
Il racconto di Andrea Santoni, ex distributore di giornali nell'azienda di Tiziano: «Suo figlio ci portava le copie da vendere ai semafori, poi ritirava gli incassi. A noi restava una quota. Mai visto un contratto». Un altro ex dipendente conferma la storia.«A me Luigi Di Maio non piace, ma in Italia se non fai del nero non è possibile lavorare. C'è chi lo fa in modo normale, per guadagnare qualcosa, e chi esagera». La singolare difesa d'ufficio del vicepremier arriva da Londra ed è affidata a uno chef fiorentino trapiantato in Gran Bretagna. Leggere tutte le polemiche sul lavoro in nero di casa Di Maio lo ha fatto sorridere. Ma soprattutto lo hanno fatto sogghignare gli attacchi di Matteo e Tiziano Renzi, per i quali, 21 anni fa, ha lavorato rigorosamente senza contratto.Andrea Santoni nel 1997 aveva 20 anni e un problema: «Nessuno mi voleva assumere perché ero in attesa di partire per il militare. Con le leggi di allora, se qualcuno mi avesse preso come apprendista, e fossi partito il giorno dopo, l'imprenditore avrebbe dovuto tenermi il posto, senza potermi sostituire se non con un lavoratore a tempo indeterminato. Per questo non trovavo niente. E così un amico mi disse che una sua amica lavorava per un certo Matteo Renzi, che all'epoca era come dire Mario Rossi. «Questo ragazzo ha la Speedy Florence, vendono i giornali. Si guadagna abbastanza bene», mi ragguagliò. Andai a parlare con Matteo a Rignano sull'Arno. Il colloquio durò una ventina di minuti. Alla fine venni ingaggiato». Quanto guadagnava distribuendo quotidiani? «Mi ricordo che la percentuale che restava in tasca a me aumentava in base al numero di copie vendute. Se superavo le 50 mi sembra che mi rimanessero 200 lire. Anche il fisso era legato alle vendite. Io avevo 10-20.000 lire garantite al dì e poi un tot a giornale». Quindi aveva un contratto? «Assolutamente no. Io non ho mai firmato nulla e non ho dovuto presentare alcun documento. Era tutto in nero. Alla Speedy il contratto, forse, ce lo avevano in tre o quattro. Ai Renzi andava bene così e anche a me. Non prendiamoci in giro». Sta affermando una cosa piuttosto grave. «Perché? In azienda girava solo cash e andava bene a tutti. Credo che nessuno chiedesse ai Renzi di essere regolarizzato. Al loro posto forse mi sarei comportato allo stesso modo. A fare certe cose ti costringe lo Stato». Quanto ha lavorato con la Speedy? «Ho dovuto lasciare dopo circa 6 mesi perché mi hanno chiamato per il servizio di leva». Come si svolgeva una giornata tipo di quell'impiego? «La mattina mi svegliavo presto, perché i giornali si vendono bene la mattina: tra le 5 e le 6, io e gli altri ci recavamo nel parcheggio sotterraneo della stazione dove arrivava Matteo con il furgone e i quotidiani, che ci consegnava. Di solito questa cosa la faceva lui, ma alle volte lo sostituiva il padre. L'ex premier ci dava una zona e un semaforo. Io prendevo i giornali, raggiungevo la mia postazione e li vendevo. A casa facevo i conti e poi preparavo la busta con il denaro per i Renzi. La mattina dopo mi presentavo con il plico e con la resa del giorno prima. Matteo prendeva le buste con i nostri nomi, ma non le apriva davanti a noi». Dunque il passaggio dei soldi avveniva con l'ex premier? «Anche con il padre. Dipendeva da chi c'era la mattina». Invece i controlli venivano fatti a Rignano sull'Arno. Anche se aveva solo 22 anni, Matteo coordinava tutte le operazioni: «A me disse: “Tu adesso dovrai fare il jolly perché i semafori sono tutti impegnati. Puoi iniziare così. Quando andrà via qualcuno ti darò una postazione fissa". In zona Questura vendevo una cinquantina di copie, poi Matteo mi mandò in via Scipione Ammirato, nella zona di piazza Alberti, vicino a casa mia, e passai a 70 copie. Per una settimana mi diede via Masaccio, dove si vendevano 180 copie al giorno. Con quelle mi sono pagato una vacanza a Minorca, in Spagna. Via Masaccio era il posto di Leonardo Pepi (figlio di Guidalberto Pepi, ex candidato sindaco del Msi ndr). Ma quando andò in ferie, Matteo ci mise me».Il racconto di Santoni è condiviso da un altro ex collega che chiameremo Paolo, visto che preferisce non apparire con la sua vera identità. Lui ha collaborato con la Chil, tra il 1995 e il 1996, quando i giornali venivano consegnati davanti alla sede della Nazione e la distribuzione era un po' meno organizzata. «Ho lavorato con i Renzi un paio d'anni. Mi misi d'accordo per consegnare i quotidiani in una strada della mia zona di residenza. Sceglievo io a quale altezza. Il primo mese ho preso circa 700.000 lire. In più incassavo 100 lire per ogni giornale venduto. Io trattenevo la mia parte e consegnavo il resto a Matteo. Poi Tiziano ha scoperto che gli conveniva annullare il fisso e darci tutto in nero. In quel modo prendevo, se non ricordo male, 500 lire per ogni copia di giornale. E la cosa conveniva anche a noi». I Renzi non pagavano i contributi e i ragazzi incassavano cifre consistenti. «Io che vendevo oltre 100 copie la mattina e altrettante la notte, quando La Nazione era appena uscita, riuscivo a racimolare sino a 150.000 lire al giorno. A fine mese mi mettevo in tasca anche 2 milioni e mezzo». Paolo conferma in larga parte il racconto di Santoni: «Ai tempi della Chil la maggior parte delle volte a prendere le rese si presentava Matteo. Quindi i soldi in contanti li davo a lui. Facevamo i calcoli e poi me ne andavo con la mia parte». Gli strilloni erano quasi tutti conoscenti dell'ex segretario Pd: «In famiglia pescavano tra gli amici scout di Matteo e dei suoi fratelli». La maggior parte erano studenti. «Successivamente i Renzi hanno iniziato a lavorare con gli extracomunitari, ma non so se attuassero con loro le nostre stesse condizioni» conclude Paolo.Quando nel 1998 i Renzi ricevettero la visita dell'Inps presentarono un modulo-contratto che sostennero di aver fatto sottoscrivere a tutti i collaboratori («più che altro per essere individuati con nome, cognome e dati fiscali» ha specificato un giudice) e, in esso, la prestazione era definita di «massima autonomia». In realtà Andrea Santoni e Paolo ci hanno riferito entrambi di aver operato in vie predefinite e concordate con i Renzi. In ogni caso, per l'Inps, quello con gli strilloni era da considerare un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. Il 25 maggio 1998, dopo una serie di accertamenti, l'istituto previdenziale multò la Chil per quasi 35 milioni di lire e la Speedy per circa 1 milione di lire per non aver pagato i contributi ai distributori di giornali. Il 16 ottobre 2000 il Tribunale di Firenze respinse respinse i ricorsi dei Renzi. Secondo il giudice Giovanni Bronzini, «la continuità dell'impegno dei circa 500 strilloni emergeva indiscutibilmente» e, quindi, i Renzi avrebbero dovuto pagare un contributo sulle loro prestazioni. Oneri che la famiglia dell'ex premier, hanno pagato, in parte, solo dopo una sentenza della Cassazione.
Carlo Nordio (Ansa)
Interrogazione urgente dei capogruppo a Carlo Nordio sui dossier contro figure di spicco.
La Lega sotto assedio reagisce con veemenza. Dal caso Striano all’intervista alla Verità della pm Anna Gallucci, il Carroccio si ritrova sotto un fuoco incrociato e contrattacca: «La Lega», dichiarano i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, «ha presentato un’interrogazione urgente al ministro Carlo Nordio sul caso del dossieraggio emerso nei giorni scorsi a danno del partito e di alcuni suoi componenti. Una vicenda inquietante, che coinvolge il finanziere indagato Pasquale Striano e l’ex procuratore Antimafia Federico Cafiero de Raho, attualmente parlamentare 5 stelle e vicepresidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie. Ciò che è accaduto è gravissimo, pericoloso, e va oltre ogni logica di opposizione politica», concludono, «mettendo a rischio la democrazia e le istituzioni. Venga fatta chiarezza subito».
Ambrogio Cartosio (Imagoeconomica). Nel riquadro, Anna Gallucci
La pm nella delibera del 24 aprile 2024: «Al procuratore Ambrogio Cartosio non piacque l’intercettazione a carico del primo cittadino di Mezzojuso», sciolto per infiltrazione mafiosa. Il «Fatto» la denigra: «Sconosciuta».
Dopo il comunicato del senatore del Movimento 5 stelle Roberto Scarpinato contro la pm Anna Gallucci era inevitabile che il suo ufficio stampa (il Fatto quotidiano) tirasse fuori dai cassetti le presunte valutazioni negative sulla toga che ha osato mettere in dubbio l’onorabilità del politico grillino. Ma il quotidiano pentastellato non ha letto tutto o l’ha letto male.
Federico Cafiero De Raho (Ansa)
L’ex capo della Dna inviò atti d’impulso sul partito di Salvini. Ora si giustifica, ma scorda che aveva già messo nel mirino Armando Siri.
Agli atti dell’inchiesta sulle spiate nelle banche dati investigative ai danni di esponenti del mondo della politica, delle istituzioni e non solo, che ha prodotto 56 capi d’imputazione per le 23 persone indagate, ci sono due documenti che ricostruiscono una faccenda tutta interna alla Procura nazionale antimafia sulla quale l’ex capo della Dna, Federico Cafiero De Raho, oggi parlamentare pentastellato, rischia di scivolare. Due firme, in particolare, apposte da De Raho su due comunicazioni di trasmissione di «atti d’impulso» preparati dal gruppo Sos, quello che si occupava delle segnalazioni di operazione sospette e che era guidato dal tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano (l’uomo attorno al quale ruota l’inchiesta), dimostrano una certa attenzione per il Carroccio. La Guardia di finanza, delegata dalla Procura di Roma, dove è approdato il fascicolo già costruito a Perugia da Raffaele Cantone, classifica così quei due dossier: «Nota […] del 22 novembre 2019 dal titolo “Flussi finanziari anomali riconducibili al partito politico Lega Nord”» e «nota […] dell’11 giugno 2019 intitolata “Segnalazioni bancarie sospette. Armando Siri“ (senatore leghista e sottosegretario fino al maggio 2019, ndr)». Due atti d’impulso, diretti, in un caso alle Procure distrettuali, nell’altro alla Dia e ad altri uffici investigativi, costruiti dal Gruppo Sos e poi trasmessi «per il tramite» del procuratore nazionale antimafia.
Donald Trump e Sanae Takaichi (Ansa)
Il leader Usa apre all’espulsione di chi non si integra. E la premier giapponese preferisce una nazione vecchia a una invasa. L’Inps conferma: non ci pagheranno loro le pensioni.
A voler far caso a certi messaggi ed ai loro ritorni, all’allineamento degli agenti di validazione che li emanano e ai media che li ripetono, sembrerebbe quasi esista una sorta di coordinamento, un’«agenda» nella quale sono scritte le cadenze delle ripetizioni in modo tale che il pubblico non solo non dimentichi ma si consolidi nella propria convinzione che certi principi non sono discutibili e che ciò che è fuori dal menù non si può proprio ordinare. Uno dei messaggi più classici, che viene emanato sia in occasione di eventi che ne evocano la ripetizione, sia più in generale in maniera ciclica come certe prediche dei parroci di una volta, consiste nella conferma dell’idea di immigrazione come necessaria, utile ed inevitabile.






