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2021-10-14
La mappa dei disagi del green caos
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In parallelo a quelle dei portuali, nelle ultime ore è emersa prepotentemente la questione degli operai. Da questo punto di vista un passo nella giusta direzione è stato fatto dall'ex-Ilva che, contraddicendo quanto ribadito anche ieri dai settori più intransigenti della maggioranza, ha siglato un accordo con le rappresentanze sindacali, in base al quale l'azienda (che attraverso Invitalia ha una cospicua parte di pubblico nella sua proprietà) si impegna a pagare i tamponi i lavoratori senza green pass. Resta però il nodo, dopo le energiche prese di posizione, tra gli altri, del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, di altre realtà industriali. Nei grandi stabilimenti, uno dei problemi maggiori è dato dalla macchinosità dei controlli, che per motivi di privacy dovranno ripartire ogni volta da capo, comportando la paralisi della produzione. Nei giorni scorsi l'amministratore delegato di Ast, Massimiliano Burelli, aveva segnalato che la produzione a ciclo continuo potrebbe bloccarsi, con conseguenze facilmente immaginabili per le commesse.
Uva, mele, olive potrebbero marcire senza raccolta
Situazione a forte rischio paralisi anche per il settore agricolo, come ha più volte fatto notare Coldiretti. L'obbligo del green pass scatterà da domani per i circa 400.000 lavoratori impiegati nelle nostre campagne. Tra questi si stima che un quarto non siano vaccinati, che si sommano agli stranieri con vaccino non riconosciuto nei Paesi Ue. Il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, ha spiegato negli ultimi giorni che molti di loro sono impegnati nella vendemmia, nella raccolta delle mele e delle olive. Se questa dovesse essere interrotta, ci sarebbe il rischio di vedere marcire i frutti sugli alberi e le coltivazioni. «Per garantire l'adeguata copertura degli organici necessari a salvare i raccolti», ha sottolineato Coldiretti, «è urgente introdurre strumenti flessibili, concordati con i sindacati, che consentano a percettori di ammortizzatori sociali, studenti e pensionati italiani di poter collaborare temporaneamente alle attività nei campi».
Quella dei tamponi è una bomba che può far collassare il sistema
I farmacisti non hanno usato giri di parole sulle implicazioni che l'obbligo di green pass per i lavoratori potrebbe avere da domani, parlando di «bomba a orologeria». Le richieste di tamponi molecolari o antigenici, nelle prossime ore, saranno infatti nell'ordine delle decine di milioni. Ciò significa che non solo le farmacie non riusciranno a far fronte a tale richiesta, ma c'è il rischio serio di una paralisi anche delle attività ordinarie, come la vendita dei medicinali (sempre che questi riescano ad arrivare, dati i concomitanti problemi della logistica) e altri tipi di prestazioni. Sempre secondo stime in difetto, se solo sette milioni degli oltre otto milioni di cittadini non vaccinati facessero un test ogni 48 ore, il sistema collasserebbe, non essendo materialmente possibile fare in una manciata di giorni ciò che è stato fatto finora dall'inizio della pandemia.
Consegne bloccate. E c’è l’incognita dei mezzi pubblici
Non solo il problema porti. Con l'entrata in vigore dell'obbligo di green pass, secondo stime in difetto fatte da operatori del settore, si rischia il blocco di 80.000 camion. Le stesse stime, infatti, parlando di un 30% di autisti sprovvisti della certificazione verde, e visto che le nuove norme prevedono che il camionista senza green pass non può transitare, non è difficile immaginare i riflessi che ciò potrebbe avere sulla grande distribuzione e sulla consegna di generi di prima necessità, come alimentari e medicinali. Tra gli autotrasportatori, inoltre, ce ne sono molti che provengono da Paesi (soprattutto dall'Europa orientale) in cui il vaccino cui si sono sottoposti non è riconosciuto dall'Ema, e quindi non può tradursi in green pass. Il rischio paralisi sarebbe determinato dall'allungamento dei tempi di attesa dovuto ai controlli, che si ripercuoterebbe poi su tutta la filiera, lasciando sguarniti i negozi e i mercati. Così come in quello delle merci, il problema sussiste anche nel trasporto delle persone, perché se è vero che nel trasporto pubblico locale non è necessario esibire il green pass da parte degli utenti, la certificazione da domani sarà necessaria per chi i mezzi pubblici dovrà condurli. Anche in questo caso, il rischio di un ulteriore rallentamento di un servizio già martoriato da tagli e inefficienze è dietro l'angolo.
Il controllo del territorio con il 30% di uomini in meno
Con l'obbligo di green pass per le forze dell'ordine, a risultare indebolito potrebbe essere il controllo del territorio, visto che gli organici di polizia e carabinieri sono già drammaticamente sottodimensionati. In alcune città si stima che la percentuale dei non vaccinati tra le forze armate arrivi al 30 per cento, con tutte le implicazioni per la sicurezza nazionale. Tra l'altro, il Capo della polizia, Lamberto Giannini, ha diramato una circolare in base alla quale è frettolosamente corso ai ripari sulla questione della scadenza del green pass: i poliziotti cui dovesse scadere la certificazione durante un servizio potranno portare comunque al termine quest'ultimo. Ma le prevedibili difficoltà nel soddisfare la richiesta di tamponi potrebbero comunque impedire una copertura adeguata del territorio. Lo stesso ovviamente vale per i carabinieri e le altre forze armate, come hanno segnalato i sindacati di categoria, tra i quali Unarma.
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A 24 ore dal D-day del certificato obbligatorio per poter lavorare, i nodi da sciogliere e i rebus da risolvere sono ancora tanti. A cominciare dai controlli (a chi spettano?) fino a che cosa fare con autotrasportatori e marittimi stranieri, magari immunizzati con vaccini non riconosciuti idonei dall'EmaLo speciale contiene cinque articoliIn parallelo a quelle dei portuali, nelle ultime ore è emersa prepotentemente la questione degli operai. Da questo punto di vista un passo nella giusta direzione è stato fatto dall'ex-Ilva che, contraddicendo quanto ribadito anche ieri dai settori più intransigenti della maggioranza, ha siglato un accordo con le rappresentanze sindacali, in base al quale l'azienda (che attraverso Invitalia ha una cospicua parte di pubblico nella sua proprietà) si impegna a pagare i tamponi i lavoratori senza green pass. Resta però il nodo, dopo le energiche prese di posizione, tra gli altri, del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, di altre realtà industriali. Nei grandi stabilimenti, uno dei problemi maggiori è dato dalla macchinosità dei controlli, che per motivi di privacy dovranno ripartire ogni volta da capo, comportando la paralisi della produzione. Nei giorni scorsi l'amministratore delegato di Ast, Massimiliano Burelli, aveva segnalato che la produzione a ciclo continuo potrebbe bloccarsi, con conseguenze facilmente immaginabili per le commesse.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macchinosita-nei-controlli-e-problema-test-2655293215.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="uva-mele-olive-potrebbero-marcire-senza-raccolta" data-post-id="2655293215" data-published-at="1634166186" data-use-pagination="False"> Uva, mele, olive potrebbero marcire senza raccolta Situazione a forte rischio paralisi anche per il settore agricolo, come ha più volte fatto notare Coldiretti. L'obbligo del green pass scatterà da domani per i circa 400.000 lavoratori impiegati nelle nostre campagne. Tra questi si stima che un quarto non siano vaccinati, che si sommano agli stranieri con vaccino non riconosciuto nei Paesi Ue. Il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, ha spiegato negli ultimi giorni che molti di loro sono impegnati nella vendemmia, nella raccolta delle mele e delle olive. Se questa dovesse essere interrotta, ci sarebbe il rischio di vedere marcire i frutti sugli alberi e le coltivazioni. «Per garantire l'adeguata copertura degli organici necessari a salvare i raccolti», ha sottolineato Coldiretti, «è urgente introdurre strumenti flessibili, concordati con i sindacati, che consentano a percettori di ammortizzatori sociali, studenti e pensionati italiani di poter collaborare temporaneamente alle attività nei campi». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macchinosita-nei-controlli-e-problema-test-2655293215.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="quella-dei-tamponi-e-una-bomba-che-puo-far-collassare-il-sistema" data-post-id="2655293215" data-published-at="1634166186" data-use-pagination="False"> Quella dei tamponi è una bomba che può far collassare il sistema I farmacisti non hanno usato giri di parole sulle implicazioni che l'obbligo di green pass per i lavoratori potrebbe avere da domani, parlando di «bomba a orologeria». Le richieste di tamponi molecolari o antigenici, nelle prossime ore, saranno infatti nell'ordine delle decine di milioni. Ciò significa che non solo le farmacie non riusciranno a far fronte a tale richiesta, ma c'è il rischio serio di una paralisi anche delle attività ordinarie, come la vendita dei medicinali (sempre che questi riescano ad arrivare, dati i concomitanti problemi della logistica) e altri tipi di prestazioni. Sempre secondo stime in difetto, se solo sette milioni degli oltre otto milioni di cittadini non vaccinati facessero un test ogni 48 ore, il sistema collasserebbe, non essendo materialmente possibile fare in una manciata di giorni ciò che è stato fatto finora dall'inizio della pandemia. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macchinosita-nei-controlli-e-problema-test-2655293215.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="consegne-bloccate-e-ce-lincognita-dei-mezzi-pubblici" data-post-id="2655293215" data-published-at="1634166186" data-use-pagination="False"> Consegne bloccate. E c’è l’incognita dei mezzi pubblici Non solo il problema porti. Con l'entrata in vigore dell'obbligo di green pass, secondo stime in difetto fatte da operatori del settore, si rischia il blocco di 80.000 camion. Le stesse stime, infatti, parlando di un 30% di autisti sprovvisti della certificazione verde, e visto che le nuove norme prevedono che il camionista senza green pass non può transitare, non è difficile immaginare i riflessi che ciò potrebbe avere sulla grande distribuzione e sulla consegna di generi di prima necessità, come alimentari e medicinali. Tra gli autotrasportatori, inoltre, ce ne sono molti che provengono da Paesi (soprattutto dall'Europa orientale) in cui il vaccino cui si sono sottoposti non è riconosciuto dall'Ema, e quindi non può tradursi in green pass. Il rischio paralisi sarebbe determinato dall'allungamento dei tempi di attesa dovuto ai controlli, che si ripercuoterebbe poi su tutta la filiera, lasciando sguarniti i negozi e i mercati. Così come in quello delle merci, il problema sussiste anche nel trasporto delle persone, perché se è vero che nel trasporto pubblico locale non è necessario esibire il green pass da parte degli utenti, la certificazione da domani sarà necessaria per chi i mezzi pubblici dovrà condurli. Anche in questo caso, il rischio di un ulteriore rallentamento di un servizio già martoriato da tagli e inefficienze è dietro l'angolo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macchinosita-nei-controlli-e-problema-test-2655293215.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="il-controllo-del-territorio-con-il-30-di-uomini-in-meno" data-post-id="2655293215" data-published-at="1634166186" data-use-pagination="False"> Il controllo del territorio con il 30% di uomini in meno Con l'obbligo di green pass per le forze dell'ordine, a risultare indebolito potrebbe essere il controllo del territorio, visto che gli organici di polizia e carabinieri sono già drammaticamente sottodimensionati. In alcune città si stima che la percentuale dei non vaccinati tra le forze armate arrivi al 30 per cento, con tutte le implicazioni per la sicurezza nazionale. Tra l'altro, il Capo della polizia, Lamberto Giannini, ha diramato una circolare in base alla quale è frettolosamente corso ai ripari sulla questione della scadenza del green pass: i poliziotti cui dovesse scadere la certificazione durante un servizio potranno portare comunque al termine quest'ultimo. Ma le prevedibili difficoltà nel soddisfare la richiesta di tamponi potrebbero comunque impedire una copertura adeguata del territorio. Lo stesso ovviamente vale per i carabinieri e le altre forze armate, come hanno segnalato i sindacati di categoria, tra i quali Unarma.
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Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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