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2021-03-15
L’ultimo flop degli uffici pubblici
iStock
Un altro appuntamento con l'innovazione è stato mancato. La pubblica amministrazione non è riuscita a rispettare la scadenza del 28 febbraio che avrebbe dovuto segnare l'ingresso nella modernità. Entro questa data, tutti gli enti pubblici avrebbero dovuto accettare l'identità digitale con Spid, la carta d'identità elettronica Cie, il PagoPa, il sistema di pagamento elettronico e avviare la transizione di tutti i servizi sull'app Io, quella diventata famosa con l'operazione cashback. Ma appena 5.737 amministrazioni su 23.000 sono risultate pronte. Solo 42 enti hanno adottato la carta di identità elettronica (Cie) come chiave di accesso. Anche là dove è stata rispettata la scadenza, la digitalizzazione è parziale e soltanto le attività principali sono accessibili con Id digitali.
Meno di 6 enti su 10 dispongono di almeno un servizio attivo con PagoPa. Inoltre per accedere, i cittadini devono avere l'identità Spid o la carta d'identità elettronica Cie e per molti non è così semplice ottenerli. Lo Spid va attivato con procedure poco agevoli soprattutto per gli anziani ma anche per chi ha scarsa dimestichezza con i mezzi informatici, mentre per la Cie molti Comuni danno appuntamenti al prossimo anno. Non è la prima volta che gli enti non riescono a rispettare la scadenza. Già nel 2018 si era resa necessaria una proroga.
Sono inadempienti la maggior parte delle scuole e numerosi ospedali che, se aprissero all'innovazione tecnologica, alleggerirebbero di molto il lavoro degli uffici amministrativi e aiuterebbero le famiglie alle prese con i bollettini per le tasse scolastiche e, nel caso degli ambulatori, con le file agli sportelli per prenotare le visite mediche o gli esami diagnostici. Visto l'esito, la data del 28 febbraio è risultata un obiettivo eccessivamente ambizioso. Forse nemmeno il governo ha mai creduto che sarebbe stato rispettato.
Il gap tra le promesse di una pubblica amministrazione che dialoga sempre online e il rapporto quotidiano con gli uffici fatto ancora di carte, raccomandate e file agli sportelli, resta ampio. Per la transizione digitale erano stati stanziati dal ministero dell'Innovazione tecnologica 43 milioni che, divisi per 23.000 amministrazioni, fa 1.870 euro ciascuna. Briciole. Contributi più importanti arriveranno con il Recovery fund visto che il piano europeo prevede un capitolo dedicato proprio alla modernizzazione della pubblica amministrazione. Nel nuovo ciclo di programmazione della Ue per il periodo 2021-2027 ci sono in ballo 1.800 miliardi di euro, la maggior quantità di finanziamenti mai varati. L'Italia potrà beneficiare di oltre 100 miliardi già dal 2021. Oltre 40 miliardi per le politiche di coesione, circa 65,5 miliardi a fondo perduto per il piano ripresa e resilienza. Per l'amministrazione pubblica è l'occasione d'oro per agganciare il futuro.
Il problema però è che gli enti locali devono essere pronti per fare progetti e quindi spendere. L'esperienza, anche più recente, dimostra che non è per niente facile. L'Osservatorio agenda digitale del Politecnico di Milano riporta che una gara pubblica in tecnologie digitali è assegnata in circa 4,5 mesi dopo la scadenza delle offerte. Solo il 49% delle gare è assegnato in meno di 100 giorni. Sono tempi troppo lunghi per l'innovazione tecnologica. Il mercato degli acquisti digitali della pubblica amministrazione vale 5,8 miliardi (l'8% del settore nazionale) e appena il 15% dei fornitori di tecnologie lavora con questo settore.
Le gare pubbliche sono gestite in modo da evitare contenziosi e spesso, per paura di incorrere nel danno erariale, le amministrazioni preferiscono non fare progetti. La normativa, complicata e in continua evoluzione, non offre un quadro di certezze. L'Osservatorio agenda digitale sottolinea che il codice dei contratti pubblici non è ancora pienamente operativo perché sono stati adottati solo 24 dei 45 provvedimenti attuativi, necessari per farlo funzionare.
L'Europa ha messo a disposizione del nostro Paese per l'attuazione dell'agenda digitale, nella programmazione 2014-2020, fondi per 3,6 miliardi di euro ma ne sono stati spesi appena il 34,5%. Il 57% delle risorse è gestito dalle Regioni ma solo Puglia (81%), Val d'Aosta (68%) e Lazio (58%) ne hanno impiegato più del 50% mentre quella che ha ottenuto (373 milioni) e speso (162 milioni) la maggior parte delle risorse è la Sicilia.
Con l'indice Desi (Digital economy and society index), la Commissione europea ha misurato il fiato corto dell'innovazione italiana per l'erogazione di servizi online: siamo venticinquesimi su 28, riusciamo a metterci alle spalle solo Bulgaria, Grecia e Romania ma non sappiamo tenere il passo di Polonia, Ungheria, Cipro o Portogallo, per non parlare di Danimarca, Svezia e Finlandia che occupano il podio o di Germania e Francia che dovrebbero essere i nostri concorrenti, ma ci superano in fatto di utilizzo di Internet, connettività, integrazione e servizi digitali. L'Italia risulta divisa in due con sensibili differenze tra Nord e Sud. Lombardia, Lazio e Provincia autonoma di Trento sono le più digitali, mentre in coda si collocano Sicilia, Molise e Calabria.
Secondo l'Osservatorio agenda digitale, il nostro Paese registra «i peggiori posizionamenti nelle competenze digitali e nell'uso di internet». Le restrizioni imposte dalla pandemia con la chiusura di molti uffici e la diffusione dello smart working hanno diffuso la consapevolezza dell'importanza di avere un dialogo online efficiente con la pubblica amministrazione. Ma è anche emersa l'inadeguatezza della Pa alla domanda di più tecnologia per mancanza di competenze e per gli scarsi investimenti.
L'Italia è tra gli ultimi Paesi in Europa per copertura di banda larga fissa. A metà 2019 il 78% delle abitazioni è stato raggiunto da almeno 30 mbps e il 61% da 100 mbps. La sfida è di arrivare a breve a coprire tutto il territorio. Inoltre bisogna migliorare l'utilizzo. L'anno scorso solo il 31% delle abitazioni usava una connessione ad almeno 30 mbps e il 13% usava i 100 mbps. Tra i Comuni la fibra ottica è diffusa nel 32% degli enti. Perché stupirsi, quindi, se lo Spid continua a essere poco conosciuto?
«Nessuno pensa alle piccole realtà»
«Agganciarsi alla piattaforma PagoPa, veicolare i servizi di pagamento su un unico sistema nazionale, non è come spingere un bottone. L'attenzione finora è stata focalizzata sulla digitalizzazione a livello nazionale ma poco è stato fatto sul territorio. I sindaci si sono mossi in ordine sparso, ciascuno innovando per proprio conto i servizi dal punto di vista tecnologico. Il risultato è che ci sono situazioni eterogenee e ora è complicato confluire sull'unica piattaforma PagoPa». Alessandro Canelli ha seguito in prima linea il processo di digitalizzazione dei Comuni in quanto sindaco di Novara e presidente dell'Istituto per la finanza e l'economia locale dell'Anci, l'Associazione dei Comuni italiani.
Che cosa ha impedito agli enti locali di rispettare la scadenza del 28 febbraio per veicolare i servizi di pagamento su PagoPa? Per Canelli «le situazioni sono diverse. Esistono realtà grandi dotate di mezzi economici, competenze e personale per affrontare la trasformazione tecnologica, ma la maggior parte fa fatica. È mancato un sostegno dello Stato. L'attenzione si è concentrata sulle amministrazioni centrali, mentre quelle periferiche sono state abbandonate».
Finora i Comuni si sono organizzati in ordine sparso, e probabilmente non si poteva fare diversamente vista la mancanza di un coordinamento nazionale. «Ognuno ha software diversi per i pagamenti», conferma Canelli, «che ora devono essere adattati per poi agganciarsi alla piattaforma PagoPa. Questo procedimento prevede una serie di passaggi intermedi che non sono banali. Non basta schiacciare un bottone».
Per esempio, quando si entra nel sito del Comune di Novara, la città di Canelli, ci si collega alla piattaforma PiemontePay. «Noi abbiamo attivato il pagamento digitale per le lampade votive cimiteriali ed è in corso di sviluppo quello relativo ai rapporti tra amministrazione e aziende», spiega il sindaco. «Questa realtà fa capire che bisognerebbe armonizzare i diversi software e i Comuni devono essere accompagnati in questo percorso».
Nonostante questi problemi, è stata confermata una scadenza molto ravvicinata. «È il problema che l'Anci ha sottolineato presentando un emendamento al decreto Milleproroghe», dice Canelli. «Abbiamo chiesto di posticipare il termine ultimo almeno a fine anno ma non se ne è fatto nulla. E il risultato ce l'abbiamo davanti». Servono forse più soldi? «I fondi europei vanno alle amministrazioni centrali», dice il delegato Anci. «Ci auguriamo che una quota dei finanziamenti del Recovery fund sia destinata alla digitalizzazione dei Comuni. Bisogna lavorare molto sulla formazione dei dipendenti comunali e sulla informazione dei cittadini. Per circa otto anni le amministrazioni hanno sofferto il blocco del turnover. Abbiamo perso il 20% del personale e chi è in servizio ha un'età avanzata».
Canelli nega che esistano resistenze alle nuove tecnologie perché si temono tagli di posti: «Tutt'altro. Le nuove tecnologie tolgono dagli sportelli personale che può essere posizionato su altri servizi in difficoltà. Ci guadagnano tutti: il pubblico, i dipendenti delle amministrazioni e le amministrazioni stesse».
«Scadenze ignorate? Mi sorprende che qualcuno le abbia rispettate...»
«Perché stupirsi se solo 6.300 enti pubblici su 20.000 hanno attivato l'accesso ai servizi con Spid, il sistema di identità digitale, e Cie, la carta di identità elettronica? Considerando come è strutturata la pubblica amministrazione, io lo considero quasi un miracolo». Ironia o analisi della situazione? Luca Gastaldi, direttore dell'Osservatorio agenda digitale e dell'Osservatorio digital identity del Politecnico di Milano, è pungente: «Quando un sistema come quello della pubblica amministrazione si dà regole complicate e quindi inapplicabili, quando l'età media dei dipendenti è alta e manca la formazione, quando gli enti non dialogano tra loro, non mi meraviglio se pochi Comuni hanno tagliato il traguardo previsto dal decreto Semplificazioni. Sono piuttosto sorpreso che siano così numerosi».
Spid, PagoPa, carta di identità elettronica raggiungono pochi cittadini. Come mai questo ritardo? Non è la prima volta che viene fissata una scadenza per svecchiare il sistema.
«Se non è stato attivato l'accesso allo Spid è perché gran parte dei servizi delle pubbliche amministrazioni non sono digitalizzati».
Come mai la digitalizzazione dei servizi procede a rilento? Si potrebbero risparmiare soldi e tempo.
«Ci sono una serie di ragioni. La prima è di natura strutturale: in Italia ci sono circa 20.000 amministrazioni, di cui 8.000 Comuni e altrettante scuole. Il 75% dei Comuni ha meno di 5.000 abitanti e meno di 5 dipendenti. Per costoro la digitalizzazione dei servizi non è la priorità, devono occuparsi di mille altre questioni. Inoltre mancano le competenze. I piccoli enti sono condannati al nanismo digitale».
Comuni piccoli e con scarse competenze, come si superano questi ostacoli?
«Basterebbe che i piccoli Comuni si aggregassero o comunicassero di più tra loro».
Non è anche un problema di fondi? Il ministro dell'Innovazione, Vittorio Colao, ha detto che bisognerebbe investire di più.
«Non è vero che non ci sono i soldi. L'Europa mette a disposizione parecchi fondi per accelerare la trasformazione digitale pubblica: in media ogni anno è a disposizione più di 1 miliardo di euro. Ma per ottenere i finanziamenti bisogna presentare i progetti e poi rendicontarli quando sono ultimati. Ma le amministrazioni hanno scarsa competenza anche nella progettazione».
Se non riescono a trovar competenze al loro interno, non potrebbero servirsi di aziende private?
«Non è facile. La normativa su queste collaborazioni è complicata. Il codice degli appalti, oltre che essere pensato più per le strade che per le infrastrutture digitali, è oggetto di continue revisioni, così le amministrazioni pubbliche per paura di sbagliare e incorrere nel danno erariale, preferiscono non decidere. Le norme sono incompatibili con i tempi del digitale: andrebbe rivisto l'impianto legislativo. Mancano 50 provvedimenti attuativi».
Non c'è anche scarsa richiesta di servizi digitali? Gli italiani sono poco tecnologici e piuttosto diffidenti verso questi nuovi sistemi.
«È vero. Il nostro Paese è ultimo in Europa per diffusione delle competenze digitali. Siamo attaccati tutto il giorno a Facebook ma non siamo in grado di riconoscere una fake news, di accedere a un conto corrente online, di utilizzare i dispositivi tecnologici. Il cittadino quando deve fruire di un servizio pubblico si reca direttamente allo sportello senza prima domandarsi se c'è alternativa digitale».
Con il Covid però qualcosa è cambiato: lo abbiamo visto per la didattica a distanza.
«È di sicuro aumentata la consapevolezza che è necessaria un'amministrazione più digitale e si è anche scoperto che la banda larga è poco diffusa. Tante aree del Paese non sono coperte. C'è però un altro aspetto che è conseguenza della scarsa competenza».
Quale?
«Quando le Pa introducono il digitale non ripensano i loro servizi. Si limitano a mettere online ciò che fino a quel momento avviene in presenza. Spesso i Comuni si rimpallano i documenti tramite mail quando basterebbe trasferire i dati su un unico registro digitale che sarebbe a disposizione di tutte le amministrazioni».
Allora chissà quante altre scadenze per la digitalizzazione saranno saltate, di questo passo.
«Non si può pretendere che tutto cambi all'improvviso. Ci muoviamo in una situazione complicata che richiede tempo. Un grande passo in avanti è stato fatto con la definizione di un piano triennale per l'informatica nel quale si indica la strategia di digitalizzazione del Paese. Ora sappiamo dove dobbiamo andare. Per risolvere il problema strutturale che molte Pa sono piccole si è deciso di gestire centralmente alcune attività: Spid, carta d'identità elettronica, PagoPa. Con Immuni e soprattutto il cashback sono stati raggiunti risultati strabilianti: è bastato mettere in palio un po' di soldi e sono state superate molte perplessità legate alla privacy che invece avevano caratterizzato Immuni».
«No ai provvedimenti calati dall'alto»
«Non si può innovare per decreto, fissando scadenze che si sa in partenza che non potranno essere rispettate. Con la pandemia era impossibile che gli enti locali riuscissero a essere pronti per il 28 febbraio. Il problema principale della pubblica amministrazione è che i provvedimenti vengono calati dall'alto senza coinvolgere chi li deve applicare. Mancano sanzioni per gli enti inadempienti e così è facile bucare le date». Gianni Dominici è direttore generale del Forum della pubblica amministrazione, la società di servizi che accompagna amministrazioni e aziende pubbliche nei processi di cambiamento e innovazione. «Era facile prevedere che i Comuni non sarebbero stati pronti», dice. «Mentre per PagoPa cominciano a esserci diversi servizi, lo Spid è stato un appuntamento mancato».
La digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche italiane offre un panorama desolante: «Personale all'osso per il blocco del turnover, in 10 anni abbiamo perso mezzo milione di dipendenti pubblici; età media elevata, circa 54 anni; formazione zero: in media una giornata di aggiornamento l'anno mentre nel resto d'Europa sono più di 15. Poi pesa il campanilismo», dice Dominici. «Ogni Comune, soprattutto i più piccoli, pensa di poter procedere per conto proprio. Invece la digitalizzazione è collaborazione, è mettere insieme le competenze». Dominici porta l'esempio dei Consorzio dei Comuni del Trentino: «Riunisce 250 piccole realtà che da sole non ce la farebbero mai a fornire servizi online, mentre hanno una piattaforma dove, a costi irrisori, condividono le attività. La digitalizzazione è fatta da un fornitore e il server è del consorzio. Bisogna aggregarsi e ragionare in una logica di servizi condivisi».
Il Covid però ha accelerato la richiesta di servizi online. «A febbraio le identità Spid sono arrivate a oltre 17,5 milioni, quando erano 15,5 milioni a fine anno», conferma il direttore del Forum. «Le transazioni su PagoPa sfiorano i 28 milioni mentre a fine anno erano la metà. Con l'operazione cashback, oltre 10 milioni di italiani hanno scaricato l'app Io. La pandemia ha avvicinato gli italiani al digitale perché bisogna lavorare da remoto e anche la vaccinazione si fa con prenotazioni sul sito della Regione. I Comuni hanno capito che il digitale è la soluzione di tanti problemi».
Le resistenze nel Paese sono sempre meno, secondo Dominici: «Un sondaggio effettuato con l'istituto Piepoli ha rilevato che il 57% è favorevole alla digitalizzazione perché facilita e velocizza i servizi, mentre il 21% è contrario: il 13% non ha gli strumenti, l'8% le competenze. Il 6% ritiene che i servizi non siano cambiati mentre il 9% non si è accorto del mutamento tecnologico». Tuttavia, digitalizzare significa anche acquistare servizi informatici e fare i conti con la burocrazia degli appalti: «Questo è un ostacolo da superare. Per comprare un servizio le amministrazioni impiegano oltre un anno. Durante la pandemia, gli acquisiti sono stati possibili senza bandi di gara, ma quando si tornerà alla normalità bisognerà semplificare le procedure per evitare che il meccanismo si ingolfi di nuovo. Nel passaggio dall'emergenza alla ricostruzione, la digitalizzazione sarà fondamentale per la crescita».
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Entro il 28 febbraio tutte le amministrazioni, dai Comuni alle scuole agli ospedali, dovevano compiere tre adempimenti: introdurre la carta d'identità elettronica, accettare l'identità digitale con Spid ed entrare nel sistema PagoPa. L'hanno fatto 5.737 enti su 23.000. A ciascuno, per la digitalizzazione, il governo Conte aveva destinato meno di 1.900 euro: briciole.In mancanza di direttive e sostegni, i sindaci si sono mossi in ordine sparso. L'Anci: «Non c'è stato coordinamento, difficile recuperare per riallineare tutti i software».Il direttore dell'Osservatorio agenda digitale, Luca Gastaldi: «Questo sistema si è dato norme complicate e inapplicabili, ha impiegati anziani e non fa formazione. Bisogna che gli organismi più piccoli si convincano a collaborare»Il Forum Pa critica la riforma: non si può innovare per decreto senza coinvolgere chi deve applicare le nuove regole. Per gli inadempienti non sono previste sanzioni.Lo speciale contiene quattro articoli.Un altro appuntamento con l'innovazione è stato mancato. La pubblica amministrazione non è riuscita a rispettare la scadenza del 28 febbraio che avrebbe dovuto segnare l'ingresso nella modernità. Entro questa data, tutti gli enti pubblici avrebbero dovuto accettare l'identità digitale con Spid, la carta d'identità elettronica Cie, il PagoPa, il sistema di pagamento elettronico e avviare la transizione di tutti i servizi sull'app Io, quella diventata famosa con l'operazione cashback. Ma appena 5.737 amministrazioni su 23.000 sono risultate pronte. Solo 42 enti hanno adottato la carta di identità elettronica (Cie) come chiave di accesso. Anche là dove è stata rispettata la scadenza, la digitalizzazione è parziale e soltanto le attività principali sono accessibili con Id digitali. Meno di 6 enti su 10 dispongono di almeno un servizio attivo con PagoPa. Inoltre per accedere, i cittadini devono avere l'identità Spid o la carta d'identità elettronica Cie e per molti non è così semplice ottenerli. Lo Spid va attivato con procedure poco agevoli soprattutto per gli anziani ma anche per chi ha scarsa dimestichezza con i mezzi informatici, mentre per la Cie molti Comuni danno appuntamenti al prossimo anno. Non è la prima volta che gli enti non riescono a rispettare la scadenza. Già nel 2018 si era resa necessaria una proroga.Sono inadempienti la maggior parte delle scuole e numerosi ospedali che, se aprissero all'innovazione tecnologica, alleggerirebbero di molto il lavoro degli uffici amministrativi e aiuterebbero le famiglie alle prese con i bollettini per le tasse scolastiche e, nel caso degli ambulatori, con le file agli sportelli per prenotare le visite mediche o gli esami diagnostici. Visto l'esito, la data del 28 febbraio è risultata un obiettivo eccessivamente ambizioso. Forse nemmeno il governo ha mai creduto che sarebbe stato rispettato.Il gap tra le promesse di una pubblica amministrazione che dialoga sempre online e il rapporto quotidiano con gli uffici fatto ancora di carte, raccomandate e file agli sportelli, resta ampio. Per la transizione digitale erano stati stanziati dal ministero dell'Innovazione tecnologica 43 milioni che, divisi per 23.000 amministrazioni, fa 1.870 euro ciascuna. Briciole. Contributi più importanti arriveranno con il Recovery fund visto che il piano europeo prevede un capitolo dedicato proprio alla modernizzazione della pubblica amministrazione. Nel nuovo ciclo di programmazione della Ue per il periodo 2021-2027 ci sono in ballo 1.800 miliardi di euro, la maggior quantità di finanziamenti mai varati. L'Italia potrà beneficiare di oltre 100 miliardi già dal 2021. Oltre 40 miliardi per le politiche di coesione, circa 65,5 miliardi a fondo perduto per il piano ripresa e resilienza. Per l'amministrazione pubblica è l'occasione d'oro per agganciare il futuro. Il problema però è che gli enti locali devono essere pronti per fare progetti e quindi spendere. L'esperienza, anche più recente, dimostra che non è per niente facile. L'Osservatorio agenda digitale del Politecnico di Milano riporta che una gara pubblica in tecnologie digitali è assegnata in circa 4,5 mesi dopo la scadenza delle offerte. Solo il 49% delle gare è assegnato in meno di 100 giorni. Sono tempi troppo lunghi per l'innovazione tecnologica. Il mercato degli acquisti digitali della pubblica amministrazione vale 5,8 miliardi (l'8% del settore nazionale) e appena il 15% dei fornitori di tecnologie lavora con questo settore.Le gare pubbliche sono gestite in modo da evitare contenziosi e spesso, per paura di incorrere nel danno erariale, le amministrazioni preferiscono non fare progetti. La normativa, complicata e in continua evoluzione, non offre un quadro di certezze. L'Osservatorio agenda digitale sottolinea che il codice dei contratti pubblici non è ancora pienamente operativo perché sono stati adottati solo 24 dei 45 provvedimenti attuativi, necessari per farlo funzionare. L'Europa ha messo a disposizione del nostro Paese per l'attuazione dell'agenda digitale, nella programmazione 2014-2020, fondi per 3,6 miliardi di euro ma ne sono stati spesi appena il 34,5%. Il 57% delle risorse è gestito dalle Regioni ma solo Puglia (81%), Val d'Aosta (68%) e Lazio (58%) ne hanno impiegato più del 50% mentre quella che ha ottenuto (373 milioni) e speso (162 milioni) la maggior parte delle risorse è la Sicilia.Con l'indice Desi (Digital economy and society index), la Commissione europea ha misurato il fiato corto dell'innovazione italiana per l'erogazione di servizi online: siamo venticinquesimi su 28, riusciamo a metterci alle spalle solo Bulgaria, Grecia e Romania ma non sappiamo tenere il passo di Polonia, Ungheria, Cipro o Portogallo, per non parlare di Danimarca, Svezia e Finlandia che occupano il podio o di Germania e Francia che dovrebbero essere i nostri concorrenti, ma ci superano in fatto di utilizzo di Internet, connettività, integrazione e servizi digitali. L'Italia risulta divisa in due con sensibili differenze tra Nord e Sud. Lombardia, Lazio e Provincia autonoma di Trento sono le più digitali, mentre in coda si collocano Sicilia, Molise e Calabria. Secondo l'Osservatorio agenda digitale, il nostro Paese registra «i peggiori posizionamenti nelle competenze digitali e nell'uso di internet». Le restrizioni imposte dalla pandemia con la chiusura di molti uffici e la diffusione dello smart working hanno diffuso la consapevolezza dell'importanza di avere un dialogo online efficiente con la pubblica amministrazione. Ma è anche emersa l'inadeguatezza della Pa alla domanda di più tecnologia per mancanza di competenze e per gli scarsi investimenti.L'Italia è tra gli ultimi Paesi in Europa per copertura di banda larga fissa. A metà 2019 il 78% delle abitazioni è stato raggiunto da almeno 30 mbps e il 61% da 100 mbps. La sfida è di arrivare a breve a coprire tutto il territorio. Inoltre bisogna migliorare l'utilizzo. L'anno scorso solo il 31% delle abitazioni usava una connessione ad almeno 30 mbps e il 13% usava i 100 mbps. Tra i Comuni la fibra ottica è diffusa nel 32% degli enti. Perché stupirsi, quindi, se lo Spid continua a essere poco conosciuto?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lultimo-flop-degli-uffici-pubblici-2651061054.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nessuno-pensa-alle-piccole-realta" data-post-id="2651061054" data-published-at="1615751518" data-use-pagination="False"> «Nessuno pensa alle piccole realtà» «Agganciarsi alla piattaforma PagoPa, veicolare i servizi di pagamento su un unico sistema nazionale, non è come spingere un bottone. L'attenzione finora è stata focalizzata sulla digitalizzazione a livello nazionale ma poco è stato fatto sul territorio. I sindaci si sono mossi in ordine sparso, ciascuno innovando per proprio conto i servizi dal punto di vista tecnologico. Il risultato è che ci sono situazioni eterogenee e ora è complicato confluire sull'unica piattaforma PagoPa». Alessandro Canelli ha seguito in prima linea il processo di digitalizzazione dei Comuni in quanto sindaco di Novara e presidente dell'Istituto per la finanza e l'economia locale dell'Anci, l'Associazione dei Comuni italiani. Che cosa ha impedito agli enti locali di rispettare la scadenza del 28 febbraio per veicolare i servizi di pagamento su PagoPa? Per Canelli «le situazioni sono diverse. Esistono realtà grandi dotate di mezzi economici, competenze e personale per affrontare la trasformazione tecnologica, ma la maggior parte fa fatica. È mancato un sostegno dello Stato. L'attenzione si è concentrata sulle amministrazioni centrali, mentre quelle periferiche sono state abbandonate». Finora i Comuni si sono organizzati in ordine sparso, e probabilmente non si poteva fare diversamente vista la mancanza di un coordinamento nazionale. «Ognuno ha software diversi per i pagamenti», conferma Canelli, «che ora devono essere adattati per poi agganciarsi alla piattaforma PagoPa. Questo procedimento prevede una serie di passaggi intermedi che non sono banali. Non basta schiacciare un bottone». Per esempio, quando si entra nel sito del Comune di Novara, la città di Canelli, ci si collega alla piattaforma PiemontePay. «Noi abbiamo attivato il pagamento digitale per le lampade votive cimiteriali ed è in corso di sviluppo quello relativo ai rapporti tra amministrazione e aziende», spiega il sindaco. «Questa realtà fa capire che bisognerebbe armonizzare i diversi software e i Comuni devono essere accompagnati in questo percorso». Nonostante questi problemi, è stata confermata una scadenza molto ravvicinata. «È il problema che l'Anci ha sottolineato presentando un emendamento al decreto Milleproroghe», dice Canelli. «Abbiamo chiesto di posticipare il termine ultimo almeno a fine anno ma non se ne è fatto nulla. E il risultato ce l'abbiamo davanti». Servono forse più soldi? «I fondi europei vanno alle amministrazioni centrali», dice il delegato Anci. «Ci auguriamo che una quota dei finanziamenti del Recovery fund sia destinata alla digitalizzazione dei Comuni. Bisogna lavorare molto sulla formazione dei dipendenti comunali e sulla informazione dei cittadini. Per circa otto anni le amministrazioni hanno sofferto il blocco del turnover. Abbiamo perso il 20% del personale e chi è in servizio ha un'età avanzata». Canelli nega che esistano resistenze alle nuove tecnologie perché si temono tagli di posti: «Tutt'altro. 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Luca Gastaldi, direttore dell'Osservatorio agenda digitale e dell'Osservatorio digital identity del Politecnico di Milano, è pungente: «Quando un sistema come quello della pubblica amministrazione si dà regole complicate e quindi inapplicabili, quando l'età media dei dipendenti è alta e manca la formazione, quando gli enti non dialogano tra loro, non mi meraviglio se pochi Comuni hanno tagliato il traguardo previsto dal decreto Semplificazioni. Sono piuttosto sorpreso che siano così numerosi». Spid, PagoPa, carta di identità elettronica raggiungono pochi cittadini. Come mai questo ritardo? Non è la prima volta che viene fissata una scadenza per svecchiare il sistema. «Se non è stato attivato l'accesso allo Spid è perché gran parte dei servizi delle pubbliche amministrazioni non sono digitalizzati». Come mai la digitalizzazione dei servizi procede a rilento? Si potrebbero risparmiare soldi e tempo. «Ci sono una serie di ragioni. La prima è di natura strutturale: in Italia ci sono circa 20.000 amministrazioni, di cui 8.000 Comuni e altrettante scuole. Il 75% dei Comuni ha meno di 5.000 abitanti e meno di 5 dipendenti. Per costoro la digitalizzazione dei servizi non è la priorità, devono occuparsi di mille altre questioni. Inoltre mancano le competenze. I piccoli enti sono condannati al nanismo digitale». Comuni piccoli e con scarse competenze, come si superano questi ostacoli? «Basterebbe che i piccoli Comuni si aggregassero o comunicassero di più tra loro». Non è anche un problema di fondi? Il ministro dell'Innovazione, Vittorio Colao, ha detto che bisognerebbe investire di più. «Non è vero che non ci sono i soldi. L'Europa mette a disposizione parecchi fondi per accelerare la trasformazione digitale pubblica: in media ogni anno è a disposizione più di 1 miliardo di euro. Ma per ottenere i finanziamenti bisogna presentare i progetti e poi rendicontarli quando sono ultimati. Ma le amministrazioni hanno scarsa competenza anche nella progettazione». Se non riescono a trovar competenze al loro interno, non potrebbero servirsi di aziende private? «Non è facile. La normativa su queste collaborazioni è complicata. Il codice degli appalti, oltre che essere pensato più per le strade che per le infrastrutture digitali, è oggetto di continue revisioni, così le amministrazioni pubbliche per paura di sbagliare e incorrere nel danno erariale, preferiscono non decidere. Le norme sono incompatibili con i tempi del digitale: andrebbe rivisto l'impianto legislativo. Mancano 50 provvedimenti attuativi». Non c'è anche scarsa richiesta di servizi digitali? Gli italiani sono poco tecnologici e piuttosto diffidenti verso questi nuovi sistemi. «È vero. Il nostro Paese è ultimo in Europa per diffusione delle competenze digitali. Siamo attaccati tutto il giorno a Facebook ma non siamo in grado di riconoscere una fake news, di accedere a un conto corrente online, di utilizzare i dispositivi tecnologici. Il cittadino quando deve fruire di un servizio pubblico si reca direttamente allo sportello senza prima domandarsi se c'è alternativa digitale». Con il Covid però qualcosa è cambiato: lo abbiamo visto per la didattica a distanza. «È di sicuro aumentata la consapevolezza che è necessaria un'amministrazione più digitale e si è anche scoperto che la banda larga è poco diffusa. Tante aree del Paese non sono coperte. C'è però un altro aspetto che è conseguenza della scarsa competenza». Quale? «Quando le Pa introducono il digitale non ripensano i loro servizi. Si limitano a mettere online ciò che fino a quel momento avviene in presenza. Spesso i Comuni si rimpallano i documenti tramite mail quando basterebbe trasferire i dati su un unico registro digitale che sarebbe a disposizione di tutte le amministrazioni». Allora chissà quante altre scadenze per la digitalizzazione saranno saltate, di questo passo. «Non si può pretendere che tutto cambi all'improvviso. Ci muoviamo in una situazione complicata che richiede tempo. Un grande passo in avanti è stato fatto con la definizione di un piano triennale per l'informatica nel quale si indica la strategia di digitalizzazione del Paese. Ora sappiamo dove dobbiamo andare. Per risolvere il problema strutturale che molte Pa sono piccole si è deciso di gestire centralmente alcune attività: Spid, carta d'identità elettronica, PagoPa. Con Immuni e soprattutto il cashback sono stati raggiunti risultati strabilianti: è bastato mettere in palio un po' di soldi e sono state superate molte perplessità legate alla privacy che invece avevano caratterizzato Immuni». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lultimo-flop-degli-uffici-pubblici-2651061054.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="no-ai-provvedimenti-calati-dall-alto" data-post-id="2651061054" data-published-at="1615751518" data-use-pagination="False"> «No ai provvedimenti calati dall'alto» «Non si può innovare per decreto, fissando scadenze che si sa in partenza che non potranno essere rispettate. Con la pandemia era impossibile che gli enti locali riuscissero a essere pronti per il 28 febbraio. Il problema principale della pubblica amministrazione è che i provvedimenti vengono calati dall'alto senza coinvolgere chi li deve applicare. Mancano sanzioni per gli enti inadempienti e così è facile bucare le date». Gianni Dominici è direttore generale del Forum della pubblica amministrazione, la società di servizi che accompagna amministrazioni e aziende pubbliche nei processi di cambiamento e innovazione. «Era facile prevedere che i Comuni non sarebbero stati pronti», dice. «Mentre per PagoPa cominciano a esserci diversi servizi, lo Spid è stato un appuntamento mancato». La digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche italiane offre un panorama desolante: «Personale all'osso per il blocco del turnover, in 10 anni abbiamo perso mezzo milione di dipendenti pubblici; età media elevata, circa 54 anni; formazione zero: in media una giornata di aggiornamento l'anno mentre nel resto d'Europa sono più di 15. Poi pesa il campanilismo», dice Dominici. «Ogni Comune, soprattutto i più piccoli, pensa di poter procedere per conto proprio. Invece la digitalizzazione è collaborazione, è mettere insieme le competenze». Dominici porta l'esempio dei Consorzio dei Comuni del Trentino: «Riunisce 250 piccole realtà che da sole non ce la farebbero mai a fornire servizi online, mentre hanno una piattaforma dove, a costi irrisori, condividono le attività. La digitalizzazione è fatta da un fornitore e il server è del consorzio. Bisogna aggregarsi e ragionare in una logica di servizi condivisi». Il Covid però ha accelerato la richiesta di servizi online. «A febbraio le identità Spid sono arrivate a oltre 17,5 milioni, quando erano 15,5 milioni a fine anno», conferma il direttore del Forum. «Le transazioni su PagoPa sfiorano i 28 milioni mentre a fine anno erano la metà. Con l'operazione cashback, oltre 10 milioni di italiani hanno scaricato l'app Io. La pandemia ha avvicinato gli italiani al digitale perché bisogna lavorare da remoto e anche la vaccinazione si fa con prenotazioni sul sito della Regione. I Comuni hanno capito che il digitale è la soluzione di tanti problemi». Le resistenze nel Paese sono sempre meno, secondo Dominici: «Un sondaggio effettuato con l'istituto Piepoli ha rilevato che il 57% è favorevole alla digitalizzazione perché facilita e velocizza i servizi, mentre il 21% è contrario: il 13% non ha gli strumenti, l'8% le competenze. Il 6% ritiene che i servizi non siano cambiati mentre il 9% non si è accorto del mutamento tecnologico». Tuttavia, digitalizzare significa anche acquistare servizi informatici e fare i conti con la burocrazia degli appalti: «Questo è un ostacolo da superare. Per comprare un servizio le amministrazioni impiegano oltre un anno. Durante la pandemia, gli acquisiti sono stati possibili senza bandi di gara, ma quando si tornerà alla normalità bisognerà semplificare le procedure per evitare che il meccanismo si ingolfi di nuovo. Nel passaggio dall'emergenza alla ricostruzione, la digitalizzazione sarà fondamentale per la crescita».
Il grande direttore d'orchestra rilancia l'appello alla politica affinché trovi una via diplomatica per convincere la Francia a far tornare nella sua città natale il compositore fiorentino, che ora riposa al cimitero di Père-Lachaise. Il sogno? Dirigere il Requiem del genio toscano nella Basilica di Santa Croce, dove è già pronto il suo cenotafio.
Maurizio Landini (Ansa)
Nessun sindacalista lo ammetterà mai, ma c’è un dato che più di ogni altro fa da spartiacque tra uno sciopero riuscito e un flop. Una percentuale minima al di sotto della quale è davvero difficile cantare vittoria: l’adesione almeno degli iscritti. Insomma, se sostieni, come fa ripetutamente Maurizio Landini di essere il portavoce di un sedicente malcontento montante che sarebbe addirittura maggioranza nel Paese e ti intesti una battaglia in solitaria lasciando alle spalle Cisl e Uil e poi non ti seguono neanche i tuoi, c’è un problema.
E il problema, numeri alla mano, esiste. Ed è pure grosso. Basta vedere le percentuali dei lavoratori che hanno deciso di spalleggiare l’ennesima rivolta politica e tutta improntata ad attaccare il governo Meloni del leader della Cgil. Innanzitutto nel pubblico impiego. Tra gli statali (scuola, sanità, dipendenti di ministeri, enti locali ecc.) ci sono circa 2,7 milioni di dipendenti contrattualizzati. E tra questi il 12% ha in tasca la tessera della Cgil. Bene, a fine giornata i dati ufficiali parlavano di circa il 4,4% complessivo di adesione all’ennesimo logoro show di Landini. Messa in soldoni: ormai anche la Cgil si è stancata del suo segretario che combatte una battaglia personale e quasi sempre sulle spalle dei lavoratori.
Che in corso d’Italia monti il malcontento, La Verità lo evidenzia da un po’ di tempo, ma il dato degli impiegati dello Stato è particolarmente significativo. Perché è intorno agli statali che l’ex leader della Fiom ha combattuto e poi perso la sua battaglia più significativa. Per mesi e mesi, infatti, spalleggiato dalla Uil e dall’ex alleato Pierpaolo Bombardieri, Landini ha bloccato il rinnovo dei contratti della Pa.
Circa 20 miliardi, già stanziati dal governo, fermi. E aumenti tra i 150 e i 170 euro lordi al mese, con istituti di favore come la settimana cortissima e il ticket anche in smart working, preclusi ai lavoratori per l’opposizione a prescindere del compagno Maurizio. Certo, lui l’ha spiegata come una lotta di giustizia sociale che aveva l’obiettivo di recuperare tutta l’inflazione del periodo (2022-2024). Ma si trattava di un bluff. Perché la Cgil con governi di un colore diverso ha rinnovato contratti decisamente meno convenienti e che comunque non coprivano il carovita.
Insomma, quella sugli accordi della pubblica amministrazione è diventata l’ultima frontiera dell’opposizione a prescindere. E su quella battaglia Landini si è schiantato. Prima nel merito, perché alla fine la Uil l’ha mollato e i contratti sono stati firmati. E poi sul campo: perché se almeno la metà degli iscritti diserta sciopero (e siamo benevoli), vuol dire che i tuoi stanno bocciando una linea che porta nelle piazza, sulle barricate e sui giornali, ma lascia i lavoratori con le tasche sempre più vuote.
«Il dato», spiega alla Verità il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, «certifica l’ennesimo flop degli scioperi generali, un fallimento che finisce tutto sulle spalle della Cgil che nel pubblico impiego può contare su circa 300.000 iscritti. Pur ammettendo che tutti gli aderenti siano tesserati di Landini e che le proiezioni del pomeriggio vengano confermate, la bocciatura interna per la linea del segretario sarebbe evidente. E, del resto, questo disagio era palese anche sul tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto. È arrivato il momento che anche all’interno del sindacato si apra una riflessione sincera».
E se tra gli statali la sconfitta è stata cocente, non meglio è andata nel privato. Dove, però, i dati sono più frammentati. Secondo le rilevazioni degli altri sindacati, ci sono alcune situazioni clamorose e altri meno, ma sempre di batoste si tratta.
Appartengono al primo caso le adesioni ferme a quota 1% nei cantieri delle grandi opere: dal Brennero fino al Terzo valico e alla Tav. Si risale al 5% negli stabilimenti di produzione e lavorazione di cemento, legno e laterizi, ma in generale la partecipazione nell’edilizia è stata bassissima.
Come nell’agroalimentare, dove, se si fa eccezioni per la rossa Emilia-Romagna (ai reparti produttivi della Granarolo si è arrivati a sfiorare il 50%), i risultati nelle piccole e medie imprese sono quasi tutti sotto il 5%. La media tra le aziende elettriche è del 5%, nelle Poste siamo fermi al 2,5% e nelle banche si sfiora l’1%. Leggermente meglio nel terziario e nel commercio (dove viene toccato il 10%), così come si contano sulle punte delle dita i siti delle realtà industriali in doppia cifra (Ex Ilva a Novi, Marcegaglia di Dusino San Michele in Piemonte e alcuni siti di Leonardo).
Insomma, al balletto delle cifre nelle manifestazioni siamo abituati e che ci siano delle enormi differenze numeriche tra promotori dello sciopero e controparte sta nelle regole del gioco, eppure si fa davvero fatica a capire da dove il sindacato rosso abbia tirato fuori il dato del 68% delle adesioni. Se 7 lavoratori su 10 si fermano, l’Italia si blocca. Non solo i trasporti, ma tutto il sistema finisce in una sorta di pericoloso stand by collettivo. Nulla a che vedere con quello che è successo sul territorio che ieri ha subito qualche prevedibile disagio da effetto-annuncio, ma poco più. Ma, del resto, nel Paese immaginario che sta raccontando Landini può succedere questo e altro.
Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito
«Fanno bene ad avere qualche timore, avere qualche paura, perché non ci fermano. Non so come dirlo, non ci fermano e, siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». È stato questo il grido di battaglia, ieri, del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a Firenze dove ha partecipato al corteo nel giorno dello sciopero generale contro la legge di bilancio, salari bassi, precarietà e caro-vita.
Una protesta «per cambiare la manovra 2026, considerata del tutto inadeguata a risolvere i problemi del Paese, malgrado le modifiche appena approvate, per sostenere investimenti in sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali, per fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, per contrastare la precarietà». Insomma, i temi sul tavolo di ogni governo degli ultimi 30 anni, basti pensare alla sanità da sempre gestita dalla sinistra da Rosy Bondi in poi, ma che, per Landini e sinistra, sembrano esplosi con l’arrivo del governo Meloni. E, ignorando totalmente i dati dell’occupazione che cresce in maniera costante, arriva a sostenere che «La precarietà non è un problema dei giovani: se vogliamo combattere e contrastare la precarietà, sono quelli che non sono precari che, innanzitutto, si devono battere e scioperare per cancellare la precarietà. Questa è la solidarietà, questo è il sindacato».
«Quando ho lavorato», ha ricordato Landini, «io la precarietà non l’ho conosciuta. E vorrei che fosse chiaro, non è merito mio, eh, io non avevo fatto niente, ero andato semplicemente a lavorare. Ma mi sono trovato dei diritti, perché quelli prima di me, che quei diritti lì non ce ne avevano, si erano battuti per ottenerli. Non per loro, ma per tutti. Tre mesi dopo che ero assunto come apprendista, ho potuto operare e partecipare a una manifestazione senza essere licenziato. Non m’hanno fatto prove del carrello», ha detto riferendosi ai tre lavoratori della catena Pam allontanati dopo un controllo a sorpresa che ha simulato un furto. «Dobbiamo far parlare il Paese reale, perché dobbiamo raccontare quel che succede: qui siamo, ormai, a un regime, ci raccontano un Paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così».
Il leader della Cgil ha, poi, sottolineato che oggi c’è «un obiettivo esplicito della politica e del governo: mettere in discussione l’esistenza stessa del sindacato confederale come soggetto che ha diritto di negoziare alla pari col governo». Al segretario che un anno fa voleva «rivoltare il Paese come un guanto», lo sciopero politico di ieri gli è comunque costato la mancata unità sindacale con Cisl, Uil e Ugl ormai fuori sintonia. Landini ha chiarito che «il diritto di sciopero è un diritto costituzionale e non accetteremo alcun tentativo di metterlo in discussione o di limitarlo. Oggi siamo in piazza non contro altri lavoratori o altri sindacati, ma per estendere questi diritti a tutti. Quando un governo prova a delegittimare chi protesta o a ridurre gli spazi di partecipazione democratica, significa che non vuole ascoltare il disagio reale che attraversa il Paese. Lo sciopero è per cambiare politiche sbagliate. E la grande partecipazione che vediamo oggi dimostra che c’è un Paese che chiede un cambio di rotta».
«Il Paese non è più disponibile a un’altra legge di bilancio di austerità e di tagli», ha affermato il leader di Avs, Nicola Fratoianni, presente alla manifestazione con Angelo Bonelli. Sul palco in piazza del Carmine ha trovato posto anche la protesta dei giornalisti de La Stampa e Repubblica, in sciopero dopo l’annuncio di Exor della cessione del gruppo editoriale Gedi al magnate greco Theodore Kyriakou. Mai così in prima fila nella solidarietà ad altre crisi di giornali meno «amici», Landini ha spiegato il perché: «Pensiamo che quello che sta succedendo sia un tentativo esplicito di mettere in discussione la libertà di stampa e la possibilità concreta di proseguire e di fare serie politiche industriali. Mi sembra evidente quello che sta succedendo: abbiamo imprese e imprenditori che, dopo aver fatto i profitti, chiudono le imprese, se ne vogliono andare dal nostro Paese per usare i soldi e quella ricchezza che è stata prodotta da chi lavora, da altre parti. Ecco, quelli che fanno i patrioti dove sono? Stanno difendendo chi? Difendono quelli che pagano le tasse che tengono in piedi questo Paese o difendono quelli che chiudono le aziende che investono da un’altra parte?». C’è voluta la vendita di Repubblica perché Landini attaccasse Elkann visto che dalla nascita di Stellantis, nel gennaio 2021, l’azienda ha licenziato solo in Italia attraverso esodi incentivati 7.500 lavoratori. Del restom lo ha detto chiaramente Carlo Calenda di Azione: «Da quando la Repubblica è stata comprata da Elkann, Fiom e Cgil hanno smesso di dare battaglia che prima facevano con Sergio Marchionne quando la produzione aumentava, adesso che è crollata non li senti più dire nulla».
Intanto ieri Landini non ha nascosto la sua soddisfazione per la risposta allo sciopero, «le piazze si sono riempite e le fabbriche svuotate», rinfocolando la polemica a distanza con il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che aveva definito «irresponsabile» bloccare il Paese. «Noi stiamo facendo il nostro mestiere, quello che non fa Salvini», la replica del segretario della Cgil. Il vicepremier leghista ieri ha visitato la centrale operativa delle Ferrovie dello Stato per verificare le ricadute dello sciopero, ed ha definito «incoraggianti» i dati sull’adesione, «con disagi limitati» dovuti soprattutto all’effetto «annuncio».
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