sergio Marchionne in questa frase, che manda a casa una generazione di contabili da salotto. Un bilancio sull'eccezionale impatto di questo manager è doveroso mentre si consuma il suo addio a Fca. L'azienda ha messo fine alle voci sulle sue condizioni di salute con un comunicato che non lascia dubbi: «Sono sopraggiunte complicazioni inattese durante la convalescenza post operatoria del dottor Marchionne, aggravatesi ulteriormente nelle ultime ore. Per questi motivi non potrà riprendere la sua attività lavorativa». In 14 anni di regno, l'uomo che lascia il timone dell'azienda tricolore più popolare dopo averla salvata dal fallimento e portata via dall'Italia, ha insegnato tre cose: a detestare il capitalismo da weekend che costituiva l'essenza stessa dell'avvocato Giovanni Agnelli, a mettersi al computer all'alba e a rispettare gli operai. Lo conferma una delle sue frasi più celebri: «Ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi». Gli operai, non certo chi li rappresenta, quei sindacati che ha sempre trattato con ostentata diffidenza, contribuendo a scardinarne per sempre i riti babilonesi. C'è un quarto precetto che il mago italocanadese con residenza in Svizzera ci ha insegnato: per avere successo con le automobili non è necessario saper costruire automobili. A rendere unico il manager nato a Chieti 66 anni fa da mamma Maria, istriana con padre infoibato, e papà Concezio, maresciallo dei carabinieri, è questo: il suo è stato un capolavoro finanziario e di relazioni internazionali (ieri obamiano di ferro, oggi trumpiano ma sottovoce) che niente ha avuto a che fare con il design delle portiere. A tal punto che l'unica vettura di cui ci si ricordi al volo nella sua gestione è la Cinquecento. Eppure Fca è il sesto player mondiale dell'auto, produce quasi sette milioni di vetture, e quando il suo ormai ex ad viene invitato a parlare agli studenti ad Harvard può dire: «Sembrerò presuntuoso, ma ci ha salvato la crisi». La stessa crisi mondiale che gli consente di ristrutturare le fabbriche italiane di Melfi, Pomigliano e Termini Imerese nonostante le barricate. E che nel 2009 lo aiuta ad acquisire negli Usa il 20% del colosso Chrysler, decotto, per rilanciarlo grazie alla pioggia di milioni di dollari che un terrorizzato Barack Obama mette sul piatto. Nel 2011 Chrysler torna all'utile, Marchionne aumenta la quota di partecipazione italiana e vince la partita. Comprare mentre il mondo piange, vendere mentre il mondo ride; il vecchio motto di Borsa lo aiuta quanto le banche che nel 2004 avevano salvato la baracca torinese nell'ora più buia. Marchionne ha tre lauree, ottenute in Canada dove la famiglia si era trasferita con lui bambino. Ma è orgoglioso di una sola, quella in filosofia (le altre sono in economia e giurisprudenza). «Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente». Nell'Italia del riformismo annunciato e mai praticato, la sua presenza ha un che di rivoluzionario. Anche all'interno, quando nel 2010 imbarazza il board con la frase: «Pago il prezzo di tutti quelli che hanno mangiato al tavolo prima di me». Quest'uomo piccolo, con l'aspetto del ragioniere, che si presenta in pullover blu a sfidare il trombonesco potere costituito di Confindustria e sindacati suscita due reazioni opposte: l'irritazione dei principi della concertazione da sacrestia e il boato di approvazione degli imprenditori che vorrebbero sentirsi più liberi di innovare e competere. I suoi gesti più eclatanti sono l'uscita da Confindustria con la denuncia che «la consorteria non fa più gli interessi delle aziende» e il duro confronto con i sindacati americani per rilanciare Chrysler che fa da prova generale alla guerra a Fiom e Cgil nelle fabbriche, vinta con referendum votati a maggioranza dai lavoratori. Alla morte dell'Avvocato il testamento morale sotto la Mole era chiaro: vendere la Fiat e salvare Ferrari, Stampa e Juventus. Marchionne ha ribaltato il concetto: far fruttare le auto e rendere indipendenti pallone, quotidiano e Maranello. A costo di cedere le quote del giornale a Carlo De Benedetti e di disarcionare dopo 20 anni Luca Cordero di Montezemolo dal Cavallino. Rigoroso, nessun assistenzialismo. Ma in nome del fiuto per il marketing, prima di entrare in clinica ha dato l'ok all'operazione Cristiano Ronaldo. «La leadership non è anarchia, in una grande azienda chi comanda è un uomo solo», ama ripetere mentre i numeri lo premiano: ha preso la Fiat con 4,4 miliardi di debiti (diventati 9,7 miliardi con l'acquisizione di Chrysler) e l'ha portata a 5 miliardi di utile. Adesso le azioni valgono sei volte di più. E qui Marchionne è coerente con il suo stile da John Wayne e con il calvinismo insito nei pullover con zip e girocollo: nel 2014 decide che è arrivato il momento di spacchettare il fabbricone degli Agnelli (con John Elkann a fungere da bandiera) e di portarlo a pezzi nel mondo. Nasce Fca, Fiat Chrysler automobiles, con sede legale ad Amsterdam, sede fiscale a Londra, quotata a Wall Street. L'allora premier Matteo Renzi è così spaesato da inchinarsi deferente e accompagnare alla frontiera con i fiori Marchionne ed Elkann. «Li ha pure ringraziati indicandoli ad esempio. Non ha pensato neppure per un attimo a una sorta di exit tax. In Francia, Germania, Stati Uniti non sarebbe mai accaduto», scrive Ferruccio de Bortoli nel libro Poteri forti (o quasi). Entrato al Lingotto nel 2004 in un clima da Saigon con un'azienda che perdeva 2 milioni al giorno, Marchionne ha fatto il miracolo arrivando in ufficio all'alba e fumando due pacchetti di sigarette al giorno (poi sostituite dal vapore acqueo). «Mi rilasso ascoltando arie di Maria Callas e cucinando ragù alla bolognese, la mia specialità». Lo aveva scoperto Umberto Agnelli alla Sgs di Ginevra, di cui la famiglia era azionista. Il fratello dell'Avvocato era incuriosito dal fatto che quel piccolo italocanadese fosse riuscito a mandare avanti il gruppo chimico Serono mentre il proprietario Ernesto Bertarelli stava in barca a vincere la Coppa America con Alinghi. Le prime parole dell'uomo del destino nel grigiore della depressione torinese furono queste: «Fiat ce la farà, il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione. Prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici». Quel giorno portava la cravatta. Giorgio Gandola
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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