2019-09-29
La brigatista ai domiciliari con il reddito di cittadinanza
Federica Saraceni è stata condannata a 21 anni e sei mesi per l'omicidio D'Antona. Dal 2005 è ai domiciliari, e dallo scorso agosto riceve il reddito di cittadinanza nonostante il sussidio sia precluso a chi è agli arresti. Il padre fondò Magistratura democratica.Vent'anni fa voleva disarticolare lo Stato, colpendo alcuni suoi servitori innocenti, come i consulenti del ministero del Lavoro. Quattro lustri dopo, a fine luglio 2019, a quello stesso Stato ha chiesto il reddito di cittadinanza e la sua domanda è stata accolta velocemente, tanto che ai primi di agosto aveva già percepito il primo assegno. Stiamo parlando dell'ex brigatista Federica Saraceni, condannata a 21 anni e sei mesi per associazione con finalità di terrorismo e per l'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona, freddato a 51 anni sulla via Salaria il 20 maggio 1999. Ma la ex maestra d'asilo prestata alla lotta armata non solo incassa 623 euro dal mese scorso, ma lo fa anche da una condizione particolare. È infatti agli arresti domiciliari, dove si trova dal 2005 (quando era incinta e già madre di una figlia). Peccato che tra i requisiti richiesti per ottenere il reddito ci sia quello di non essere sottoposti «a misura cautelare personale». Tra le condizioni ostative anche quella di essere stati condannati in via definitiva nei dieci anni precedenti la richiesta per reati gravissimi. Ma la sentenza definitiva della Saraceni risale al 28 giugno 2007 e almeno su questo punto la ex br risulta in regola.In ogni caso non è facile comprendere come le sia stato possibile ottenere dai domiciliari un assegno che dovrebbe essere propedeutico alla ricerca di un impiego. Nei prossimi giorni dovranno darne spiegazione quel ministero del Lavoro (con cui collaborava D'Antona quando venne assassinato) che ha ideato la misura e l'Inps che eroga il sussidio. Di certo da agosto la cinquantenne romana ha acquisito il diritto a ricevere il reddito. La donna vive con la figlia maggiorenne in una strada residenziale vicino alla Nomentana, non distante dai quartieri di Montesacro e della Bufalotta. La storia della Saraceni è particolare. Ha sempre negato di aver fatto parte delle Br, ma ha solo ammesso di essersi avvicinata per poi scoprire che si trattava di una cosa più grande di lei. I giudici della Corte di Appello di Roma e della Cassazione, grazie alle informative dell'Antiterrorismo, hanno maturato parere opposto.La foto del brigatista Mario Galesi, ucciso il 2 marzo 2003 in un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine sul treno Roma-Firenze, gli investigatori l'hanno trovata incorniciata e attaccata a una parete dell'appartamento che occupava al Collatino, nella periferia di Roma, in un palazzo popolare. L'ammirazione per Galesi la portò perfino a scrivere una lettera-necrologio sotto falso nome: «Non eri solo neppure nella tua scelta che in tanti abbiamo ritenuto coraggiosa e coerente. Hai dato la vita per sconfiggere l'ingiustizia di questo mondo. Grazie dolce Mario e onore a te». I giudici d'appello che il 24 ottobre 2006, ribaltando la decisione di primo grado, l'hanno condannata a 21 anni e 6 mesi (sentenza confermata dalla Cassazione nel 2007) l'hanno definito «un vero e proprio elogio funebre» del brigatista. E anche con Laura Proietti, maestra d'asilo proprio come lei, dissociata più che pentita, condannata a 20 anni grazie a sconti di pena per la collaborazione, intercorreva una buona amicizia. Tanto che la Proietti durante il processo cercò di scagionarla, sostenendo che parlassero di politica: «Discutevamo insieme dei Nuclei comunisti combattenti (la sigla che negli anni novanta traghetta l'antagonismo politico verso la lotta armata delle Br, ndr) verso i quali lei aveva mostrato interesse in un certo periodo, che non sono in grado di precisare con esattezza, ma certamente precedente alla decisione di ricorrere all'omicidio politico». I giudici, però, hanno in mano una scheda sim definita «blindata», ossia usata solo dai membri delle Br per comunicare tra loro. Con quella scheda Federica chiama sul posto di lavoro Daniele Bernardini, con cui cui era legata sentimentalmente, fa tre chiamate al papà, una a suo fratello e una alla società all'epoca amministrata dal suo amico Stefano Misiani, figlio di uno dei difensori della brigatista. Su quel numero veniva contattata dall'uomo che le affittò casa a Cerveteri da aprile a settembre 1999. Ergo, la scheda era sua. I giudici giungono a questa convinzione, che non viene scalfita neppure quando l'amica Proietti prova a dire: «Sono stata io a prestarle un cellulare di cui lei aveva bisogno per motivi personali. Non era un cellulare di organizzazione, ne sono certa, o almeno io non lo sapevo». Ma è il terzo gruppo di indizi che porta le toghe a definire le accuse come «concordanti e precise»: Saraceni era in possesso di una parte dell'archivio delle nuove Br. Prima di uccidere D'Antona, i rivoluzionari progettarono tre attentati e archiviarono le informazioni raccolte su un supporto digitale. Il cd rom che conteneva tutti i dettagli sui bersagli scelti (una sede della Cgil, una della Cisl e l'ufficio della Commissione di garanzia per lo sciopero), risultati di pedinamenti e sopralluoghi, compresi i motivi che portarono i brigatisti a rinunciare, era, coincidenza, a casa di Saraceni. Lei ha provato a negare. Ha detto che il dischetto le era stato dato dalla Proietti per darle la possibilità di rendersi conto, ai fini di un eventuale reclutamento, del tipo di attività che veniva svolta, ma quando aveva capito che erano cose più grandi di lei aveva desistito. Invece di restituirlo, però, lo conservò. E non le è bastato cancellare i file, perché i tecnici dei pm riuscirono a recuperarli. Per i giudici, quindi, l'imputata, visti i rapporti con Galesi e Proietti, non aveva bisogno di quel cd per capire quali fossero le attività dei gruppi eversivi.In più, da alcuni passi del documento si poteva desumere chiaramente che le attività d'inchiesta contenute nel cd rom erano state svolte da una donna (che in alcuni passaggi scriveva in prima persona e al femminile) e, in particolare, da una donna con problemi di vista (dato che fa espressa menzione della difficoltà di vedere da lontano): «Caratteristiche che si attagliano», spiegano i giudici, «perfettamente alla persona dell'imputata». Almeno in un caso, insomma, gli appostamenti sarebbero stati opera della Saraceni.È difficile immaginare, poi, che, a fini di reclutamento, un'organizzazione clandestina potesse fornire quella documentazione a un'estranea. «Il possesso di un documento operativo», sottolineano i giudici, «costituisce ulteriore indizio di partecipazione della Saraceni all'organizzazione». Il padre di Federica, Luigi Saraceni, ex toga rossa (è tra i fondatori della corrente di Magistratura democratica), dopo essere stato eletto in Parlamento nelle fila dei Democratici di sinistra e poi dei Verdi, è diventato avvocato (ha assistito, tra gli altri, Carlo De Benedetti e il leader curdo Abdullah Ocalan), in un libro autobiografico intitolato Un secolo e poco più prova a dare una spiegazione all'accaduto. Cerca di capire quanto sia coinvolta Federica in quella che definisce «una follia». Il suo è un flusso di coscienza: «Come sia potuto accadere, se è accaduto, che su mia figlia non abbiano funzionato gli anticorpi che costituiscono il patrimonio del mondo a cui ritengo di appartenere. Vediamo le carte. Mentre vado avanti nella lettura mi accorgo, con dolore, che con quel gruppo di dissennati, in qualche modo mia figlia ha avuto a che fare. Ma fino a che punto?». Saraceni ripassa a ritroso tutta la vita di sua figlia, «buona e cattiva, rabbiosa e generosa, spiritosa e indisponente, solidale ed egoista. Anche terrorista?». Papà Saraceni è sorpreso. Un po' meno stupito è apparso l'ex presidente della Camera Luciano Violante, che Magistratura democratica la lasciò dopo averla fondata per «l'insopportabile ambiguità» nei confronti del fenomeno terroristico. «Md era spaccata al suo interno», spiegò qualche anno dopo, «e c'era una componente movimentista, esagitata, che corrispondeva al cosiddetto gruppo romano e considerava il brigatismo rosso come una montatura a opera di apparati dello Stato. Questa fazione, anti Pci, faceva capo a Luigi Saraceni, padre di una terrorista».Durante la detenzione la brigatista ha chiesto al genitore di iscriverla alla facoltà di Scienze dell'educazione e della formazione. E lui, nel libro, si appunta una medaglia: «I risultati superano ogni aspettativa. Massimo dei voti e lode in entrambe le lauree, la triennale e la magistrale». Chissà cosa penserà ora di sua figlia, la brigatista laureata magna cum laude che, abbandonata la lotta armata, dai domiciliari, intasca il reddito di cittadinanza.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)