2019-06-13
L’appello dei grandi manager a favore dell’aborto: «È un bene per l’economia»
Sul New York Times esce il comunicato di 180 amministratori delegati di aziende come Twitter, H&M e Warner. Che se la prendono con gli Stati americani pro vita.Sono tutti manager di altissimo livello, per lo più formati in scuole d'élite, dunque sanno come esprimersi in modo elegante e sanno come vendere. Ecco perché la chiamano «salute riproduttiva», cercando il più possibile di evitare la parola «aborto». Dopo tutto, chi potrebbe mai mettere in dubbio il «diritto alla salute»? «Aborto» è un termine brutto e cattivo, che rende perfettamente l'orrore della pratica. Ma la «salute», invece, ha tutto un altro suono, rassicurante. Eccolo, l'abracadabra della correttezza politica: un vero incantesimo che offusca le menti. Gli apprendisti stregoni del neoliberismo, professionisti della magia nera, se ne sono serviti anche in questa occasione. Lunedì ben 180 amministratori delegati di aziende americane di primo piano e multinazionali hanno comprato una pagina del New York Times per pubblicare l'appello «Don't ban equality». Tradotto: «Non mettete al bando l'eguaglianza». E, di nuovo, è una viscida magia: parlare di «eguaglianza» è un altro stratagemma per non dire «aborto». A riunire il gruppone di manager sono state associazioni come Planned Parenthood, Naral e Aclu, ovvero i colossi abortisti statunitensi. I quali hanno imbastito una campagna per contrastare le iniziative di Stati come la Georgia, l'Alabama, il Mississippi, il Kentucky e la Louisiana, che nelle scorse settimane hanno introdotto una legislazione più restrittiva riguardo l'interruzione di gravidanza. A quanto pare, le nuove norme a difesa della vita proprio non piacciono ai giganti del mercato. «L'uguaglianza sul posto di lavoro», scrivono i 180 Ceo nel loro appello, «è una delle questioni di business più importanti del nostro tempo. Quando tutti hanno la possibilità di avere successo, le nostre aziende, le nostre comunità e la nostra economia sono migliori». E fin qui, si potrebbe persino essere d'accordo. Poi, però, arrivano le note dolenti. «Limitare l'accesso a cure riproduttive complete, incluso l'aborto, minaccia la salute, l'indipendenza e la stabilità economica dei nostri dipendenti e clienti. In poche parole, va contro i nostri valori e fa male agli affari. Ciò compromette la nostra capacità di [...] reclutare i migliori talenti in tutti gli Stati e proteggere il benessere di tutte le persone che mantengono vivi i nostri affari». Secondo i dirigenti delle multinazionali, a causa delle restrizioni sull'aborto «il futuro dell'uguaglianza di genere è in bilico, mettendo a rischio le nostre famiglie, le comunità, le imprese e l'economia».Queste dichiarazioni sono state sottoscritte da personaggi come Peter T. Grauer di Bloomberg; Philippe Pinatel di Mac Cosmetics; Diane von Furstenberg (titolare dell'omonimo marchio); Mark e Karen Wolverton di Lush Cosmetics; Jeremy Stoppelman di Yelp; Maria Pope della Portland general electric. E poi da Jack Dorsey, ovvero il Ceo di Twitter e di Square.Inc; Andrea Blieden di The Body shop; Elie Seidman di Tinder; Ezinne Kwubiri di H&M; Julie Greenwald di Warner Music e tanti, tantissimi altri. Già un mese fa compagnie come Disney, Netflix e WarnerMedia avevano annunciato il boicottaggio degli Stati pro vita. Era prevedibile: il mondo dell'intrattenimento è completamente asservito al pensiero dominante. Ma con l'appello dei 180 accade qualcosa di diverso. Troviamo aziende di moda, produttori di cosmetici, compagnie che si occupano di finanza e di comunicazioni, marchi dell'alimentare. Insomma ci troviamo davanti a una cordata pro aborto che copre quasi tutti i settori produttivi. Il che, sinceramente, spaventa un po'. Ma soprattutto fa capire bene chi sia, oggi, ad alimentare la cultura della morte. A sconcertare, per altro, sono le argomentazioni addotte dai vari manager. In buona sostanza, costoro sostengono che l'aborto facile fa bene all'economia. Da un certo punto di vista, non si vede come il calo delle nascite possa giovare a un Paese, motivo per cui la tesi risulta folle. Da un'altra prospettiva, tuttavia, il ragionamento degli amministratori delegati una logica ce l'ha, benché mostruosa. Questi signori (e signore) sostengono che limitare l'aborto faccia venire meno «l'indipendenza» dei dipendenti, la loro capacità di «avere successo» e persino la loro «stabilità economica». Certo: se il successo prevede turni di lavoro massacranti e sfruttamento, è ovvio che i figli siano un impedimento. Motivo per cui eliminarli prima che nascono è un toccasana per il business. Meno femmine con prole tra i piedi vuol dire più donne da gettare nel tritacarne della competizione neoliberista. Come diceva Gilbert Keith Chesterton, bisogna che i dipendenti siano «abbastanza forti da poter compiere il proprio lavoro, ma abbastanza deboli da doverlo fare». Questa è la logica del capitalismo sfrenato: invece di offrire alle donne orari più umani, stipendi migliori, supporto alla maternità (tutte cose costose e faticose), molto meglio garantire il «diritto all'aborto», così potranno liberarsi dei fardelli sgraditi e dedicarsi anima e corpo al lavoro. Quindi sì, l'aborto fa bene agli affari. La domanda è: agli affari di chi, esattamente?