2020-11-16
Giulio Tremonti: «Ci offrono da bere con i nostri soldi»
L'ex ministro dell'Economia: «L'esecutivo sta operando un'enorme estensione del deficit e del debito pubblico, ma non si può “ristorare" all'infinito. La bozza della prossima manovra è una collezione di bonus e marchette».Professor Giulio Tremonti, anche Campania e Toscana vengono classificate come zone rosse. Regna ancora la confusione sui criteri su cui giudicare le regioni. Coglie i segnali di un vuoto di potere? «Più che un vuoto di potere, direi il potere del vuoto. Finché dura. La situazione è molto grave ma non seria. C'è una drammatica schizofrenia tra le immagini ufficiali e le immagini reali. Quelle ufficiali sono prodotte nei palazzi allestiti come set televisivi, con sapiente regia di fondali e colori, costumi e bandiere, toni solenni intervallati dai toni del pater familias. Subito dopo, quando la televisione passa dalla finzione alla realtà, nelle strade e nei pronto soccorso degli ospedali, arrivano le immagini della sofferenza, dello smarrimento, e del caos». Qual è stata la prima mancanza nella gestione dell'emergenza? «La prima fase è stata quella della rimozione: il vero virus da battere era il virus del razzismo. E questo quando già si sapeva che si stava passando dall'epidemia alla pandemia». E la seconda fase? «La sera del primo lockdown, quando la gente già fuggiva da Milano in treno, ero in televisione: ho detto che c'era una sola norma da applicare. Una norma che sta nella Costituzione, alla lettera Q dell'articolo 117: la “profilassi internazionale" come competenza esclusiva dello Stato». Il governo avrebbe dovuto avocare a sé i poteri, con più coraggio? «In Europa si chiama “lotta contro i flagelli internazionali", e comprende tutto: non solo sanità, ma anche trasporti, edifici pubblici e confini. Su tutto questo lo Stato ha potere assoluto. Potere e dovere. Puoi considerare le realtà locali, ma devi comunque esercitare la tua supremazia». Perché invece siamo precipitati in una lotta tra ministri, governatori e sindaci? «Forse nel palazzo non conoscono la Costituzione? Forse non hanno avuto la necessaria lucidità? Forse non hanno avuto la forza? Certamente, c'è stato e c'è un terribile vacuum politico». Risultato?«In uno stato d'eccezione si applicano poteri eccezionali, non solo legislativi ma anche amministrativi. Non puoi metterti a fare le normali gare europee, i normali concorsi pubblici, e continuare ad applicare il nostro tragico codice degli appalti». Anziché uno Stato d'eccezione, uno stato confusionale? «Si è attivato un meccanismo anarchico. Ed è strano, perché di solito l'anarchia agisce da fuori contro lo Stato: questa volta è partita da dentro lo Stato. I ricorsi al Tar, le procure che accendono il loro faro, l'apparizione di figure politiche folcloristiche sui territori, sono segnali che indicano la progressiva dissoluzione della Repubblica». Fino a un certo momento sembrava che il premier venisse rafforzato dall'emergenza. «In effetti, la storia insegna che le epidemie rafforzano il potere degli stati: sul frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes ci sono due dottori della peste con la maschera a becco. Oggi siamo all'opposto: sembra che il virus abbia colpito anche il Leviatano italiano. Più che all'homo homini lupus, siamo all'homo homini virus, dove la mascherina non è solo un mezzo per proteggersi, ma il simbolo di un mondo alienato».Il premier Giuseppe Conte ha detto che «il Natale non è solo shopping, ma un momento di raccoglimento spirituale, e farlo con tante persone non va bene». «Resto impressionato dalla profondità dell'analisi antropologica. Deve aver letto il Babbo Natale giustiziato di Claude Lévi-Strauss, il saggio sull'incrocio fra mondo pagano e mondo cristiano, tra spiritualità e consumismo. Un paternalismo para-laico, diciamo così, che però porta sfortuna». Teme intoppi sulla distribuzione del vaccino? «Non all'estero. L'America e la Germania hanno già organizzato la rete di distribuzione, ben prima dell'annuncio pubblico del vaccino. Noi no». Ha notato una mancanza di visione anche sul piano dei provvedimenti economici? «Da marzo a luglio, ha preso forma un serpente legislativo composto da decine di provvedimenti. In parte ha funzionato, ma allora la gente vedeva nella pandemia la causa del male e nella azione di governo comunque qualcosa di buono. Nella seconda ondata i termini si sono rovesciati: la gente vede non più nella pandemia ma nel governo, con i suoi ritardi ed errori, la causa del male». In altre parole? «Oggi chi è in difficoltà pensa: il governo deve aiutarci perché è colpevole. Invece di prevedere la seconda ondata, esaltava il modello italiano che tutto il mondo ci invidia, e scriveva libri per celebrarlo». E siamo arrivati al sistema dei ristori. «È così che il meccanismo dei ristori, a cominciare dalla scelta della parola stessa, è venuto svincolandosi dalla pandemia. È un risarcimento per i danni compiuti dal governo, per le asimmetrie e le parzialità contenute nei dpcm. In prospettiva, la logica dei “ristori" è devastante, perché non potrai continuare a ristorare tutto e tutti all'infinito». Dietro questi sussidi c'è una mentalità sbagliata?«Non risolutivo, ma utile, sarebbe stato saltare la burocrazia, facendo direttamente gli interventi a fondo perduto. E poi sollevare dai debiti: accollarsi le bollette per i bisognosi, rinviare le tasse per le imprese in crisi». Fin quando si potrà «ristorare»?«Il governo sta operando un un'enorme estensione del deficit e del debito pubblico. Fare debito è necessario, ma è anche drammatico. Se fai debito per monopattini e biciclette confondi il dramma con la comica. E non è finita, perché nella bozza della prossima manovra c'è un'impressionante collezione di bonus&marchette. Nell'insieme è un po' come quello che va al bar e dice: “Da bere per tutti". E alla domanda: “Chi paga?", risponde “voi"». Sul Recovery Fund è stato raggiunto un primo accordo europeo: vede una luce in fondo al tunnel? «Non riusciamo a spendere i normali fondi europei, e facciamo fantasie su questi, che sono parte a debito e parte a fondo perduto. Con i tassi a zero, la parte a debito gli altri stati la chiedono al mercato, non all'Europa. Restano gli 80 miliardi a fondo perduto, che vanno contati nel dare e nell'avere. Tra nuove imposte europee, con maggiori contributi nazionali, i miliardi veri sono 40, da spalmare su più anni. Buoni, ma a pensare che sia una manna dal cielo ci facciamo del male». Si fa spesso riferimento al risparmio privato degli italiani. Teme una patrimoniale? «Il risparmio degli italiani è liquido e solido: conti e immobili, a partire dalla prima casa. Una patrimoniale non sarebbe mai sufficiente a risolvere il problema del debito, e farebbe saltare i ratios delle banche e delle assicurazioni. Gli immobili crollerebbero di valore. Insomma, è la via maestra, suggerita da élite irresponsabili, per far saltare l'Italia». Negli Stati Uniti il presidente repubblicano Donald Trump sembra uscire sconfitto. Ma la rabbia delle fasce più povere resta. «Da una parte e dall'altra si è votato sulla globalizzazione. Il blocco repubblicano ha votato per la tradizione, quello democratico non è un blocco, ma un mosaico variegato, una somma di paure e di angosce. Il tutto nel quadro della pandemia, effetto anche questo della globalizzazione». La cultura globale della finanza sta soffocando la cultura locale della politica? «La globalizzazione, prima trionfante e poi perdente, ha comunque messo in crisi la democrazia. La democrazia funziona a dominio territoriale chiuso: voti per uno che si dice capace di governare i problemi. Funziona se i problemi sono governabili. Non funziona se i problemi vengono da fuori o dall'alto, se originano dalla finanza internazionale, dalla rivoluzione digitale, o dall'opposto ancestrale della paura. Come nel caso del virus». Detto questo, cosa si aspetta dalla presidenza del democratico Joe Biden?«La presidenza democratica sarà molto rispettabile, ma senza maggioranza in Senato non sarà certamente forte». Che ne pensa dei tanti esponenti del Pd, a cominciare dal commissario europeo all'Economia Paolo Gentiloni, che hanno cantato vittoria dopo le elezioni americane? «La sinistra italiana è molto brava a vincere le elezioni da remoto. Oggi si direbbe che vincono sempre in smartworking. Alla fine degli anni Novanta pensavano di aggregarsi al trionfo della Terza Via inaugurata da Bill Clinton, Tony Blair, Gerhard Schroeder, Lionel Jospen, Romano Prodi, Massimo D'Alema e Gianfranco Vissani. Invece i popoli, oggi demonizzati come populismo, stavano andando dall'altra parte: accade così in Austria, in Spagna, in Germania, in Francia e anche nel nostro Paese. Una storia che si ripeterà in Italia, per effetto della mala gestio della pandemia».
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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