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2022-04-27
Ma quali decisioni prese con anticipo. Sulle mascherine ci dicono: «chissà»
(Ansa)
Domenica dovrebbe essere il giorno dell’addio alle mascherine al chiuso, però il governo tace. Il conto alla rovescia era partito il primo aprile, con la fine dello stato di emergenza e lo strascico di norme ancora in vigore, alla faccia della riapertura. Sapevamo che si doveva pazientare ancora un mese, prima di liberarci definitivamente del bavaglio imposto, quello che è non è mai stato chiaro è se alla fine il ministro della Salute riuscirà a imporre ancora una volta la sua linea «precauzionale».
Roberto Speranza l’ha detto più volte, che è troppo presto per appendere al chiodo la maschera dei guerrieri anti Covid perché «la circolazione del virus nel nostro Paese è ancora alta», ma fingeva sempre di aspettare il parere della cabina di regia, prima di emettere una decisione. Per il ministro, potremmo passare l’estate tra mezze chiusure e con il volto ancora coperto, così da non dimenticarci un istante del Covid ed essere pronti per le nuove restrizioni che ha in mente per l’autunno.
Ma non si tratta solo di scontentare o meno cittadini ansiosi di tornare a una meritata normalità, pur consapevoli che il virus non è scomparso. Tenere così in sospeso esercenti, gestori di impianti, negozianti che non sanno quali regole dovranno applicare dal 1 maggio, guarda caso giorno festivo, non è una scelta rispettosa. Eppure il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nelle dichiarazioni programmatiche del 17 febbraio 2021, quando chiese la fiducia al Senato, rivolgendo un pensiero «a tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato, a coloro che lavorano nelle attività più colpite o fermate per motivi sanitari», fece una precisa promessa. «Ci impegniamo a informare i cittadini con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole», assicurò il neo premier. Non è ciò che sta accadendo, in questo vergognoso tiramolla sulle mascherine. Spariranno da ristoranti e supermercati, ma solo per i clienti e non il personale, mentre resteranno per cinema, teatri discoteche almeno fino a fine maggio? Proseguiranno sui mezzi pubblici e nei luoghi di lavoro dove c’è condivisione di spazi? Restiamo sempre sul piano delle ipotesi, il governo non prende una posizione netta, lascia scorrere le lancette dell’orologio per poi fare una comunicazione a sorpresa. Magari sabato, giusto per creare nuovo caos, consultazioni febbrili su dove serviranno ancora le Ffp2 e dove basteranno invece quelle chirurgiche. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, a margine della presentazione del suo libro a Napoli, ieri ha detto: «Cambierà qualcosa». Ma cosa? A cinque giorni dalla scadenza, nulla ancora è certo. Ristoranti, negozi e bar non sanno ancora cosa dovranno dire ai clienti, quali cartelli devono preparare per le ultime, raffazzonate, decisioni in tema di contenimento del virus, che invece circola e diventa endemico. Così, mentre perfino la Turchia ha tolto l’obbligo di mascherina al chiuso, mantenendolo solo sui trasporti pubblici e nei centri medici, l’Italia rimane ad aspettare che i tecnici di Speranza esaminino i dati di positivi, ospedalizzati e morti per poi far conoscere le intenzioni del ministro.
Già le stanno anticipando in molti. «Serve ancora la massima prudenza», ripete il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri. Dichiara che «dobbiamo abbandonare le mascherine», però le «continueremo a tenere sui mezzi di trasporto pubblico, in determinate situazioni, in determinati uffici». Bontà sua, si affretta a precisare che «poi le toglieremo anche lì», ma «abituiamoci a tenerle in tasca». Indicazioni vaghe, certezze scientifiche zero, assoluto disinteresse per le esigenze dei cittadini.
E se l’infettivologo Matteo Bassetti è convinto, inascoltato, che «la mascherina deve passare da essere un obbligo a essere un presidio utilizzato in modo appropriato, quando però serve», chiusurista rimane Massimo Andreoni, primario di infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali. «Tenere la mascherina al chiuso anche a maggio non è un dramma», ha dichiarato, «visto che, praticamente, è l’unica misura rimasta e, visti i dati dei contagi, c’è un rischio che, togliendo l’obbligo, si apra al liberi tutti».
Chissà come mai, queste virostar, mettono tanto impegno a rendere odiosa l’espressione «liberi tutti». Vige il rifiuto di considerare necessario il ritorno alla normalità, per vivere e non sopravvivere, quindi ogni riferimento a libertà individuali ha connotazioni negative, di generale irresponsabilità. Nessuno, di questi esperti, si scandalizza perché arriveremo al 30 aprile sapendo solo all’ultimo quali restrizioni verranno tolte, quali rimarranno, invece di avere date e provvedimenti certi.
Sappiamo che, in classe, la mascherina resterà fino al termine dell’anno scolastico, anche in questo caso senza guardare quello che fanno negli altri Paesi Ue. Speriamo che davvero, da domenica, il certificato verde non serva più per entrare nei luoghi pubblici ma soprattutto al lavoro, però dobbiamo accontentarci di mezze frasi, congetture sulla permanenza dell’obbligo di utilizzo dei mezzi di protezione respiratoria individuale. Alle imprese, ai commercianti, a quanti svolgono un’attività Draghi promise: «Ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni». Invece siamo ancora ad aspettare l’ennesimo decreto, o un’ordinanza di Speranza.
«Cure domiciliari precoci efficaci»
Il trattamento precoce a domicilio con antinfiammatori non steroidei (Fans) riduce la durata dei sintomi, l’ospedalizzazione e la mortalità per Covid-19, anche negli over 50. Arriva dal nuovo studio appena pubblicato nella rivista American Journal of Biomedical Science and Research dai medici del Comitato cura domiciliare Covid 19 un’altra spallata alla strategia del paracetamolo e vigile attesa, sostenuta dal ministero della Salute Roberto Speranza sin dall’inizio della pandemia e mai praticamente abbandonata, anche se poco coerente con la prassi medica di curare infezioni non note con farmaci utili a contrastarne i segnali fisiopatologici (infiammazione, per il Covid 19). Secondo lo studio, somministrare dei Fans di uso comune, entro 72 ore, dalla comparsa dei sintomi lievi-moderati, riduce di quasi il 70% l’ospedalizzazione. Sono praticamente i tempi (3-5 giorni) raccomandati anche per i più costosi, e difficili da reperire, anticorpi monoclonali approvati per il Covid.
Purtroppo, come è accaduto anche per il plasma iperimmune, le soluzioni scientifiche semplici godono di scarsa stima a livello ministeriale. I dati, però, dello studio retrospettivo osservazionale condotto dai dottori Serafino Fazio, Sergio Grimaldi e Andrea Mangiagalli, medici del consiglio scientifico del Comitato, confermano quanto già dimostrato da altri lavori. Gli autori hanno considerato i dati di 966 pazienti maggiorenni non vaccinati, selezionati proprio per valutare l’impatto della cura in assenza di vaccinazione, trattati da alcuni medici del gruppo tra febbraio e dicembre 2021. Il protocollo di cura usato nel lavoro scientifico, approvato dal comitato etico dell’Asl 2 di Napoli, prevedeva la somministrazione di un antinfiammatorio (Fans) scelto tra ibuprofene, aspirina, nimesulide, indometacina e ketoprofene. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: il primo (561 persone) ha ricevuto il trattamento entro 72 ore dai sintomi, il secondo (405) dopo tre giorni. In entrambi i casi, la terapia ha ridotto di cinque giorni i disturbi, mentre i ricoveri sono calati del 68% nei trattati entro 3 giorni e del 63% dopo 72 ore.
Questi risultati sono stati confermati anche in un sottogruppo (339 pazienti) di over 50, con età media di 60 anni, più vulnerabili al Sars-Cov2. I sei decessi registrati hanno interessato solo il gruppo di ultracinquantenni con almeno una malattia già presente (comorbidità): uno (più di 80 anni con patologie pregresse) era del gruppo delle cure precoci, cinque erano delle terapie più tardive.
Tra i farmaci impiegati entro tre giorni dalla comparsa dei sintomi, sono risultati particolarmente efficaci, perché hanno determinato zero ospedalizzazioni, l’indometacina e la nimesulide. Secondo una nota degli autori, alla luce dei risultati della recente letteratura e a uno studio randomizzato e controllato verso paracetamolo, l’indometacina si può considerare il farmaco di scelta. A tale proposito, il Comitato cura domiciliare attende da due anni di realizzare uno studio randomizzato, già approvato dall’Agenzia del farmaco (Aifa) sull’efficacia dei Fans, con però il paracetamolo, di scelta nelle linee guida ministeriali, come cura nel gruppo di controllo, «per dimostrarne la definitiva inefficacia, se non forse pericolosità», precisa Erich Grimaldi, avvocato e presidente del Comitato, che aggiunge: «Il ministero della Salute deve comprendere che la battaglia contro il virus non si potrà mai vincere con un’unica arma, soprattutto se non efficace sulle continue varianti», come nel caso di alcuni monoclonali che non funzionano contro Omicron.
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Domenica dovrebbe cadere l’obbligo al chiuso, ma il governo prende tempo e tergiversa: la decisione arriverà all’ultimo e creerà confusione. Le virostar nostrane vogliono che il bavaglio resti, ma pure la Turchia l’ha tolto.Lo conferma uno studio effettuato su 966 pazienti non vaccinati: gli anti infiammatori, se somministrati entro 72 ore dai sintomi, riducono di quasi il 70% le ospedalizzazioni.Lo speciale contiene due articoli.Domenica dovrebbe essere il giorno dell’addio alle mascherine al chiuso, però il governo tace. Il conto alla rovescia era partito il primo aprile, con la fine dello stato di emergenza e lo strascico di norme ancora in vigore, alla faccia della riapertura. Sapevamo che si doveva pazientare ancora un mese, prima di liberarci definitivamente del bavaglio imposto, quello che è non è mai stato chiaro è se alla fine il ministro della Salute riuscirà a imporre ancora una volta la sua linea «precauzionale». Roberto Speranza l’ha detto più volte, che è troppo presto per appendere al chiodo la maschera dei guerrieri anti Covid perché «la circolazione del virus nel nostro Paese è ancora alta», ma fingeva sempre di aspettare il parere della cabina di regia, prima di emettere una decisione. Per il ministro, potremmo passare l’estate tra mezze chiusure e con il volto ancora coperto, così da non dimenticarci un istante del Covid ed essere pronti per le nuove restrizioni che ha in mente per l’autunno. Ma non si tratta solo di scontentare o meno cittadini ansiosi di tornare a una meritata normalità, pur consapevoli che il virus non è scomparso. Tenere così in sospeso esercenti, gestori di impianti, negozianti che non sanno quali regole dovranno applicare dal 1 maggio, guarda caso giorno festivo, non è una scelta rispettosa. Eppure il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nelle dichiarazioni programmatiche del 17 febbraio 2021, quando chiese la fiducia al Senato, rivolgendo un pensiero «a tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato, a coloro che lavorano nelle attività più colpite o fermate per motivi sanitari», fece una precisa promessa. «Ci impegniamo a informare i cittadini con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole», assicurò il neo premier. Non è ciò che sta accadendo, in questo vergognoso tiramolla sulle mascherine. Spariranno da ristoranti e supermercati, ma solo per i clienti e non il personale, mentre resteranno per cinema, teatri discoteche almeno fino a fine maggio? Proseguiranno sui mezzi pubblici e nei luoghi di lavoro dove c’è condivisione di spazi? Restiamo sempre sul piano delle ipotesi, il governo non prende una posizione netta, lascia scorrere le lancette dell’orologio per poi fare una comunicazione a sorpresa. Magari sabato, giusto per creare nuovo caos, consultazioni febbrili su dove serviranno ancora le Ffp2 e dove basteranno invece quelle chirurgiche. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, a margine della presentazione del suo libro a Napoli, ieri ha detto: «Cambierà qualcosa». Ma cosa? A cinque giorni dalla scadenza, nulla ancora è certo. Ristoranti, negozi e bar non sanno ancora cosa dovranno dire ai clienti, quali cartelli devono preparare per le ultime, raffazzonate, decisioni in tema di contenimento del virus, che invece circola e diventa endemico. Così, mentre perfino la Turchia ha tolto l’obbligo di mascherina al chiuso, mantenendolo solo sui trasporti pubblici e nei centri medici, l’Italia rimane ad aspettare che i tecnici di Speranza esaminino i dati di positivi, ospedalizzati e morti per poi far conoscere le intenzioni del ministro. Già le stanno anticipando in molti. «Serve ancora la massima prudenza», ripete il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri. Dichiara che «dobbiamo abbandonare le mascherine», però le «continueremo a tenere sui mezzi di trasporto pubblico, in determinate situazioni, in determinati uffici». Bontà sua, si affretta a precisare che «poi le toglieremo anche lì», ma «abituiamoci a tenerle in tasca». Indicazioni vaghe, certezze scientifiche zero, assoluto disinteresse per le esigenze dei cittadini. E se l’infettivologo Matteo Bassetti è convinto, inascoltato, che «la mascherina deve passare da essere un obbligo a essere un presidio utilizzato in modo appropriato, quando però serve», chiusurista rimane Massimo Andreoni, primario di infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali. «Tenere la mascherina al chiuso anche a maggio non è un dramma», ha dichiarato, «visto che, praticamente, è l’unica misura rimasta e, visti i dati dei contagi, c’è un rischio che, togliendo l’obbligo, si apra al liberi tutti». Chissà come mai, queste virostar, mettono tanto impegno a rendere odiosa l’espressione «liberi tutti». Vige il rifiuto di considerare necessario il ritorno alla normalità, per vivere e non sopravvivere, quindi ogni riferimento a libertà individuali ha connotazioni negative, di generale irresponsabilità. Nessuno, di questi esperti, si scandalizza perché arriveremo al 30 aprile sapendo solo all’ultimo quali restrizioni verranno tolte, quali rimarranno, invece di avere date e provvedimenti certi. Sappiamo che, in classe, la mascherina resterà fino al termine dell’anno scolastico, anche in questo caso senza guardare quello che fanno negli altri Paesi Ue. Speriamo che davvero, da domenica, il certificato verde non serva più per entrare nei luoghi pubblici ma soprattutto al lavoro, però dobbiamo accontentarci di mezze frasi, congetture sulla permanenza dell’obbligo di utilizzo dei mezzi di protezione respiratoria individuale. Alle imprese, ai commercianti, a quanti svolgono un’attività Draghi promise: «Ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni». 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Arriva dal nuovo studio appena pubblicato nella rivista American Journal of Biomedical Science and Research dai medici del Comitato cura domiciliare Covid 19 un’altra spallata alla strategia del paracetamolo e vigile attesa, sostenuta dal ministero della Salute Roberto Speranza sin dall’inizio della pandemia e mai praticamente abbandonata, anche se poco coerente con la prassi medica di curare infezioni non note con farmaci utili a contrastarne i segnali fisiopatologici (infiammazione, per il Covid 19). Secondo lo studio, somministrare dei Fans di uso comune, entro 72 ore, dalla comparsa dei sintomi lievi-moderati, riduce di quasi il 70% l’ospedalizzazione. Sono praticamente i tempi (3-5 giorni) raccomandati anche per i più costosi, e difficili da reperire, anticorpi monoclonali approvati per il Covid. Purtroppo, come è accaduto anche per il plasma iperimmune, le soluzioni scientifiche semplici godono di scarsa stima a livello ministeriale. I dati, però, dello studio retrospettivo osservazionale condotto dai dottori Serafino Fazio, Sergio Grimaldi e Andrea Mangiagalli, medici del consiglio scientifico del Comitato, confermano quanto già dimostrato da altri lavori. Gli autori hanno considerato i dati di 966 pazienti maggiorenni non vaccinati, selezionati proprio per valutare l’impatto della cura in assenza di vaccinazione, trattati da alcuni medici del gruppo tra febbraio e dicembre 2021. Il protocollo di cura usato nel lavoro scientifico, approvato dal comitato etico dell’Asl 2 di Napoli, prevedeva la somministrazione di un antinfiammatorio (Fans) scelto tra ibuprofene, aspirina, nimesulide, indometacina e ketoprofene. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: il primo (561 persone) ha ricevuto il trattamento entro 72 ore dai sintomi, il secondo (405) dopo tre giorni. In entrambi i casi, la terapia ha ridotto di cinque giorni i disturbi, mentre i ricoveri sono calati del 68% nei trattati entro 3 giorni e del 63% dopo 72 ore. Questi risultati sono stati confermati anche in un sottogruppo (339 pazienti) di over 50, con età media di 60 anni, più vulnerabili al Sars-Cov2. I sei decessi registrati hanno interessato solo il gruppo di ultracinquantenni con almeno una malattia già presente (comorbidità): uno (più di 80 anni con patologie pregresse) era del gruppo delle cure precoci, cinque erano delle terapie più tardive. Tra i farmaci impiegati entro tre giorni dalla comparsa dei sintomi, sono risultati particolarmente efficaci, perché hanno determinato zero ospedalizzazioni, l’indometacina e la nimesulide. Secondo una nota degli autori, alla luce dei risultati della recente letteratura e a uno studio randomizzato e controllato verso paracetamolo, l’indometacina si può considerare il farmaco di scelta. A tale proposito, il Comitato cura domiciliare attende da due anni di realizzare uno studio randomizzato, già approvato dall’Agenzia del farmaco (Aifa) sull’efficacia dei Fans, con però il paracetamolo, di scelta nelle linee guida ministeriali, come cura nel gruppo di controllo, «per dimostrarne la definitiva inefficacia, se non forse pericolosità», precisa Erich Grimaldi, avvocato e presidente del Comitato, che aggiunge: «Il ministero della Salute deve comprendere che la battaglia contro il virus non si potrà mai vincere con un’unica arma, soprattutto se non efficace sulle continue varianti», come nel caso di alcuni monoclonali che non funzionano contro Omicron.
Ansa
Suo figlio, Naveed Akram, 24 anni, è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza della polizia. Le piste investigative principali restano due. Da un lato, la cosiddetta pista iraniana, ritenuta plausibile da ambienti israeliani; dall’altro, l’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato islamico, avanzata da alcuni media, anche se l’organizzazione jihadista - che solitamente rivendica con rapidità le proprie azioni - non ha diffuso alcun messaggio di rivendicazione. Un elemento rilevante emerso dalle indagini è il ritrovamento, nell’auto di Naveed Akram, di una bandiera nera del califfato e di ordigni poi disinnescati dagli artificieri.
In attesa di chiarire chi vi sia realmente dietro la strage di Hanukkah, quanto accaduto domenica in Australia non appare come un evento isolato o imprevedibile. Al contrario, si inserisce in una lunga scia di attacchi e intimidazioni antisemite contro la comunità ebraica e le sue istituzioni. Più in generale, rappresenta l’esito di almeno vent’anni di progressiva penetrazione jihadista nel Paese. A dimostrarlo sono anche i numeri dei foreign fighter australiani: circa 200 cittadini avrebbero raggiunto, tra il 2011 e il 2019, la Siria e l’Iraq per unirsi a organizzazioni jihadiste come lo Stato islamico e il Fronte Al Nusra. In Australia, per motivi incomprensibili le autorità non monitorano da anni ambienti di culto radicalizzati dove si inneggia ad Al Qaeda, Isis, Hamas, Hezbollah e Iran, alimentando un clima di radicalizzazione che ha prodotto gravi conseguenze.
Tra i principali predicatori radicali figura Wisam Haddad, noto anche come Abu Ousayd, leader spirituale di una rete pro Isis, individuata da un’inchiesta della Abc. Nonostante fosse sotto osservazione da decenni, non è mai stato formalmente accusato di terrorismo, un’anomalia che evidenzia l’inerzia dello Stato. Haddad feroce antisemita, predica una visione intransigente della Sharia, rifiutando il concetto di Stato e nazionalismo, attirando giovani radicalizzati e facilmente manipolabili. La sua rete ha contribuito al passaggio dalla radicalizzazione verbale al reclutamento operativo. Uno degli attori chiave di questa rete è Youssef Uweinat, ex reclutatore dell’Isis. Conosciuto come Abu Musa Al Maqdisi, ha adescato minorenni australiani, spingendoli alla violenza tramite chat criptate e propaganda jihadista, con messaggi espliciti, immagini di decapitazioni e video di bambini addestrati all’uso delle armi. Condannato nel 2019, Uweinat è stato rilasciato nel 2023 senza misure di sorveglianza severe e ha riallacciato i contatti con Haddad. Inoltre, Uweinat faceva parte di una cellula Isis infiltrata da una fonte dell’Asio, l’intelligence australiana, che ha documentato i piani di attacco e i legami con jihadisti all’estero.
Anche Joseph Saadieh, ex leader giovanile dell’ Al Madina Dawah Centre, ha fatto parte della rete. Arrestato nel 2021 con prove di supporto all’Isis, è stato rilasciato dopo un patteggiamento per un reato minore. L’inchiesta Abc riporta inoltre il ritorno di figure storiche del jihadismo australiano, come Abdul Nacer Benbrika, condannato per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, presunto leader di una cellula Isis a Sydney. Questi ritorni indicano un tentativo di rilancio della rete jihadista. Secondo l’Asio, l’Isis ha recuperato capacità operative, aumentando il rischio di attentati in Australia. Tuttavia, nonostante l’allarme lanciato dalle agenzie, lo Stato australiano non sembra in grado di fermare le figure chiave del jihadismo domestico. Haddad continua a predicare liberamente, nonostante accuse di incitamento all’odio antisemita, e i suoi interlocutori principali sono ex detenuti per terrorismo senza misure di sorveglianza. Questo scenario solleva molti interrogativi sulla sostenibilità di una strategia che si limita a monitorare senza intervenire sui nodi ideologici e relazionali del jihadismo interno. La storia di Uweinat, Saadieh e altre figure simili suggerisce che la minaccia jihadista non emerge dal nulla, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza e sulla capacità dello Stato di affrontare la radicalizzazione interna in modo efficace. Tutto questo ridimensiona la retorica dell’Australia come Paese blindato, dove entrano solo «i migliori» e solo a determinate condizioni. La realtà racconta ben altro: reti jihadiste attive, predicatori radicali liberi di operare e militanti già condannati che tornano a muoversi senza alcun argine. Non si tratta di una falla nei controlli di frontiera, ma di una resa dello Stato sul fronte interno. La radicalizzazione è stata lasciata prosperare come testimoniano le recenti manifestazioni in cui simboli dell’Isis e di Al Qaeda sono stati mostrati senza conseguenze, rendendo il contesto ancora più esplosivo.
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Ansa
La polizia ha chiarito che gli attentatori erano padre e figlio. Si tratta di Sajid Akram, 50 anni, di origine pakistana, residente in Australia da molti anni, e di Naveed Akram, 24 anni, nato in Australia e residente nel sobborgo di Bonnyrigg, nella zona occidentale di Sydney. Secondo quanto riferito dagli investigatori, entrambi risultavano ideologicamente affiliati all’Isis e radicalizzati da tempo. Almeno uno dei due era noto ai servizi di sicurezza australiani, pur non essendo stato classificato come una minaccia imminente. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento delle forze dell’ordine, mentre il figlio Naveed è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza: verrà formalmente interrogato non appena le sue condizioni cliniche lo consentiranno. Le autorità stanno cercando di chiarire il ruolo di ciascuno dei due nella pianificazione dell’attacco e se vi siano stati fiancheggiatori o complici. Nel corso delle perquisizioni effettuate ieri in diversi quartieri di Sydney, in particolare a Bonnyrigg e Campsie, la polizia ha rinvenuto armi ed esplosivi all’interno dei veicoli utilizzati dagli attentatori. Gli ordigni sono stati neutralizzati dagli artificieri e non risulta che siano stati attivati. Un elemento che, secondo gli inquirenti, conferma come il piano fosse più articolato e mirasse a provocare un numero ancora maggiore di vittime. Restano sotto la lente d’ingrandimento anche le misure di sicurezza adottate per l’evento: si parla, infatti, di una sparatoria durata diversi minuti prima che la situazione venisse definitivamente messa sotto controllo. Il che non può che sollevare numerosi interrogativi sulla tempestività dell’intervento e sull’adeguatezza dei controlli preventivi.
La strage, non a caso, ha fatto piovere parecchie critiche addosso al governo laburista guidato da Anthony Albanese, accusato dalle opposizioni e da parte della comunità ebraica di non aver rafforzato la protezione di un evento sensibile malgrado l’aumento degli episodi di antisemitismo registrati negli ultimi mesi in Australia. L’esecutivo ha espresso cordoglio e solidarietà, ma si trova ora a dover rispondere all’accusa di aver sottovalutato il pericolo. Albanese, intanto, ha annunciato una riunione straordinaria del National cabinet per discutere misure urgenti in materia di sicurezza e di controllo delle armi, mentre il governo del Nuovo Galles del Sud ha disposto un rafforzamento immediato della vigilanza attorno a sinagoghe, scuole e centri ebraici.
Numerose le reazioni anche dall’estero. Il premier italiano, Giorgia Meloni, ha condannato l’attentato parlando di «un atto vile e barbaro di terrorismo antisemita» e ribadendo che «l’Italia è al fianco della comunità ebraica e dell’Australia nella lotta contro ogni forma di odio e fanatismo». Parole di ferma condanna sono arrivate anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in un messaggio ufficiale ha espresso «profondo cordoglio per le vittime innocenti» e ha sottolineato come «la violenza terroristica, alimentata dall’odio antisemita, rappresenti una minaccia per i valori fondamentali delle nostre democrazie».
Intanto, a Bondi Beach e in altre città australiane, si moltiplicano veglie e momenti di raccoglimento in memoria delle vittime. Molte iniziative pubbliche legate alla festività di Hanukkah sono state annullate o trasformate in cerimonie di lutto, mentre resta alta l’allerta delle forze di sicurezza in vista dei prossimi giorni.
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