Le aziende in crisi non si salvano con il Sì

Era il primo novembre del 2012 quando Vincenzo Boccia, allora vicepresidente di Confindustria con delega al credito, celebrava assieme all'Abi, l'Associazione bancaria italiana, la direttiva Ue con l'obiettivo di pagare i fornitori a 30 giorni. In sostanza, ribattendo a Enzo Moavero (al tempo ministro agli Affari europei) Boccia vedeva due nodi principali «i 100 miliardi di debiti della Pubblica amministrazione e le forniture della sanità», ma era convinto che questa norma avrebbe avuto «effetti positivi sulla competitività delle imprese». Non è stato così, purtroppo. Nemmeno per la Arti Grafiche Boccia.

A quel tempo la sua azienda, come si evince dall'analisi di bilancio in pagina, pagava i fornitori a 127 giorni di media. Per passare a 167 soltanto due anni dopo. Quasi sei volte tanto la elogiata norma europea. Il capo di Confindustria oggi dovrebbe sapere che le celebrazioni del 2012 erano mera teoria che non riguarda le aziende italiane. Lo sa perché nello stesso lasso di tempo i giorni di attesa medi che la sua azienda deve mettere in conto per incassare una fattura sono passati da 201 a 267. E i suoi clienti sono i big della grande distribuzione, compreso i gruppi editoriali come L'Espresso, Rcs e Il Sole24Ore, che edita il quotidiano di proprietà di Viale dell'Astronomia in tribolazione finanziaria e patrimoniale. Quasi nove mesi di attesa sono una enormità. E ci chiediamo come non possa scontrarsi con le dichiarazioni di ottimismo della classe dirigente italiana. E a volte proprio con le uscite dello stesso Boccia, in versione presidente di Confindustria.

Il ritratto della Arti Grafiche, che esce dal lavoro di Alessandro Fischetti, è infatti quello di migliaia di aziende italiane. La perfetta sintesi delle problematiche che affliggono il tessuto produttivo delle piccole e medie imprese.

Le Arti Grafiche nel 2014 (ultimo bilancio disponibile) registrano poco meno di 40 milioni di ricavi contro 24,7 milioni di debiti verso le banche e altri 23,2 milioni di leasing. In sostanza l'ottimo margine operativo lordo (circa 11%) si ritrova gravato da una cinquantina di milioni di debiti, che – senza interventi straordinari - l'azienda del numero uno di Confindustria impiegherebbe venti anni a ripagare (vedere pagina a fianco).

Nel 2036 non sapremo però dove sarà l'Italia. Per il Centro Studi di Confindustria dovremmo attendere il 2028 per rivedere un tasso di occupazione pre-crisi e senza riforme dovremo aspettarci una manovra di stabilità da almeno 16 miliardi nel brevissimo periodo, sempre che – fa capire il Csc – questo Paese non porti a termine finalmente le «benedette» riforme. Purtroppo non è così semplice. Se invece Confindustria uscisse dallo schema politico o dalla volontà di appoggiare il governo Renzi probabilmente capirebbe che non basta un Sì al referendum costituzionale per risollevare i problemi che affliggono centinaia di migliaia di aziende italiane. Debiti verso le banche, scarso cash flow e tensione finanziaria hanno creato il circolo vizioso che grazie a Mario Draghi resta anestetizzato. La verità è che con i tassi sotto zero nessuno cresce e nessuno fallisce. Avremo davanti a noi un altro anno o forse 24 mesi di anestesia. Ma quando i tassi ripartiranno lo faranno di colpo e le aziende pesantemente indebitate rischieranno il fallimento. Nel frattempo sarebbe meglio non fare altro deficit, ma tagliare la spesa pubblica. Solo così si tagliano le tasse e si aiuta le aziende a far circolare maggiore liquidità. Non è certo la panacea di tutti i mali. Ci vorrà ben altro che va sotto il nome di competitività. Ma almeno è il primo passo.

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