2025-03-17
Marcello Pera: «Non possiamo fare a meno degli Usa»
Il senatore: «La Meloni è la vera leader del vecchio continente, può fare da ponte con l’America. E Trump la ascolterà: non ama l’Europa, ma non è suo interesse abbandonarla. Il premierato? Temo si sia arenato».Marcello Pera, senatore di Fratelli d’Italia ed ex presidente a Palazzo Madama, uno dei suoi libri più noti s’intitola: Popper e la scienza su palafitte. Anche la politica è un edificio costruito in mezzo a una palude?«Vuole davvero cominciare con il difficile?».Solo lei può salvarci: 82 anni, eminente filosofo, un considerevole elenco di libri e pubblicazioni.«La scienza è su palafitte perché non ha fondamenti sicuri. Persino la conoscenza più solida può essere rovesciata. Ma anche la politica è su palafitte, perché è sempre instabile».Adesso i rapporti tra Europa e Stati Uniti sembrano più limacciosi che mai.«Non ho mai pensato che mi toccasse assistere a questo spettacolo. Sono sgomento: scegliere fra l’Italia, la mia patria reale, e l’America, la mia patria ideale, diventa inaudito. Va contro tutto quello che sono e in cui credo». Come s’è arrivati a tanto?«È questa la cosa peggiore. Non capisco il perché. Sapevo che l’Europa non stava in piedi. Mi era noto pure che viveva di rendita. Non abbiamo statura geopolitica, purtroppo. Ma questo non ha mai implicato che dovessi definire la mia identità contro quella dell’America». Trump la preoccupa?«Ha vinto con pieno merito, ha sconfitto una sinistra ormai perduta. Ora deve rassicurarmi, piuttosto che farmi costernare».Lo scontro nello studio ovale con Volodymyr Zelensky segna un’epoca? «L’epoca l’ha segnata il secondo mandato di Trump. Ha cambiato i rapporti internazionali. Ha ridato una strategia e un’immagine forte all’America. Quello che è successo in quel confronto, però, non è spiegabile. E mi riferisco ovviamente anche a quanto sia stato sprovveduto Zelensky».Il presidente americano riuscirà a far siglare una tregua tra Mosca e Kiev? «Una pace che è solo una tregua farebbe riprendere fiato e appetito a Putin. E questo non andrebbe bene».Giorgia Meloni commenta: «È il tempo in cui le persone serie lavorano per ricomporre». «Ha pienamente ragione. Dobbiamo spiegare a Trump che non può spezzare l’Occidente: né la sua economia e neppure la sua civiltà. Per cosa poi? Per darne un pezzo a Putin? E in cambio di che? Se Trump si fida di Putin, allora faccia in modo che l’Europa si fidi di Trump». Le richieste a Mosca sono ragionevoli? «Mi confortano. Non sembra che voglia regalare tutto ai russi. E adesso si apre uno spazio per un nostro ruolo».L’Italia può sopravvivere senza gli Usa?«Né l’Italia, né nessuno. Però, se vogliamo guardare anche solo il lato materiale della questione, gli stessi americani avrebbero difficoltà a vivere senza il mercato europeo».Gli Stati Uniti, con la guerra dei dazi, rischiano davvero la recessione?«Può darsi che l’abbiano messa in conto. Se è così, restano due anni di tempo per uscirne, fino alle elezioni di mezzo termine. Se perdesse la maggioranza al congresso, Trump non sarebbe solo azzoppato, ma pure smentito e sconfitto».La premier italiana rimane in splendidi rapporti con l’amministrazione americana. Può essere ancora il ponte tra le due sponde dell’Atlantico, come auspicava?«Può esserlo ed è preparata a esserlo. Ma Trump deve ascoltarla. E penso che lo farà. Non sono così stupido da pensare che sia tanto stupido. Che non gli piaccia l’Europa, è chiaro. Ma non è suo interesse abbandonarla». Lei aveva profetizzato: il 2025, per Meloni, sarà l’anno della consacrazione.«Deve solo lavorare di più. È la vera leader europea. A Trump serve capire che ne ha bisogno. Non gli serve avere davanti solo nemici e attorno solo diffidenti».«Ho messo fine alla tirannia del politicamente corretto. Il nostro Paese non sarà più woke», ha detto nel primo discorso al Congresso.«Giusto. Ha fatto bene e gliene siamo grati. Molto. Quella cultura è il veleno che ha ucciso la sinistra americana, tanto quanto il nepotismo dei Clinton e degli Obama. Se il presidente ha la ricetta giusta, la condivida con noi. In Italia abbiamo gli stessi problemi, soprattutto per l’irresponsabilità spensierata della segretaria del Pd, Elly Schlein».Il simbiotico Elon Musk è un nuovo Leonardo da Vinci o uno spregiudicato multimiliardario? «È un uomo di genio e d’affari. Trump, probabilmente, se ne serve come di un bastone per aprire la strada. Poi, ho l’impressione che lo metterà da parte, qualora desse fastidio».Anche Matteo Salvini, di cui lei è stato consigliere politico, ha scelto di appoggiare senza remore il trumpismo.«Salvini, se vuole, i consiglieri li ha in casa. Non sono sicuro che se ne serva, però. Oggi, in realtà, non capisco se sostiene il trumpismo o il putinismo. Non si può solo ragionare in termini di partito, occorre anche l’uomo di Stato. Penso che non debba mettere a repentaglio maggioranza e governo. Gli italiani lo vogliono lì per fare cose, non per disegnare la geopolitica del mondo».Intanto, in Italia avanza la separazione delle carriere. Basterà per evitare «la politicizzazione della magistratura» denunciata da Meloni? «Mi scusi, la contraddico. Non avanza la separazione delle carriere. Marcia la separazione dei consigli superiori. E con quello dei pubblici ministeri, la politicizzazione sarà ancora più accentuata e incontrollabile».Perché?«Oggi i pm sono autonomi e indipendenti. Domani saranno autonomi, indipendenti e separati. A chi risponderanno? A nessuno. Un corpo distinto di milletrecento anime senza controllo è uno screzio alla democrazia. Milletrecento colonnelli senza un generale. Milletrecento militanti senza una guida. È un pericolo. Secondo me, molto serio». Dunque?«Quella legge ha bisogno di correzioni. Mi sembra impossibile che i penalisti non ne parlino. E mi pare incredibile che non ci sia un’opinione pubblica seria che ne discuta. Si ragiona solo sui dettagli».Ci sono ancora le «toghe rosse», come le chiamava Berlusconi?«Non sono mai scomparse. Ora sono alla carica contro le politiche del governo, vedi il caso Open Arms per cui Salvini è stato recentemente assolto o il rimpatrio del generale libico per cui è ancora indagata la presidente del Consiglio».Nel 2001 lei era destinato a fare proprio il ministro della Giustizia. Resta un rimpianto? «No. Rimpiango solo le riforme non fatte. Mi viene tristezza quando rileggo i vecchi testi che giacciono in senato. E mi cruccio. Sono ancora attuali vent’anni dopo».Alla fine, venne eletto presidente del Senato. Erano i tempi gloriosi del Cavaliere. Sognavate la rivoluzione liberale. «Non ci fu e non la vedo ancora».Il potere meloniano sarà longevo quanto quello berlusconiano?«Io me lo auguro. Perché lei è brava, preparata e determinata».Giorgia e Silvio, visti da vicino. In cosa si somigliano? «Giorgia ha portato la destra al governo, proprio come voleva Silvio. Ma non copre tutta l’area di consenso che ha avuto Berlusconi. Una parte dei moderati, ma pure dei liberali, resta diffidente o incerta. Perciò bisogna ancora lavorare».E in cosa sono diversi?«Trovo Giorgia maggiormente preparata sui dossier. Studia molto di più».A parer di dotto conservatore, Fratelli d’Italia ha completato la transizione verso il conservatorismo? «Deve aprirsi a chi sta fuori, o stare a guardare, oppure aspettare. Occorre, comunque, un atto di coraggio. Solo Giorgia Meloni può farlo, perché ha il consenso e non è insidiata da nessuno».Dopo il 2012, lei è stato per quasi dieci anni lontano dal Parlamento. Poi, a gennaio 2022, il centrodestra l’ha indicata tra i candidati al Quirinale. Alla fine, le mancarono 505 voti. Come ha vissuto quei giorni?«Più che serenamente, perché sapevo che era uno scherzo».S’è ricandidato qualche mese dopo, «per vigilare sul premierato». La riforma, però, sembra che si sia arenata.«Sembra anche a me. Spero di non aver vigilato su un bidone».In Forza Italia l’aveva portata nel 1994 Lucio Colletti, filosofo anche lui e poi deputato.«In realtà, sono stato io a portare Colletti. E poi ci portammo tutti assieme. Fu una bella stagione politica».Ricorda il primo incontro con Berlusconi?«Era suadente e seducente. Gli piaceva piacere».Assieme a Giuliano Urbani e Antonio Martino siete stati, appunto, gli alfieri liberali. I professori, però, furono poi soppiantati dai berluscones.«A quel tempo anche i berluscones erano liberali. È stata una grande ventata sociale».Qualche mese fa ha promesso che sarebbe andato a trovare Urbani nella casa di riposo dove vive: «Aspetto la morte sperando che arrivi il più tardi possibile» aveva detto in un’intervista l’ex ministro della Cultura.«L’ho visto e l’ho sentito. Resta un caro, vecchio, amico. E sta bene».A Marcello Pera, invece, tocca fare il venerato maestro del centrodestra. Ogni settimana parte da Lucca, per raggiungere Roma. Sedute, libri, convegni. Popper, di cui lei è il massimo studioso vivente, scrisse fino a 92 anni suonati. «Fu un uomo fortunato. Per l’opinione pubblica era diventato un vecchio saggio. E in campo filosofico fece in tempo a vedere il suo tramonto e sentire il calcio dell’asino di allievi e seguaci. Il destino di tutti i venerati maestri».
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