L’inchiesta che toglie il velo ai pm

L’inchiesta che toglie il velo ai pm
Sebastiano Ardita (Ansa)
Consigliere del Csm spiega che l'esposto contro Giuseppe Pignatone fu insabbiato fino al pensionamento del procuratore di Roma. «E Piercamillo Davigo sapeva delle accuse». Doppiopesismo: fonti della Verità messe in piazza, invece Corriere e Repubblica tutelati dagli omissis. La Cassazione sgretola la leggina fatta per salvare il «suocero» di Giuseppe Conte dalla condanna.

L'esposto trasmesso al Consiglio superiore della magistratura dall'ex pm Stefano Fava nei confronti dell'allora procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, nel 2019 sarebbe finito per settimane su una sorta di binario morto prima di approdare in prima commissione, quella che si occupa dell'incompatibilità ambientale dei magistrati. A denunciare l'ipotetico insabbiamento è stato il consigliere del Csm Sebastiano Ardita (nel 2019 membro della prima commissione), esponente di punta della corrente Autonomia & indipendenza. Il magistrato è stato ascoltato lo scorso 3 novembre dagli inquirenti di Perugia sulla genesi della presentazione dell'esposto al parlamentino dei giudici: «Ricordo che la comunicazione di Fava rimase ferma per diverso tempo al comitato di presidenza del Csm. È rimasta presso il comitato di presidenza dal 2 aprile al 7 maggio 2019. Io, fino all'arrivo dell'esposto (in prima commissione, ndr), mi allarmai. Pensai che si volesse remorare sulla sua trattazione […]. Il 7 maggio 2019, quando pervenne l'esposto mancavano pochi giorni al pensionamento del procuratore Pignatone». In realtà l'ex procuratore lasciò la poltrona l'8 maggio, il giorno successivo. Noi abbiamo scoperto che il comitato ha deliberato la trasmissione della pratica in commissione il 17 aprile e quindi ha impiegato circa tre settimane per salire dal primo al terzo piano del Palazzo dei Marescialli. Dunque il vicepresidente del Csm David Ermini, l'allora procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio e l'ex primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone covarono l'esposto sino alla vigilia dell'addio di Pignatone. Ricordiamo che il capo dello Stato Sergio Mattarella «parla attraverso il comitato», motivo per cui è ineludibile la domanda: fu un'iniziativa autonoma del comitato o arrivò un'indicazione dal Colle?

Mentre scriviamo ci torna in mente un'intercettazione tra il deputato Luca Lotti e Palamara, datata 9 maggio 2019, in cui il parlamentare esclama: «La roba che c'è in prima… su Roma… è pesante… sia il Quirinale, sia David lo vogliono affossare».

Le anomalie, secondo Ardita, non sarebbero finite: «In prima commissione la segnalazione di Fava pervenne con attività istruttoria già svolta. Erano stati chiesti chiarimenti al procuratore generale della Repubblica di Roma. Nella mia esperienza era la prima volta che vedevo in commissione una segnalazione già parzialmente istruita».

La prima volta sottolinea Ardita. Un'eccezione che la dice lunga sulle vie della provvidenza in toga e su come i giudici quando devono giudicare i propri simili possano rallentare e impacchettare un procedimento. Salvo metterlo sulla rampa di lancio come se fosse uno Shuttle se l'incolpato è un Palamara qualunque.

Ardita ha anche raccontato come abbia conosciuto Fava: «Nel corso della campagna elettorale Erminio Amelio (un altro pm, ndr) mi presentò Stefano Fava, dicendomi che era un collega coraggioso e di valore. Dopo tale presentazione io iniziai a contattare telefonicamente Fava per coinvolgerlo nell'attività del nostro gruppo».

Il consigliere di A&i ha dimostrato di ricordare bene gli incontri con Fava, Amelio e Piercamillo Davigo, il suo vecchio capocorrente: «Il primo avvenne il 22 gennaio 2019 […]. A un certo punto, Fava iniziò ad evidenziare alcune problematiche che aveva nella gestione dei procedimenti alla Procura di Roma. Parlò di alcune consulenze che il fratello di Pignatone aveva fatto per qualche indagato eccellente. Se non ricordo male per l'avvocato Amara. Disse che questi rapporti del procuratore creavano dei problemi all'ufficio e anche alla sua attività investigativa […] Forse fece anche riferimento a Paolo Ielo, ma in modo incidentale […] Fava non ha manifestato giudizi molto negativi su Ielo. Non era l'oggetto principale della conversazione».

Al secondo incontro, a cui partecipò nuovamente Davigo, Fava avrebbe fatto espressamente riferimento all'esposto: «Fece presente che la situazione era peggiorata nel suo ufficio e che ormai era determinato a presentare un esposto al Consiglio superiore della magistratura. Io rimasi deluso, atteso che tale scelta avrebbe fatto tramontare la possibilità di un suo coinvolgimento diretto nell'impegno associativo. Tuttavia, presi atto delle sue intenzioni e gli dissi che avrei fatto quello che era doveroso fare. Ricordo che nel corso del pranzo specificò le ragioni del contrasto con il procuratore Pignatone, anche se non ricordo nel dettaglio quanto lui riferì. […] Nei giorni successivi dissi a Davigo che se i fatti indicati da Fava erano veri era nostro compito effettuare delle verifiche ed andare sino in fondo».

Una versione che smentisce clamorosamente quella di «Piercavillo», il quale ha detto invece di aver appreso della presentazione di un esposto formale solo dopo l'uscita delle notizie sui giornali e che «le lamentazioni di Fava dovevano essere così generiche da non ricordarne l'oggetto».

Ardita ha dichiarato di aver saputo dell'effettiva presentazione dell'esposto non da Fava, ma quando apprese che all'ordine del giorno dell'ufficio di presidenza era giunta «una comunicazione da parte di un sostituto procuratore della Repubblica di Roma». I membri della commissione chiamati a valutarla si spaccarono: «Con me in commissione vi erano Luigi Spina, Paolo Criscuoli, il professor Alessio Lanzi, Filippo Donati e Alessandra Dal Moro. Al momento in cui giunse l'esposto iniziammo a parlare di cosa fare. Pensammo di sentire Fava. Anche io dissi che era opportuno sentirlo, anche se ormai aveva poco senso dopo il pensionamento di Pignatone. A mio giudizio non era possibile non sentire Fava, mi sembrava un'operazione necessaria, di trasparenza. Ricordo che non tutti erano concordi nel sentire Fava. Spina pensava di sentirlo dopo qualche tempo. Credo che non avesse fretta di sentirlo. Anche Criscuoli e il presidente Lanzi erano concordi che fosse necessario sentirlo. Alessandra Dal Moro non era favorevole all'audizione di Fava».

Per Ardita l'audizione di Fava avrebbe potuto avere rilevanza anche per la nomina del procuratore della Capitale: «In quanto avrebbe evidenziato un clima meno tranquillo di quello che appariva nella procura di Roma». Il testimone a questo punto ha tenuto a evidenziare quale fosse la sua pozione (e anche quella di Davigo) sulla nomina: «Io ero mosso solo dall'idea che venisse fatta chiarezza su tale vicenda. Secondo la mia visione a Roma doveva arrivare un procuratore che non provenisse dall'esperienza professionale romana. Io e Davigo, già da marzo, pensavamo che Marcello Viola fosse la persona più adatta». Lo stesso candidato spinto da Palamara & c..

Ardita ha anche riferito che dopo aver saputo dei rapporti, definiti «inopportuni», tra Fava e Palamara, sarebbe stato preso dallo sconforto: «Se non fosse stata chiara la differenza tra la mia iniziativa e quella di Palamara, esagerando dissi (a Fava, ndr) che avrei potuto anche dimettermi».

Davanti agli inquirenti perugini Davigo aveva biasimato gli incontri di Ardita con uno dei convitati dell'hotel Champagne (l'ex consigliere Antonio Lepre) sostenendo che avrebbero potuto essere utilizzati «come una sorta di riscontro rispetto a un'eventuale chiamata di correità». Ma poi ha opposto il segreto d'ufficio, lo stesso che Ardita non ha usato come egida.

Ha anzi chiarito di che cosa parlò con Lepre: «Era un collega del Consiglio con cui avevo lavorato tutti i giorni. Venne da me disperato e, anche se aveva sbagliato, cercai di consolarlo. Davigo contestò questo mio approccio e io gli dissi che la nostra integrità dipende dalla coerenza delle nostre scelte e non ostentando distanza da chi ha sbagliato».

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