L’Istat suona l’allarme sulla natalità in Italia: nei primi nove mesi del 2021 nascite inferiori al 2020 di 12.500 unità, toccato il -29,8% rispetto al 2008. A breve saremo meno di 59 milioni. Per l’istituto è colpa del «clima di incertezza e restrizioni relative alle chiusure».
L’Istat suona l’allarme sulla natalità in Italia: nei primi nove mesi del 2021 nascite inferiori al 2020 di 12.500 unità, toccato il -29,8% rispetto al 2008. A breve saremo meno di 59 milioni. Per l’istituto è colpa del «clima di incertezza e restrizioni relative alle chiusure».Pur nelle mani di due strateghi della lotta al Covid che di nome fanno Speranza e Figliuolo, gli italiani vedono nero e fanno sempre meno bambini. Lo certifica l’ultimo rapporto sulla (de)natalità dell’Istat, che lega espressamente l’ennesimo crollo delle nascite con «il clima di incertezza e le restrizioni relative al lockdown», tanto nel 2020 quanto in questo 2021. Che strano, il bombardamento mediatico quotidiano sul numero dei contagi (dato ansiogeno quanto irrilevante) e sulle «necessarie» restrizioni delle libertà fondamentali non hanno creato un’atmosfera allegra e ottimista intorno alle coppie in età fertile. Per l’Istat, alla fine di quest’anno scenderemo ufficialmente sotto i 59 milioni di abitanti e la cosiddetta emergenza Covid è così asfissiante, in Italia, che hanno smesso di far figli persino gli stranieri. Di questo passo, gli agricoltori avranno difficoltà persino a trovare chi spedire nei campi a raccogliere pomodori a tre euro l’ora.Secondo le rilevazioni dell’istituto di statistica governativo, nei primi nove mesi del 2021 le nascite sono già calate di 12.500 unità rispetto al medesimo periodo del 2020. Ovvero quasi il doppio di quanto si era verificato l’anno precedente. Nel 2020, erano nati 404.892 bambini, ben 15.000 in meno del 2019. Il numero medio di parti concluso da donne con la cittadinanza italiana è stato pari a 1,17 l’anno scorso ed è il record negativo di sempre. Se si parte dal 2008, primo anno «utile» per partorire dopo l’inizio della crisi economica dei subprime, le nascite sono calate di 171.767 unità (-29,8%). L’ultimo calo è attribuibile per la quasi totalità alle nascite da coppie di genitori italiani, che sono state 316.547 nel 2020, ovvero oltre 163.000 in meno rispetto al 2008. Dal 2012 al 2020 sono diminuiti anche i nati nelle coppie con almeno un genitore straniero (quasi 19.000 in meno) che, con 88.345 unità, costituiscono il 21,8% del totale (oltre 4.000 in meno nell’ultimo anno). Causa crisi economica e permanenza a casa dei genitori, l’età media del parto è aumentata di due anni rispetto al 1995, arrivando a 32,2 anni. Quanto ai tassi di fecondità, in un quarto di secolo sono cresciuti oltre la soglia dei trent’anni, mentre continuano a calare tra le donne più giovani. Fin qui, in termini di tendenze macro, nulla di nuovo. Ma quello che colpisce nel re port dell’Istat, diretto da Gian Carlo Blangiardo, è la diretta connessione con la pandemia cinese e la sua percezione in Italia. Nel documento diffuso ieri, si afferma espressamente che «tale forte diminuzione della natalità è da mettere in relazione al dispiegarsi degli effetti negativi innescati dall’epidemia da Covid-19, che nel solo mese di gennaio 2021 ha fatto registrare il maggiore calo di sempre (quasi 5.000 nati in meno, -13,6%)». I ricercatori hanno osservato un «forte impatto della pandemia sulle nascite» specialmente nel Nord-Ovest, che è stata l’area più colpita dalla pandemia durante la prima ondata, tanto che a dicembre 2020 il calo ha toccato il 15,4%. Sostiene l’Istat, che «il clima di incertezza e le restrizioni relative al lockdown sembrano dunque aver influenzato la scelta di rinviare il concepimento».A gennaio di quest’anno si è poi registrata la maggior riduzione di nati su base nazionale (-13,6%), con un picco nel Sud (-15,3%) che è poi proseguita, anche se in modo più contenuto, anche a febbraio (-4,9%). Ancora l’Istat osserva che quel forte calo di culle a gennaio 2021, tra i più ampi mai registrati, dopo quello già marcato degli ultimi due mesi del 2020, «lascia pochi dubbi sul ruolo svolto dall’epidemia». E per chi si fosse illuso che le minori restrizioni del 2021, unite all’accelerazione della campagna di vaccinazioni, possano aver cambiato il clima, ecco che cosa segnala il rapporto: «Tale diminuzione (da Covid, ndr) sembra l’indizio di una tendenza più duratura in cui il ritardo (nella genitorialità, ndr) è persistente o, comunque, tale da portare all’abbandono nel breve termine della scelta riproduttiva».Sottoposti alle medesime sollecitazioni e allo stesso clima «negativo», anche gli stranieri hanno iniziato a fare meno figli. Sempre l’Istat riferisce che i bambini con passaporto estero, già in calo del 3,7% tra gennaio e ottobre 2020, hanno accentuato progressivamente la tendenza alla decrescita rispetto agli italiani. A novembre e dicembre 2020 sono calati dell’11,5% contro il 9,2% dei bimbi italiani, ma il divario si amplia a gennaio 2021 (-24,4% contro -11,7%) e ancor più a febbraio (-17,3% gli stranieri contro -2,7%).Blangiardo, a commento dei dati diffusi ieri, ha annunciato che «entro la fine dell’anno in Italia ci saranno meno di 59 milioni di abitanti» e ha spiegato che ormai non ci sono più grandi differenze tra Settentrione e Meridione, quando si tratta di fare figli. «Non c’è più distinzione tra Nord e Sud», ha spiegato il presidente Istat, «e anzi, alcuni fenomeni sono più accentuati nel Meridione con il Sud che si è allineato al resto d’Italia». Così, l’Istat già anticipa che nel 2021 i 405.000 nati dell’anno scorso non verranno raggiunti, ma ci fermeremo tra i 385 e i 390.000 pargoli. Mentre per il 2050, è lecito ipotizzare che i morti saranno stabilmente più del doppio dei nati. Visto il periodo, difficile aspettarsi che le asciutte rilevazioni dell’Istat segnalino gli effetti della crisi del modello paterno sui numeri finali, ma intanto, almeno sul Covid, certificano che il conto della Grande Paura è salato. Indaffarata a dibattere del «fine vita», l’Italia appare sempre più in difficoltà sull’«inizio vita».
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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