2022-07-03
«Lancet» smonta le punture ai bimbi
La rivista legge lo studio italiano sui piccoli tra 5 e 11 anni come la prova che inseguirli con l’ago «non è una strategia efficace». Intanto, lo scudo vaccinale è sempre più fragile.Non è passato inosservato lo studio italiano di ministero della Salute e Iss, condotto su 3 milioni di bambini tra 5 e 11 anni e pubblicato su The Lancet. Il verdetto è un mattone sul marketing della puntura ai piccini: con Omicron, l’efficacia del farmaco di Pfizer è scesa al 29,4% per quanto riguarda i contagi (con un ulteriore calo al 21,4%, dopo meno di tre mesi dalla seconda dose) e al 41,1% rispetto alle forme gravi di Covid. I nostri ricercatori hanno voluto dedurne che «anche una protezione moderata ha contribuito significativamente a ridurre gli effetti dell’infezione». Nel suo editoriale, uscito sempre sulla rivista inglese, l’epidemiologo della Uk Health security agency, Shamez Ladhani, arriva a conclusioni diverse.L’esperto ricorda che quando si tratta di decidere se attuare una misura di sanità pubblica, bisogna valutarne i rischi e i benefici. In questo caso, il calcolo va fatto in rapporto a una situazione in cui, per i piccoli, il pericolo di finire in ospedale a causa del coronavirus è molto limitato. A ciò, spiega Ladhani, si aggiunge l’inconcludenza dei principali argomenti usati per giustificare la corsa alle baby iniezioni. In primo luogo, appunto, nello scenario Omicron, il vaccino ha dimostrato di poter conferire solo una protezione «limitata» e «di breve periodo». A questo difetto, qualcuno ha proposto di ovviare con i richiami. Con buona pace del metodo scientifico, ormai le policy sono tutte tarate sul dogma vaccinale e sul suo corollario: il vaccino non funziona? Ci vuole più vaccino. Peccato, scrive Ladhani, che «l’esperienza reale negli adulti indichi che la protezione contro l’infezione da Sars-Cov-2 svanirà entro poche settimane dalla terza dose». Il fatto che il preparato di Pfizer non schermi dai contagi smonta, poi, la teoria per cui inoculare i nipoti servirebbe a proteggere i nonni. Ed è agghiacciante che, solo pochi giorni fa, sulle colonne della Stampa, l’avesse tirata fuori di nuovo Guido Forni, accademico dei Lincei. Se i competenti sbagliano, occorre rivedere la definizione di competenti; se mentono, bisogna che qualcuno li inchiodi alle loro bugie. Neppure la prevenzione dei potenziali strascichi del Covid fornisce un sostegno adeguato a chi vorrebbe rifilare le dosi ai bimbi. Nel Regno Unito, rileva l’autore dell’editoriale su The Lancet, l’incidenza della Mis-c, la temibile sindrome infiammatoria multisistemica, «è andata diminuendo già da quando è emersa la variante Delta, anche in assenza di vaccinazioni durante l’ondata di Delta e con bassi tassi di vaccinazione durante l’ondata di Omicron». Quanto al long Covid, le iniezioni riducono, sì, il rischio di postumi della malattia negli adulti; però non c’è prova che facciano altrettanto nei bambini. È ciò che si evince dalle ricerche più all’avanguardia, uscite sul Journal of infection e sulla stessa Lancet. Perciò Ladhani dichiara che «è improbabile che la sola vaccinazione sia una strategia efficace». Sul suo profilo Twitter, a proposito del progetto di inseguire con l’ago i poppanti dai sei mesi in su, l’esperto è stato financo più tranchant: «Con i vaccini Covid disponibili ora per gli under 5, i benefici, rispetto ai rischi, saranno ancora più marginali, specie dal momento che la maggior parte dei bimbi è stata già esposta al Sars-Cov-2. Qual è il beneficio di vaccinare, o addirittura somministrare il booster a bambini che sono stati già esposti al virus? Non ci sono dati». È un altro punto cruciale, che proprio la situazione italiana contribuisce a illuminare.Dall’ultimo report dell’Iss si evincerebbe che, nella fascia 5-11 anni, l’unica classe a non aver fatto registrare né contagi né ricoveri è quella dei vaccinati con due dosi da oltre quattro mesi. È plausibile ci sia un errore: zero casi in un mese? È pressoché impossibile. Di sicuro, però, i vaccinati «vecchi», pure nei documenti precedenti, apparivano i più protetti. Il forte sospetto è che siano entrati in contatto con Omicron e che beneficino della più stabile e duratura immunità naturale. Se, in generale, il rischio che un ragazzino di quell’età finisca in corsia per il Covid è trascurabile, che senso ha andargli dietro con la siringa, anziché adottare la tecnica inglese - lasciar correre il virus? Tanto più che lo studio sul quale si basa l’editoriale di The Lancet includeva una coorte di individui seguiti solo fino ad aprile. Nei due mesi e mezzo successivi, la performance del vaccino è ulteriormente peggiorata. Lo certifica il bollettino: l’incidenza dei contagi è superiore tra i bambini «tridosati» che tra quelli non vaccinati. Il riscontro è in linea con le indagini israeliane: nella medesima fascia d’età, esse indicano che il vaccino ha efficacia negativa ormai dallo scorso febbraio. Quanto ai ricoveri, nel monitoraggio Iss la differenza è minima: 3,61 ogni 100.000 persone tra i non vaccinati, 2,74 tra i vaccinati da meno di 120 giorni, 2,38 tra i vaccinati con ciclo incompleto. Sono numeri risicati (82 ospedalizzati «scoperti» e 30 con doppio «shot» recente) e che non distinguono tra chi è finito in corsia per o con il Covid. E le terapie intensive? Fortunatamente, troppo poche per fare inferenze. Si nota un dettaglio curioso: dei quattro piccini ricoverati, due sono non vaccinati e due sono vaccinati da meno di quattro mesi. Solo che, in quella categoria anagrafica, i non vaccinati sono molti di più: quasi 2 milioni e 300.000, contro meno di 1 milione e 100.000. Quando i numeri potevano essere stiracchiati per alimentare il panico, si pontificava di «paradosso statistico». Non sfrutteremo gli stessi trucchetti. Ma pretendiamo che chi di dovere, finalmente, apra gli occhi.
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