
L’ex premier inglese ha fatto errori, ma quello che è accaduto in Gran Bretagna getta ombre pure sul futuro del governo Meloni: è bastato annunciare un taglio delle tasse per scatenare la tempesta. L’idea di ridurre la pressione è tabù perfino per i mercati.Pare sia di gran moda sganasciarsi dalle risate per la rovinosa caduta dell’ormai ex primo ministro britannico Liz Truss. La cosa è perfettamente comprensibile a sinistra, dove un governo conservatore e per giunta anti tasse era visto come il fumo negli occhi; e fa curriculum in ambienti tecnocratici, dove ci si compiace della disgrazia di chi abbia osato uscire dall’ortodossia.Intendiamoci bene: la Truss si è comportata in modo catastrofico. Una catastrofe politica, in primo luogo: una volta vinta la gara per la guida del partito, ha dilettantisticamente escluso dal suo governo i pesi massimi Tories, punendo chi non l’aveva sostenuta. In ultima analisi, dentro un partito già diviso e in difficoltà, che governa da 12 anni e che realisticamente perderà le prossime elezioni generali, ha precostituito le condizioni per ritrovarsi isolata e accoltellata, come poi è puntualmente accaduto in appena 44 giorni.E purtroppo si è rivelata catastrofica anche l’attuazione di una linea economica che invece nasceva da una diagnosi corretta. Se la direzione di marcia (tagliare le tasse) era sacrosanta, la Truss e il suo (poi dimissionato) ministro dell’Economia Kwasi Kwarteng hanno commesso una serie di errori drammatici: realizzare l’alleggerimento fiscale praticamente solo in deficit, rinunciando a un’operazione di corrispondente taglio di spesa e sprechi; gestire tutto con una comunicazione pasticciata e ondivaga, sparacchiando l’annuncio dei tagli fiscali ma posticipando (anziché anticipando) un piano economico di medio termine; poi far retromarcia sulle varie misure; e in ultima analisi, dare l’idea di non essere né robusta a sufficienza per difendere i suoi principi, né accorta e flessibile per modularne la realizzazione. Da questo punto di vista, ha ragione chi fa notare quanto più cauta della Truss fosse stata Margaret Thatcher: una volta divenuta premier, la Lady di Ferro prima dimostrò di saper tenere sotto controllo il debito, e poi passò alla parte più audace del suo piano, tra tagli di tasse e apertura al mercato di tanti settori economici. Risultato? Una crescita spettacolare, ma pure una simultanea riduzione di debito, deficit e spesa pubblica complessiva. E però un’analisi intellettualmente onesta (in particolare qui dall’Italia, pensando al governo che sta nascendo) dovrebbe indurci più alla preoccupazione e al rammarico che non al compiacimento, almeno per due ragioni.La prima. Nel dibattito pubblico (britannico e internazionale, tranne poche voci purtroppo isolatissime) alla Truss non sono state contestate, come facciamo qui, le modalità imprudenti e il timing affrettato delle sue scelte, ma proprio l’obiettivo di fondo della riduzione fiscale. Nella «common wisdom», nella presunta «saggezza comune», il taglio delle tasse sembra di per sé divenuto qualcosa di pericoloso. Curiosa deriva: si può fare qualunque altra cosa (assistenzialismo selvaggio, sprechi di denaro pubblico, tassazione ai massimi) e si è qualificati come «prudenti»; ma se invece ci si muove in direzione pro contribuenti, è molto probabile essere massacrati. La seconda. Questo «pregiudizio» finisce ormai per riguardare pure i mercati. Nei primi giorni dopo l’annuncio della Truss, la reazione dei mercati è stata feroce: poi, a onor del vero, dopo qualche giorno un po’ tutto si è assestato, ma ormai l’operazione di affossamento politico del governo era già ben avviata. Lo stesso Fmi, stilando la previsione finale di crescita per il 2022, ha collocato il Regno Unito (dopo il minibudget Truss-Kwarteng) al primo posto tra i Paesi del G7, con un +3,6% che è ben più del doppio della Germania (+1,5%) e degli Usa (1,6%). Un dato lusinghiero, come si vede. Ma nel frattempo era comunque scattata (questo è il punto) una sorta di «Brexit penalty», di penalizzazione preventiva legata a Brexit, che i mercati hanno istantaneamente applicato per gambizzare e poi abbattere un governo sgradito, non allineato, e anzi orientato a mettere in discussione il totem dell’austerità.Questa è la cosa che dovrebbe spaventare anche noi, che abbiamo conosciuto (per altre ragioni) uno schema simile nel 2011 (contro il governo Berlusconi) e nel 2018 (contro il governo gialloblù): il primo abbattuto a colpi di spread, il secondo crocifisso a Bruxelles per aver osato proporre un deficit del 2,4% (poi improvvisamente «accettato» solo perché ridotto di uno 0,36% e quindi sceso al 2,04%).Da questa storia sorgono due insegnamenti. Per parte nostra, dobbiamo certamente tenere sotto controllo debito-deficit-spesa e non fare mosse avventate, legando le necessarie riduzioni di tasse a corrispondenti interventi sul lato della lotta agli sprechi. Con inflazione alta e tassi in salita, e in un contesto di politiche monetarie restrittive, i politici non hanno più i margini di manovra degli anni passati: e ogni operazione in deficit è destinata a allarmare gli investitori. Dall’altro lato, però, va segnalato che sta diventando troppo facile imporre un solo schema di gioco: tasse alte, ricchezza privata aggredita, intervento pubblico nell’economia sempre più esteso, piani statali e superstatali (tipo Pnrr) per determinare i settori da premiare con investimenti e quelli da «punire», e pilota automatico costantemente in funzione. Deriva pericolosa e da contrastare. A noi, resta solo una (magra) consolazione: il sorriso di coloro che oggi festeggiano per la caduta della Truss si spegnerà presto, non appena rivedranno tornare (è possibile) la bionda chioma di Boris Johnson.
(IStock)
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