2020-04-26
L’Ulisse della zona rossa è tornato a casa
Mario Foletti circondato dai medici e dagli infermieri dell'ospedale San Paolo di Milano
Si chiude con il lieto fine l'incredibile calvario di Mario Foletti nel cuore del focolaio. Il «paziente due» ha vagato per più di 60 giorni tra la vita e la morte attraverso Codogno, Crema, Pavia e Milano. La perdita dei documenti lo aveva reso il milite ignoto dell'epidemia.Anolini in brodo e saluti dalla finestra, Supermario è tornato a casa. Con lo striscione sulla cancellata, i palloncini ad aspettarlo e a commuoverlo all'ingresso di Corno Giovine (Lodi), come se avesse vinto il Giro d'Italia. Un po' lo ha fatto, impervio, terribile, due mesi abbondanti di salite e di tuffi a precipizio segnalati dall'elettrocardio che gli ha scandito il battito in terapia intensiva. Una corsa a tappe verso la vittoria, in fuga dal coronavirus nella prima zona rossa del contagio: Codogno, Crema, Pavia. E poi all'ospedale San Paolo di Milano, dove ha visto la rinascita all'ultimo chilometro. «So di essere un miracolato, avrò sempre davanti agli occhi i volti di medici e infermieri che mi hanno salvato la vita».Se nulla si sa del paziente zero e tutto è stato sviscerato del paziente uno, questa è la storia del «paziente due» Mario Foletti, autista di autobus in pensione, 65 anni a maggio, che a metà febbraio decide di andare all'ospedale di Codogno per effettuare una lastra polmonare. Routine, dicono che ci sia in giro l'influenza, ma d'inverno sarebbe strano il contrario. Qualche giorno dopo comincia a stare male, è Covid-19 e non lo sa. Nessuno è in grado di stabilire causa-effetto e lui ripeterà a chi glielo chiede: «Potrei essere stato contagiato al bar». La sua esistenza è semplice. Gli amici, quel meraviglioso Facebook live che è la chiacchiera col bianchino sul tavolo, e tanto volontariato, la mano tesa ad aiutare chi ha bisogno. Mario vive da single, niente moglie e figli, due fratelli sono morti da anni, l'unico parente è il cugino Isidoro Moschetti, che la mattina del 22 febbraio chiama l'ambulanza perché la febbre non passa e lui sta peggiorando. Viene ricoverato all'ospedale di Crema, tampone positivo, subito in isolamento. Tutto diventa veloce, tutto precipita. Racconta Isidoro: «Dopo tre o quattro giorni mi hanno detto che l'avevano trasferito al San Matteo di Pavia e che le sue condizioni erano gravi, poi gravissime. È stato due volte in coma. Alla terza telefonata ho saputo che era stato mandato all'ospedale San Paolo di Milano. Il quadro era devastante, per una certa fase muoveva solo il collo. I medici erano sempre premurosi e gentili, ma sembrava un incubo».Il calvario di Mario continua, adesso è intubato e lotta. Poiché per la legge di Murphy «se qualcosa può andare male, va male», durante uno degli spostamenti gli perdono la borsa con i documenti e il telefonino. Per qualche ora lui è un milite ignoto anche se non lo sa. Un fisiatra dell'ospedale chiama la farmacia di Corno Giovine, rintraccia il cugino, si riannodano i fili anagrafici. Il paziente due arriva vicino al ciglio del baratro come tanti, guarda gli occhi dell'abisso come scriveva Cesare Pavese. Quaranta giorni di terapia intensiva sono un record. Del periodo più duro ricorda una frase che i medici del San Paolo gli sussurravano nell'orecchio: «Stia calmo, vedrà che tra qualche giorno passa tutto». E Mario Foletti, ex autista di corriere della Bassa, si convince di dover ringraziare anche il suo carattere. È un tranquillo, sua mamma gli insegnò che preoccuparsi non serve. Respira piano, la vita scorre lenta ma scorre. Le statistiche certificano che per il 50% di coloro che entrano sotto la tenda, prima o poi finisce di scorrere.Non può piovere per sempre, diceva quello. Foletti non ha patologie pregresse e lentamente migliora, viene trasferito dalla terapia intensiva in reparto, i tamponi adesso sono negativi ma lui è uno straccio. «Un giorno mi chiamano dal reparto e mi chiedono di trasferirlo in riabilitazione specialistica», spiega Emilia Brunetti, fisioterapista, che lo accompagnerà passo dopo passo verso la normalità. «Saliamo e notiamo che fa una fatica immensa anche solo a sedersi sul bordo del letto. A un certo punto, sfinito, ci dice: tornate domani. Ho apprezzato il senso dell'umorismo. All'inizio era smarrito, coglieva l'eccezionalità di essere passato dal centro di un'epidemia e di esserne uscito vivo».Il reduce dalla zona rossa diventa la mascotte dell'ospedale, lo staff lo accudisce con simpatia. Lui si aggira con la maglietta «Baci da Formentera» e diventa un simbolo. Alla foto ricordo prima della dimissione partecipano anche il direttore generale dell'Asst Santi Paolo e Carlo di Milano, dottor Matteo Stocco, e il professor Antonino Previtera, direttore della riabilitazione specialistica. Esce con due promesse: pranzo a base di pane e salame per tutti quando l'epidemia sarà passata e acquisto immediato di uno smartphone per le videochiamate. A portarlo a casa è Emilia Brunetti, Mario non ha un euro in tasca (era tutto nella borsa) e non vuole pesare sul cugino. «L'ho fatto volentieri», spiega la fisioterapista. «Da un mese e mezzo vivevo fra la mia abitazione e l'ospedale, anche solo guidare in campagna per un'oretta è stato un diversivo eccitante». Perché queste non sono mai vittorie singole, sono vittorie di squadra. Uomini e donne con un obiettivo comune, accompagnati da un'umanità tutta italiana che è pari solo alla professionalità. Dopo più di due mesi l'Ulisse della zona rossa torna alla sua Itaca. Il paese vorrebbe abbracciarlo ma è meglio aspettare. Il cugino Isidoro spiega perché: «Lui è guarito, lo dicono tre tamponi. Il problema potremmo essere noi che non li abbiamo fatti. Meglio che saluti gli amici dalla finestra per un po'». Venerdì sera loro due hanno tirato tardi, dopo gli anolini in brodo. «Gli ho dovuto spiegare bene cos'è accaduto in Italia dal 22 febbraio a oggi». Già, perché Supermario è stato nel centro dell'uragano, ma muoveva solo il collo. E respirava piano.