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2021-03-15
L’ultimo flop degli uffici pubblici
iStock
Un altro appuntamento con l'innovazione è stato mancato. La pubblica amministrazione non è riuscita a rispettare la scadenza del 28 febbraio che avrebbe dovuto segnare l'ingresso nella modernità. Entro questa data, tutti gli enti pubblici avrebbero dovuto accettare l'identità digitale con Spid, la carta d'identità elettronica Cie, il PagoPa, il sistema di pagamento elettronico e avviare la transizione di tutti i servizi sull'app Io, quella diventata famosa con l'operazione cashback. Ma appena 5.737 amministrazioni su 23.000 sono risultate pronte. Solo 42 enti hanno adottato la carta di identità elettronica (Cie) come chiave di accesso. Anche là dove è stata rispettata la scadenza, la digitalizzazione è parziale e soltanto le attività principali sono accessibili con Id digitali.
Meno di 6 enti su 10 dispongono di almeno un servizio attivo con PagoPa. Inoltre per accedere, i cittadini devono avere l'identità Spid o la carta d'identità elettronica Cie e per molti non è così semplice ottenerli. Lo Spid va attivato con procedure poco agevoli soprattutto per gli anziani ma anche per chi ha scarsa dimestichezza con i mezzi informatici, mentre per la Cie molti Comuni danno appuntamenti al prossimo anno. Non è la prima volta che gli enti non riescono a rispettare la scadenza. Già nel 2018 si era resa necessaria una proroga.
Sono inadempienti la maggior parte delle scuole e numerosi ospedali che, se aprissero all'innovazione tecnologica, alleggerirebbero di molto il lavoro degli uffici amministrativi e aiuterebbero le famiglie alle prese con i bollettini per le tasse scolastiche e, nel caso degli ambulatori, con le file agli sportelli per prenotare le visite mediche o gli esami diagnostici. Visto l'esito, la data del 28 febbraio è risultata un obiettivo eccessivamente ambizioso. Forse nemmeno il governo ha mai creduto che sarebbe stato rispettato.
Il gap tra le promesse di una pubblica amministrazione che dialoga sempre online e il rapporto quotidiano con gli uffici fatto ancora di carte, raccomandate e file agli sportelli, resta ampio. Per la transizione digitale erano stati stanziati dal ministero dell'Innovazione tecnologica 43 milioni che, divisi per 23.000 amministrazioni, fa 1.870 euro ciascuna. Briciole. Contributi più importanti arriveranno con il Recovery fund visto che il piano europeo prevede un capitolo dedicato proprio alla modernizzazione della pubblica amministrazione. Nel nuovo ciclo di programmazione della Ue per il periodo 2021-2027 ci sono in ballo 1.800 miliardi di euro, la maggior quantità di finanziamenti mai varati. L'Italia potrà beneficiare di oltre 100 miliardi già dal 2021. Oltre 40 miliardi per le politiche di coesione, circa 65,5 miliardi a fondo perduto per il piano ripresa e resilienza. Per l'amministrazione pubblica è l'occasione d'oro per agganciare il futuro.
Il problema però è che gli enti locali devono essere pronti per fare progetti e quindi spendere. L'esperienza, anche più recente, dimostra che non è per niente facile. L'Osservatorio agenda digitale del Politecnico di Milano riporta che una gara pubblica in tecnologie digitali è assegnata in circa 4,5 mesi dopo la scadenza delle offerte. Solo il 49% delle gare è assegnato in meno di 100 giorni. Sono tempi troppo lunghi per l'innovazione tecnologica. Il mercato degli acquisti digitali della pubblica amministrazione vale 5,8 miliardi (l'8% del settore nazionale) e appena il 15% dei fornitori di tecnologie lavora con questo settore.
Le gare pubbliche sono gestite in modo da evitare contenziosi e spesso, per paura di incorrere nel danno erariale, le amministrazioni preferiscono non fare progetti. La normativa, complicata e in continua evoluzione, non offre un quadro di certezze. L'Osservatorio agenda digitale sottolinea che il codice dei contratti pubblici non è ancora pienamente operativo perché sono stati adottati solo 24 dei 45 provvedimenti attuativi, necessari per farlo funzionare.
L'Europa ha messo a disposizione del nostro Paese per l'attuazione dell'agenda digitale, nella programmazione 2014-2020, fondi per 3,6 miliardi di euro ma ne sono stati spesi appena il 34,5%. Il 57% delle risorse è gestito dalle Regioni ma solo Puglia (81%), Val d'Aosta (68%) e Lazio (58%) ne hanno impiegato più del 50% mentre quella che ha ottenuto (373 milioni) e speso (162 milioni) la maggior parte delle risorse è la Sicilia.
Con l'indice Desi (Digital economy and society index), la Commissione europea ha misurato il fiato corto dell'innovazione italiana per l'erogazione di servizi online: siamo venticinquesimi su 28, riusciamo a metterci alle spalle solo Bulgaria, Grecia e Romania ma non sappiamo tenere il passo di Polonia, Ungheria, Cipro o Portogallo, per non parlare di Danimarca, Svezia e Finlandia che occupano il podio o di Germania e Francia che dovrebbero essere i nostri concorrenti, ma ci superano in fatto di utilizzo di Internet, connettività, integrazione e servizi digitali. L'Italia risulta divisa in due con sensibili differenze tra Nord e Sud. Lombardia, Lazio e Provincia autonoma di Trento sono le più digitali, mentre in coda si collocano Sicilia, Molise e Calabria.
Secondo l'Osservatorio agenda digitale, il nostro Paese registra «i peggiori posizionamenti nelle competenze digitali e nell'uso di internet». Le restrizioni imposte dalla pandemia con la chiusura di molti uffici e la diffusione dello smart working hanno diffuso la consapevolezza dell'importanza di avere un dialogo online efficiente con la pubblica amministrazione. Ma è anche emersa l'inadeguatezza della Pa alla domanda di più tecnologia per mancanza di competenze e per gli scarsi investimenti.
L'Italia è tra gli ultimi Paesi in Europa per copertura di banda larga fissa. A metà 2019 il 78% delle abitazioni è stato raggiunto da almeno 30 mbps e il 61% da 100 mbps. La sfida è di arrivare a breve a coprire tutto il territorio. Inoltre bisogna migliorare l'utilizzo. L'anno scorso solo il 31% delle abitazioni usava una connessione ad almeno 30 mbps e il 13% usava i 100 mbps. Tra i Comuni la fibra ottica è diffusa nel 32% degli enti. Perché stupirsi, quindi, se lo Spid continua a essere poco conosciuto?
«Nessuno pensa alle piccole realtà»
«Agganciarsi alla piattaforma PagoPa, veicolare i servizi di pagamento su un unico sistema nazionale, non è come spingere un bottone. L'attenzione finora è stata focalizzata sulla digitalizzazione a livello nazionale ma poco è stato fatto sul territorio. I sindaci si sono mossi in ordine sparso, ciascuno innovando per proprio conto i servizi dal punto di vista tecnologico. Il risultato è che ci sono situazioni eterogenee e ora è complicato confluire sull'unica piattaforma PagoPa». Alessandro Canelli ha seguito in prima linea il processo di digitalizzazione dei Comuni in quanto sindaco di Novara e presidente dell'Istituto per la finanza e l'economia locale dell'Anci, l'Associazione dei Comuni italiani.
Che cosa ha impedito agli enti locali di rispettare la scadenza del 28 febbraio per veicolare i servizi di pagamento su PagoPa? Per Canelli «le situazioni sono diverse. Esistono realtà grandi dotate di mezzi economici, competenze e personale per affrontare la trasformazione tecnologica, ma la maggior parte fa fatica. È mancato un sostegno dello Stato. L'attenzione si è concentrata sulle amministrazioni centrali, mentre quelle periferiche sono state abbandonate».
Finora i Comuni si sono organizzati in ordine sparso, e probabilmente non si poteva fare diversamente vista la mancanza di un coordinamento nazionale. «Ognuno ha software diversi per i pagamenti», conferma Canelli, «che ora devono essere adattati per poi agganciarsi alla piattaforma PagoPa. Questo procedimento prevede una serie di passaggi intermedi che non sono banali. Non basta schiacciare un bottone».
Per esempio, quando si entra nel sito del Comune di Novara, la città di Canelli, ci si collega alla piattaforma PiemontePay. «Noi abbiamo attivato il pagamento digitale per le lampade votive cimiteriali ed è in corso di sviluppo quello relativo ai rapporti tra amministrazione e aziende», spiega il sindaco. «Questa realtà fa capire che bisognerebbe armonizzare i diversi software e i Comuni devono essere accompagnati in questo percorso».
Nonostante questi problemi, è stata confermata una scadenza molto ravvicinata. «È il problema che l'Anci ha sottolineato presentando un emendamento al decreto Milleproroghe», dice Canelli. «Abbiamo chiesto di posticipare il termine ultimo almeno a fine anno ma non se ne è fatto nulla. E il risultato ce l'abbiamo davanti». Servono forse più soldi? «I fondi europei vanno alle amministrazioni centrali», dice il delegato Anci. «Ci auguriamo che una quota dei finanziamenti del Recovery fund sia destinata alla digitalizzazione dei Comuni. Bisogna lavorare molto sulla formazione dei dipendenti comunali e sulla informazione dei cittadini. Per circa otto anni le amministrazioni hanno sofferto il blocco del turnover. Abbiamo perso il 20% del personale e chi è in servizio ha un'età avanzata».
Canelli nega che esistano resistenze alle nuove tecnologie perché si temono tagli di posti: «Tutt'altro. Le nuove tecnologie tolgono dagli sportelli personale che può essere posizionato su altri servizi in difficoltà. Ci guadagnano tutti: il pubblico, i dipendenti delle amministrazioni e le amministrazioni stesse».
«Scadenze ignorate? Mi sorprende che qualcuno le abbia rispettate...»
«Perché stupirsi se solo 6.300 enti pubblici su 20.000 hanno attivato l'accesso ai servizi con Spid, il sistema di identità digitale, e Cie, la carta di identità elettronica? Considerando come è strutturata la pubblica amministrazione, io lo considero quasi un miracolo». Ironia o analisi della situazione? Luca Gastaldi, direttore dell'Osservatorio agenda digitale e dell'Osservatorio digital identity del Politecnico di Milano, è pungente: «Quando un sistema come quello della pubblica amministrazione si dà regole complicate e quindi inapplicabili, quando l'età media dei dipendenti è alta e manca la formazione, quando gli enti non dialogano tra loro, non mi meraviglio se pochi Comuni hanno tagliato il traguardo previsto dal decreto Semplificazioni. Sono piuttosto sorpreso che siano così numerosi».
Spid, PagoPa, carta di identità elettronica raggiungono pochi cittadini. Come mai questo ritardo? Non è la prima volta che viene fissata una scadenza per svecchiare il sistema.
«Se non è stato attivato l'accesso allo Spid è perché gran parte dei servizi delle pubbliche amministrazioni non sono digitalizzati».
Come mai la digitalizzazione dei servizi procede a rilento? Si potrebbero risparmiare soldi e tempo.
«Ci sono una serie di ragioni. La prima è di natura strutturale: in Italia ci sono circa 20.000 amministrazioni, di cui 8.000 Comuni e altrettante scuole. Il 75% dei Comuni ha meno di 5.000 abitanti e meno di 5 dipendenti. Per costoro la digitalizzazione dei servizi non è la priorità, devono occuparsi di mille altre questioni. Inoltre mancano le competenze. I piccoli enti sono condannati al nanismo digitale».
Comuni piccoli e con scarse competenze, come si superano questi ostacoli?
«Basterebbe che i piccoli Comuni si aggregassero o comunicassero di più tra loro».
Non è anche un problema di fondi? Il ministro dell'Innovazione, Vittorio Colao, ha detto che bisognerebbe investire di più.
«Non è vero che non ci sono i soldi. L'Europa mette a disposizione parecchi fondi per accelerare la trasformazione digitale pubblica: in media ogni anno è a disposizione più di 1 miliardo di euro. Ma per ottenere i finanziamenti bisogna presentare i progetti e poi rendicontarli quando sono ultimati. Ma le amministrazioni hanno scarsa competenza anche nella progettazione».
Se non riescono a trovar competenze al loro interno, non potrebbero servirsi di aziende private?
«Non è facile. La normativa su queste collaborazioni è complicata. Il codice degli appalti, oltre che essere pensato più per le strade che per le infrastrutture digitali, è oggetto di continue revisioni, così le amministrazioni pubbliche per paura di sbagliare e incorrere nel danno erariale, preferiscono non decidere. Le norme sono incompatibili con i tempi del digitale: andrebbe rivisto l'impianto legislativo. Mancano 50 provvedimenti attuativi».
Non c'è anche scarsa richiesta di servizi digitali? Gli italiani sono poco tecnologici e piuttosto diffidenti verso questi nuovi sistemi.
«È vero. Il nostro Paese è ultimo in Europa per diffusione delle competenze digitali. Siamo attaccati tutto il giorno a Facebook ma non siamo in grado di riconoscere una fake news, di accedere a un conto corrente online, di utilizzare i dispositivi tecnologici. Il cittadino quando deve fruire di un servizio pubblico si reca direttamente allo sportello senza prima domandarsi se c'è alternativa digitale».
Con il Covid però qualcosa è cambiato: lo abbiamo visto per la didattica a distanza.
«È di sicuro aumentata la consapevolezza che è necessaria un'amministrazione più digitale e si è anche scoperto che la banda larga è poco diffusa. Tante aree del Paese non sono coperte. C'è però un altro aspetto che è conseguenza della scarsa competenza».
Quale?
«Quando le Pa introducono il digitale non ripensano i loro servizi. Si limitano a mettere online ciò che fino a quel momento avviene in presenza. Spesso i Comuni si rimpallano i documenti tramite mail quando basterebbe trasferire i dati su un unico registro digitale che sarebbe a disposizione di tutte le amministrazioni».
Allora chissà quante altre scadenze per la digitalizzazione saranno saltate, di questo passo.
«Non si può pretendere che tutto cambi all'improvviso. Ci muoviamo in una situazione complicata che richiede tempo. Un grande passo in avanti è stato fatto con la definizione di un piano triennale per l'informatica nel quale si indica la strategia di digitalizzazione del Paese. Ora sappiamo dove dobbiamo andare. Per risolvere il problema strutturale che molte Pa sono piccole si è deciso di gestire centralmente alcune attività: Spid, carta d'identità elettronica, PagoPa. Con Immuni e soprattutto il cashback sono stati raggiunti risultati strabilianti: è bastato mettere in palio un po' di soldi e sono state superate molte perplessità legate alla privacy che invece avevano caratterizzato Immuni».
«No ai provvedimenti calati dall'alto»
«Non si può innovare per decreto, fissando scadenze che si sa in partenza che non potranno essere rispettate. Con la pandemia era impossibile che gli enti locali riuscissero a essere pronti per il 28 febbraio. Il problema principale della pubblica amministrazione è che i provvedimenti vengono calati dall'alto senza coinvolgere chi li deve applicare. Mancano sanzioni per gli enti inadempienti e così è facile bucare le date». Gianni Dominici è direttore generale del Forum della pubblica amministrazione, la società di servizi che accompagna amministrazioni e aziende pubbliche nei processi di cambiamento e innovazione. «Era facile prevedere che i Comuni non sarebbero stati pronti», dice. «Mentre per PagoPa cominciano a esserci diversi servizi, lo Spid è stato un appuntamento mancato».
La digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche italiane offre un panorama desolante: «Personale all'osso per il blocco del turnover, in 10 anni abbiamo perso mezzo milione di dipendenti pubblici; età media elevata, circa 54 anni; formazione zero: in media una giornata di aggiornamento l'anno mentre nel resto d'Europa sono più di 15. Poi pesa il campanilismo», dice Dominici. «Ogni Comune, soprattutto i più piccoli, pensa di poter procedere per conto proprio. Invece la digitalizzazione è collaborazione, è mettere insieme le competenze». Dominici porta l'esempio dei Consorzio dei Comuni del Trentino: «Riunisce 250 piccole realtà che da sole non ce la farebbero mai a fornire servizi online, mentre hanno una piattaforma dove, a costi irrisori, condividono le attività. La digitalizzazione è fatta da un fornitore e il server è del consorzio. Bisogna aggregarsi e ragionare in una logica di servizi condivisi».
Il Covid però ha accelerato la richiesta di servizi online. «A febbraio le identità Spid sono arrivate a oltre 17,5 milioni, quando erano 15,5 milioni a fine anno», conferma il direttore del Forum. «Le transazioni su PagoPa sfiorano i 28 milioni mentre a fine anno erano la metà. Con l'operazione cashback, oltre 10 milioni di italiani hanno scaricato l'app Io. La pandemia ha avvicinato gli italiani al digitale perché bisogna lavorare da remoto e anche la vaccinazione si fa con prenotazioni sul sito della Regione. I Comuni hanno capito che il digitale è la soluzione di tanti problemi».
Le resistenze nel Paese sono sempre meno, secondo Dominici: «Un sondaggio effettuato con l'istituto Piepoli ha rilevato che il 57% è favorevole alla digitalizzazione perché facilita e velocizza i servizi, mentre il 21% è contrario: il 13% non ha gli strumenti, l'8% le competenze. Il 6% ritiene che i servizi non siano cambiati mentre il 9% non si è accorto del mutamento tecnologico». Tuttavia, digitalizzare significa anche acquistare servizi informatici e fare i conti con la burocrazia degli appalti: «Questo è un ostacolo da superare. Per comprare un servizio le amministrazioni impiegano oltre un anno. Durante la pandemia, gli acquisiti sono stati possibili senza bandi di gara, ma quando si tornerà alla normalità bisognerà semplificare le procedure per evitare che il meccanismo si ingolfi di nuovo. Nel passaggio dall'emergenza alla ricostruzione, la digitalizzazione sarà fondamentale per la crescita».
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Entro il 28 febbraio tutte le amministrazioni, dai Comuni alle scuole agli ospedali, dovevano compiere tre adempimenti: introdurre la carta d'identità elettronica, accettare l'identità digitale con Spid ed entrare nel sistema PagoPa. L'hanno fatto 5.737 enti su 23.000. A ciascuno, per la digitalizzazione, il governo Conte aveva destinato meno di 1.900 euro: briciole.In mancanza di direttive e sostegni, i sindaci si sono mossi in ordine sparso. L'Anci: «Non c'è stato coordinamento, difficile recuperare per riallineare tutti i software».Il direttore dell'Osservatorio agenda digitale, Luca Gastaldi: «Questo sistema si è dato norme complicate e inapplicabili, ha impiegati anziani e non fa formazione. Bisogna che gli organismi più piccoli si convincano a collaborare»Il Forum Pa critica la riforma: non si può innovare per decreto senza coinvolgere chi deve applicare le nuove regole. Per gli inadempienti non sono previste sanzioni.Lo speciale contiene quattro articoli.Un altro appuntamento con l'innovazione è stato mancato. La pubblica amministrazione non è riuscita a rispettare la scadenza del 28 febbraio che avrebbe dovuto segnare l'ingresso nella modernità. Entro questa data, tutti gli enti pubblici avrebbero dovuto accettare l'identità digitale con Spid, la carta d'identità elettronica Cie, il PagoPa, il sistema di pagamento elettronico e avviare la transizione di tutti i servizi sull'app Io, quella diventata famosa con l'operazione cashback. Ma appena 5.737 amministrazioni su 23.000 sono risultate pronte. Solo 42 enti hanno adottato la carta di identità elettronica (Cie) come chiave di accesso. Anche là dove è stata rispettata la scadenza, la digitalizzazione è parziale e soltanto le attività principali sono accessibili con Id digitali. Meno di 6 enti su 10 dispongono di almeno un servizio attivo con PagoPa. Inoltre per accedere, i cittadini devono avere l'identità Spid o la carta d'identità elettronica Cie e per molti non è così semplice ottenerli. Lo Spid va attivato con procedure poco agevoli soprattutto per gli anziani ma anche per chi ha scarsa dimestichezza con i mezzi informatici, mentre per la Cie molti Comuni danno appuntamenti al prossimo anno. Non è la prima volta che gli enti non riescono a rispettare la scadenza. Già nel 2018 si era resa necessaria una proroga.Sono inadempienti la maggior parte delle scuole e numerosi ospedali che, se aprissero all'innovazione tecnologica, alleggerirebbero di molto il lavoro degli uffici amministrativi e aiuterebbero le famiglie alle prese con i bollettini per le tasse scolastiche e, nel caso degli ambulatori, con le file agli sportelli per prenotare le visite mediche o gli esami diagnostici. Visto l'esito, la data del 28 febbraio è risultata un obiettivo eccessivamente ambizioso. Forse nemmeno il governo ha mai creduto che sarebbe stato rispettato.Il gap tra le promesse di una pubblica amministrazione che dialoga sempre online e il rapporto quotidiano con gli uffici fatto ancora di carte, raccomandate e file agli sportelli, resta ampio. Per la transizione digitale erano stati stanziati dal ministero dell'Innovazione tecnologica 43 milioni che, divisi per 23.000 amministrazioni, fa 1.870 euro ciascuna. Briciole. Contributi più importanti arriveranno con il Recovery fund visto che il piano europeo prevede un capitolo dedicato proprio alla modernizzazione della pubblica amministrazione. Nel nuovo ciclo di programmazione della Ue per il periodo 2021-2027 ci sono in ballo 1.800 miliardi di euro, la maggior quantità di finanziamenti mai varati. L'Italia potrà beneficiare di oltre 100 miliardi già dal 2021. Oltre 40 miliardi per le politiche di coesione, circa 65,5 miliardi a fondo perduto per il piano ripresa e resilienza. Per l'amministrazione pubblica è l'occasione d'oro per agganciare il futuro. Il problema però è che gli enti locali devono essere pronti per fare progetti e quindi spendere. L'esperienza, anche più recente, dimostra che non è per niente facile. L'Osservatorio agenda digitale del Politecnico di Milano riporta che una gara pubblica in tecnologie digitali è assegnata in circa 4,5 mesi dopo la scadenza delle offerte. Solo il 49% delle gare è assegnato in meno di 100 giorni. Sono tempi troppo lunghi per l'innovazione tecnologica. Il mercato degli acquisti digitali della pubblica amministrazione vale 5,8 miliardi (l'8% del settore nazionale) e appena il 15% dei fornitori di tecnologie lavora con questo settore.Le gare pubbliche sono gestite in modo da evitare contenziosi e spesso, per paura di incorrere nel danno erariale, le amministrazioni preferiscono non fare progetti. La normativa, complicata e in continua evoluzione, non offre un quadro di certezze. L'Osservatorio agenda digitale sottolinea che il codice dei contratti pubblici non è ancora pienamente operativo perché sono stati adottati solo 24 dei 45 provvedimenti attuativi, necessari per farlo funzionare. L'Europa ha messo a disposizione del nostro Paese per l'attuazione dell'agenda digitale, nella programmazione 2014-2020, fondi per 3,6 miliardi di euro ma ne sono stati spesi appena il 34,5%. Il 57% delle risorse è gestito dalle Regioni ma solo Puglia (81%), Val d'Aosta (68%) e Lazio (58%) ne hanno impiegato più del 50% mentre quella che ha ottenuto (373 milioni) e speso (162 milioni) la maggior parte delle risorse è la Sicilia.Con l'indice Desi (Digital economy and society index), la Commissione europea ha misurato il fiato corto dell'innovazione italiana per l'erogazione di servizi online: siamo venticinquesimi su 28, riusciamo a metterci alle spalle solo Bulgaria, Grecia e Romania ma non sappiamo tenere il passo di Polonia, Ungheria, Cipro o Portogallo, per non parlare di Danimarca, Svezia e Finlandia che occupano il podio o di Germania e Francia che dovrebbero essere i nostri concorrenti, ma ci superano in fatto di utilizzo di Internet, connettività, integrazione e servizi digitali. L'Italia risulta divisa in due con sensibili differenze tra Nord e Sud. Lombardia, Lazio e Provincia autonoma di Trento sono le più digitali, mentre in coda si collocano Sicilia, Molise e Calabria. Secondo l'Osservatorio agenda digitale, il nostro Paese registra «i peggiori posizionamenti nelle competenze digitali e nell'uso di internet». Le restrizioni imposte dalla pandemia con la chiusura di molti uffici e la diffusione dello smart working hanno diffuso la consapevolezza dell'importanza di avere un dialogo online efficiente con la pubblica amministrazione. Ma è anche emersa l'inadeguatezza della Pa alla domanda di più tecnologia per mancanza di competenze e per gli scarsi investimenti.L'Italia è tra gli ultimi Paesi in Europa per copertura di banda larga fissa. A metà 2019 il 78% delle abitazioni è stato raggiunto da almeno 30 mbps e il 61% da 100 mbps. La sfida è di arrivare a breve a coprire tutto il territorio. Inoltre bisogna migliorare l'utilizzo. L'anno scorso solo il 31% delle abitazioni usava una connessione ad almeno 30 mbps e il 13% usava i 100 mbps. Tra i Comuni la fibra ottica è diffusa nel 32% degli enti. Perché stupirsi, quindi, se lo Spid continua a essere poco conosciuto?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lultimo-flop-degli-uffici-pubblici-2651061054.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nessuno-pensa-alle-piccole-realta" data-post-id="2651061054" data-published-at="1615751518" data-use-pagination="False"> «Nessuno pensa alle piccole realtà» «Agganciarsi alla piattaforma PagoPa, veicolare i servizi di pagamento su un unico sistema nazionale, non è come spingere un bottone. L'attenzione finora è stata focalizzata sulla digitalizzazione a livello nazionale ma poco è stato fatto sul territorio. I sindaci si sono mossi in ordine sparso, ciascuno innovando per proprio conto i servizi dal punto di vista tecnologico. Il risultato è che ci sono situazioni eterogenee e ora è complicato confluire sull'unica piattaforma PagoPa». Alessandro Canelli ha seguito in prima linea il processo di digitalizzazione dei Comuni in quanto sindaco di Novara e presidente dell'Istituto per la finanza e l'economia locale dell'Anci, l'Associazione dei Comuni italiani. Che cosa ha impedito agli enti locali di rispettare la scadenza del 28 febbraio per veicolare i servizi di pagamento su PagoPa? Per Canelli «le situazioni sono diverse. Esistono realtà grandi dotate di mezzi economici, competenze e personale per affrontare la trasformazione tecnologica, ma la maggior parte fa fatica. È mancato un sostegno dello Stato. L'attenzione si è concentrata sulle amministrazioni centrali, mentre quelle periferiche sono state abbandonate». Finora i Comuni si sono organizzati in ordine sparso, e probabilmente non si poteva fare diversamente vista la mancanza di un coordinamento nazionale. «Ognuno ha software diversi per i pagamenti», conferma Canelli, «che ora devono essere adattati per poi agganciarsi alla piattaforma PagoPa. Questo procedimento prevede una serie di passaggi intermedi che non sono banali. Non basta schiacciare un bottone». Per esempio, quando si entra nel sito del Comune di Novara, la città di Canelli, ci si collega alla piattaforma PiemontePay. «Noi abbiamo attivato il pagamento digitale per le lampade votive cimiteriali ed è in corso di sviluppo quello relativo ai rapporti tra amministrazione e aziende», spiega il sindaco. «Questa realtà fa capire che bisognerebbe armonizzare i diversi software e i Comuni devono essere accompagnati in questo percorso». Nonostante questi problemi, è stata confermata una scadenza molto ravvicinata. «È il problema che l'Anci ha sottolineato presentando un emendamento al decreto Milleproroghe», dice Canelli. «Abbiamo chiesto di posticipare il termine ultimo almeno a fine anno ma non se ne è fatto nulla. E il risultato ce l'abbiamo davanti». Servono forse più soldi? «I fondi europei vanno alle amministrazioni centrali», dice il delegato Anci. «Ci auguriamo che una quota dei finanziamenti del Recovery fund sia destinata alla digitalizzazione dei Comuni. Bisogna lavorare molto sulla formazione dei dipendenti comunali e sulla informazione dei cittadini. Per circa otto anni le amministrazioni hanno sofferto il blocco del turnover. Abbiamo perso il 20% del personale e chi è in servizio ha un'età avanzata». Canelli nega che esistano resistenze alle nuove tecnologie perché si temono tagli di posti: «Tutt'altro. 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Luca Gastaldi, direttore dell'Osservatorio agenda digitale e dell'Osservatorio digital identity del Politecnico di Milano, è pungente: «Quando un sistema come quello della pubblica amministrazione si dà regole complicate e quindi inapplicabili, quando l'età media dei dipendenti è alta e manca la formazione, quando gli enti non dialogano tra loro, non mi meraviglio se pochi Comuni hanno tagliato il traguardo previsto dal decreto Semplificazioni. Sono piuttosto sorpreso che siano così numerosi». Spid, PagoPa, carta di identità elettronica raggiungono pochi cittadini. Come mai questo ritardo? Non è la prima volta che viene fissata una scadenza per svecchiare il sistema. «Se non è stato attivato l'accesso allo Spid è perché gran parte dei servizi delle pubbliche amministrazioni non sono digitalizzati». Come mai la digitalizzazione dei servizi procede a rilento? Si potrebbero risparmiare soldi e tempo. «Ci sono una serie di ragioni. La prima è di natura strutturale: in Italia ci sono circa 20.000 amministrazioni, di cui 8.000 Comuni e altrettante scuole. Il 75% dei Comuni ha meno di 5.000 abitanti e meno di 5 dipendenti. Per costoro la digitalizzazione dei servizi non è la priorità, devono occuparsi di mille altre questioni. Inoltre mancano le competenze. I piccoli enti sono condannati al nanismo digitale». Comuni piccoli e con scarse competenze, come si superano questi ostacoli? «Basterebbe che i piccoli Comuni si aggregassero o comunicassero di più tra loro». Non è anche un problema di fondi? Il ministro dell'Innovazione, Vittorio Colao, ha detto che bisognerebbe investire di più. «Non è vero che non ci sono i soldi. L'Europa mette a disposizione parecchi fondi per accelerare la trasformazione digitale pubblica: in media ogni anno è a disposizione più di 1 miliardo di euro. Ma per ottenere i finanziamenti bisogna presentare i progetti e poi rendicontarli quando sono ultimati. Ma le amministrazioni hanno scarsa competenza anche nella progettazione». Se non riescono a trovar competenze al loro interno, non potrebbero servirsi di aziende private? «Non è facile. La normativa su queste collaborazioni è complicata. Il codice degli appalti, oltre che essere pensato più per le strade che per le infrastrutture digitali, è oggetto di continue revisioni, così le amministrazioni pubbliche per paura di sbagliare e incorrere nel danno erariale, preferiscono non decidere. Le norme sono incompatibili con i tempi del digitale: andrebbe rivisto l'impianto legislativo. Mancano 50 provvedimenti attuativi». Non c'è anche scarsa richiesta di servizi digitali? Gli italiani sono poco tecnologici e piuttosto diffidenti verso questi nuovi sistemi. «È vero. Il nostro Paese è ultimo in Europa per diffusione delle competenze digitali. Siamo attaccati tutto il giorno a Facebook ma non siamo in grado di riconoscere una fake news, di accedere a un conto corrente online, di utilizzare i dispositivi tecnologici. Il cittadino quando deve fruire di un servizio pubblico si reca direttamente allo sportello senza prima domandarsi se c'è alternativa digitale». Con il Covid però qualcosa è cambiato: lo abbiamo visto per la didattica a distanza. «È di sicuro aumentata la consapevolezza che è necessaria un'amministrazione più digitale e si è anche scoperto che la banda larga è poco diffusa. Tante aree del Paese non sono coperte. C'è però un altro aspetto che è conseguenza della scarsa competenza». Quale? «Quando le Pa introducono il digitale non ripensano i loro servizi. Si limitano a mettere online ciò che fino a quel momento avviene in presenza. Spesso i Comuni si rimpallano i documenti tramite mail quando basterebbe trasferire i dati su un unico registro digitale che sarebbe a disposizione di tutte le amministrazioni». Allora chissà quante altre scadenze per la digitalizzazione saranno saltate, di questo passo. «Non si può pretendere che tutto cambi all'improvviso. Ci muoviamo in una situazione complicata che richiede tempo. Un grande passo in avanti è stato fatto con la definizione di un piano triennale per l'informatica nel quale si indica la strategia di digitalizzazione del Paese. Ora sappiamo dove dobbiamo andare. Per risolvere il problema strutturale che molte Pa sono piccole si è deciso di gestire centralmente alcune attività: Spid, carta d'identità elettronica, PagoPa. Con Immuni e soprattutto il cashback sono stati raggiunti risultati strabilianti: è bastato mettere in palio un po' di soldi e sono state superate molte perplessità legate alla privacy che invece avevano caratterizzato Immuni». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lultimo-flop-degli-uffici-pubblici-2651061054.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="no-ai-provvedimenti-calati-dall-alto" data-post-id="2651061054" data-published-at="1615751518" data-use-pagination="False"> «No ai provvedimenti calati dall'alto» «Non si può innovare per decreto, fissando scadenze che si sa in partenza che non potranno essere rispettate. Con la pandemia era impossibile che gli enti locali riuscissero a essere pronti per il 28 febbraio. Il problema principale della pubblica amministrazione è che i provvedimenti vengono calati dall'alto senza coinvolgere chi li deve applicare. Mancano sanzioni per gli enti inadempienti e così è facile bucare le date». Gianni Dominici è direttore generale del Forum della pubblica amministrazione, la società di servizi che accompagna amministrazioni e aziende pubbliche nei processi di cambiamento e innovazione. «Era facile prevedere che i Comuni non sarebbero stati pronti», dice. «Mentre per PagoPa cominciano a esserci diversi servizi, lo Spid è stato un appuntamento mancato». La digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche italiane offre un panorama desolante: «Personale all'osso per il blocco del turnover, in 10 anni abbiamo perso mezzo milione di dipendenti pubblici; età media elevata, circa 54 anni; formazione zero: in media una giornata di aggiornamento l'anno mentre nel resto d'Europa sono più di 15. Poi pesa il campanilismo», dice Dominici. «Ogni Comune, soprattutto i più piccoli, pensa di poter procedere per conto proprio. Invece la digitalizzazione è collaborazione, è mettere insieme le competenze». Dominici porta l'esempio dei Consorzio dei Comuni del Trentino: «Riunisce 250 piccole realtà che da sole non ce la farebbero mai a fornire servizi online, mentre hanno una piattaforma dove, a costi irrisori, condividono le attività. La digitalizzazione è fatta da un fornitore e il server è del consorzio. Bisogna aggregarsi e ragionare in una logica di servizi condivisi». Il Covid però ha accelerato la richiesta di servizi online. «A febbraio le identità Spid sono arrivate a oltre 17,5 milioni, quando erano 15,5 milioni a fine anno», conferma il direttore del Forum. «Le transazioni su PagoPa sfiorano i 28 milioni mentre a fine anno erano la metà. Con l'operazione cashback, oltre 10 milioni di italiani hanno scaricato l'app Io. La pandemia ha avvicinato gli italiani al digitale perché bisogna lavorare da remoto e anche la vaccinazione si fa con prenotazioni sul sito della Regione. I Comuni hanno capito che il digitale è la soluzione di tanti problemi». Le resistenze nel Paese sono sempre meno, secondo Dominici: «Un sondaggio effettuato con l'istituto Piepoli ha rilevato che il 57% è favorevole alla digitalizzazione perché facilita e velocizza i servizi, mentre il 21% è contrario: il 13% non ha gli strumenti, l'8% le competenze. Il 6% ritiene che i servizi non siano cambiati mentre il 9% non si è accorto del mutamento tecnologico». Tuttavia, digitalizzare significa anche acquistare servizi informatici e fare i conti con la burocrazia degli appalti: «Questo è un ostacolo da superare. Per comprare un servizio le amministrazioni impiegano oltre un anno. Durante la pandemia, gli acquisiti sono stati possibili senza bandi di gara, ma quando si tornerà alla normalità bisognerà semplificare le procedure per evitare che il meccanismo si ingolfi di nuovo. Nel passaggio dall'emergenza alla ricostruzione, la digitalizzazione sarà fondamentale per la crescita».
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Un concetto già smentito da Fdi che in un dossier sulle fake news relative proprio all’oro di Bankitalia, ha precisato l’infondatezza dell’allarmismo basato sulla errata idea di volersi impossessare delle riserve auree per ridurre il debito. E nello stesso documento si ricordava invece come questa idea non dispiacesse al governo di sinistra di Romano Prodi del 2007. Peraltro nel dossier si precisa che la finalità dell’emendamento è di «non far correre il rischio all’Italia che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani».
Per due volte la Banca centrale europea ha puntato i piedi, probabilmente spinta dal retropensiero che il governo voglia mettere le mani sull’oro detenuto e gestito da Bankitalia, per venderlo. Ma anche su questo punto da Fdi hanno tranquillizzato. Nel documento esplicativo precisano che «al contrario, vogliamo affermare che la proprietà dell’oro detenuto dalla Banca d’Italia è dello Stato proprio per proteggere le riserve auree da speculazioni». Il capitale dell’istituto centrale è diviso in 300.000 quote e nessun azionista può detenere più del 5%. I principali soci di Via Nazionale sono grandi banche e casse di previdenza. Dai dati pubblicati sul sito Bankitalia, primo azionista risulta Unicredit (15.000 quote pari al 5%), seguono con il 4,93% ciascuna Inarcassa (la Cassa di previdenza di ingegneri e architetti), Fondazione Enpam (Ente di previdenza dei medici e degli odontoiatri) e la Cassa forense. Del 4,91% la partecipazione detenuta da Intesa Sanpaolo. Al sesto posto tra gli azionisti, troviamo la Cassa di previdenza dei commercialisti con il 3,66%. Seguono Bper Banca con il 3,25%, Iccrea Banca col 3,12%, Generali col 3,02%. Pari al decimo posto, con il 3% ciascuna, Inps, Inail, Cassa di sovvenzioni e risparmio fra il personale della Banca d'Italia, Cassa di Risparmio di Asti. Primo azionista a controllo straniero è la Bmnl (Gruppo Bnp Paribas) col 2,83% seguita da Credit Agricole Italia (2,81%). Bff Bank (partecipata da fondi italiani e internazionali) detiene l’1,67% mentre Banco Bpm (i cui principali azionisti sono Credit Agricole con circa il 20% e Blackrock con circa il 5%) ha l’1,51%.
Un motivo fondato quindi per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che, a differenza di quanto sostenuto da politici e analisti di sinistra, «non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. Non si comprende quindi la levata di scudi di queste ore nei confronti della proposta di Fdi. A meno che, ed è lecito domandarselo, chi oggi si agita non abbia altri motivi per farlo».
C’è poi il fatto che «alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i Trattati europei». Pertanto si tratta di un emendamento «di buon senso».
La riformulazione della proposta potrebbe essere presentata oggi, come annunciato dal capogruppo di Fdi in Senato, Lucio Malan. «Si tratta di dare», ha specificato, «una formulazione che dia maggiore chiarezza». Nella risposta alle richieste della presidente della Bce, Christine Lagarde, il ministro Giorgetti, avrebbe precisato che la disponibilità e gestione delle riserve auree del popolo italiano sono in capo alla Banca d’Italia in conformità alle regole dei Trattati e che la riformulazione della norma trasmessa è il frutto di apposite interlocuzioni con quest’ultima per addivenire a una formulazione pienamente coerente con le regole europee.
Risolto questo fronte, altri agitano l’iter della manovra. L’obiettivo è portare la discussione in Aula per il weekend. Il lavoro è tutto sulle coperture. Ci sono i malumori delle forze dell’ordine per la mancanza di nuovi fondi, rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura di infrazione, e ieri quelli dei sindacati dei medici, Anaao Assomed e Cimo-Fesmed, che hanno minacciato lo stato di agitazione se saranno confermate le voci «del tentativo del ministero dell’Economia di bloccare l’emendamento, peraltro segnalato, a firma Francesco Zaffini, presidente della commissione Sanità del Senato con il sostegno del ministro della Salute», che prevede un aumento delle indennità di specificità dei medici, dirigenti sanitari e infermieri. In ballo, affermano le due sigle, ci sono circa 500 milioni già preventivati. E reclamano che il Mef «licenzi al più presto la pre-intesa del Ccnl 2022-2024 per consentire la firma e quindi il pagamento di arretrati e aumenti».
Intanto in una riformulazione del governo l’aliquota della Tobin Tax è stata raddoppiata dallo 0,2% allo 0,4%.
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John Elkann (Ansa)
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni, al quale si chiede di riferire in aula in relazione a quella che è una trattativa tra privati. O meglio: è sacrosanta la richiesta di attenzione per la tutela dei livelli occupazionali, come succede in tutti i casi in cui un grande gruppo imprenditoriale passa di mano: ciò che si comprende meno, anzi non si comprende proprio, sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
L’agitazione in casa dem tocca livelli di puro umorismo: «Di fronte a quanto sta avvenendo nelle redazioni di Repubblica e Stampa», dichiara il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, «il governo italiano non può restare silente e fermo. Chigi deve assumere un’iniziativa immediata di fronte a quella che appare come una vera e propria dismissione di un patrimonio della democrazia italiana. Per la tutela di beni e capitali strategici di interesse nazionale viene spesso evocato il Golden power. Utilizzato da questo governo per molto meno». Secondo Boccia, il governo dovrebbe bloccare l’operazione oppure intervenire direttamente ponendo condizioni. Siamo, com’è ben chiaro, di fronte al delirio politico in purezza, senza contare il fatto che quando il governo ha utilizzato il Golden power nel caso Unicredit-Bpm, il Pd ha urlato allo scandalo per l’«interventismo» dell’esecutivo. Come abbiamo detto, sono sacrosante le preoccupazioni sul mantenimento dei livelli occupazionali, molto meno comprensibili invece quelle su qualità e pluralismo dell’informazione, soprattutto se collegate alla richiesta al governo di riferire in aula firmata da Pd, Avs, M5s e +Europa.
Cosa dovrebbe fare nel concreto Giorgia Meloni? Convocare gli Elkann e Kyriakou e farsi garantire che le testate del gruppo Gedi continueranno a pubblicare gli stessi articoli anche dopo l’eventuale vendita? E a che titolo un governo potrebbe mai intestarsi un’iniziativa di questo tipo, senza essere accusato di invadere un territorio che non è di propria competenza? Con quale coraggio la sinistra che ha costantemente accusato il centrodestra di invadere il sacro terreno della libertà di stampa, ora si lamenta dell’esatto contrario? Non si sa: quello che si sa è che quando il gruppo Stellantis, di proprietà degli Elkann, ha prosciugato uno dopo l’altro gli stabilimenti di produzione di auto in Italia tutto questo allarme da parte de partiti di sinistra non lo abbiamo registrato.
Ma le curiosità (eufemismo) non finiscono qui. Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group». E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente». Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo. In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».
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Il premier, intervenendo alla prima edizione dei Margaret Thatcher Awards, evento organizzato all’Acquario Romano dalla fondazione New Direction, il think tank dei Conservatori europei: «Non si può rispettare gli altri se non si cerca di capirli, ma non si può chiedere rispetto se non si difende ciò che si è e non si cerca di dimostrarlo. Questo è il lavoro che ogni conservatore fa, ed è per questo che voglio ringraziarvi per combattere in un campo in cui sappiamo che non è facile combattere. Sappiamo di essere dalla parte giusta della storia».
«Grazie per questo premio» – ha detto ancora la premier – «che mi ha riportato alla mente le parole di un grande pensatore caro a tutti i conservatori, Sir Roger Scruton, il quale disse: “Il conservatorismo è l’istinto di aggrapparsi a ciò che amiamo per proteggerlo dal degrado e dalla violenza, e costruire la nostra vita attorno ad esso”. Essere conservatori significa difendere ciò che si ama».
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
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