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2019-04-26
Lambert condannato a morire di fame e sete
Ansa
Vincent Lambert muoia di fame e di sete. È una sentenza che sa di condanna a morte, quella che il Consiglio di stato francese ha emesso mercoledì, convalidando l'interruzione dell'alimentazione e idratazione di un uomo di 42 anni tetraplegico e in stato di minima coscienza da 11. Eppure è un verdetto che ormai pare difficilmente ribaltabile. I giudici, infatti, nel confermare che continuare a curare il paziente Lambert costituisce «ostinazione irragionevole», altro non fanno che richiamare un criterio della legge Leonetti-Claeys che in questi casi permette appunto l'interruzione di alimentazione e idratazione. Tuttavia, per capire fino in fondo la gravità della vicenda, occorre ripercorrerla dal principio.
Tutto inizia il 29 settembre 2008 quando, in seguito a un incidente stradale, Vincent Lambert, infermiere psichiatrico del Centro ospedaliero di Châlons-en-Champagne, cade in coma profondo. Una condizione da cui esce per ritrovarsi com'è tutt'ora, e cioè in stato di minima coscienza. Nel luglio 2011, su richiesta della famiglia, l'uomo è ammesso per una relazione medica al Coma science group del professor Steven Laureys, uno dei maggiori esperti mondiali nei meccanismi e nei gradi di coscienza. Il luminare certifica che Lambert versa in uno stato di «coscienza minima più» e, a riprova di come sia vivo e vegeto, raccomanda di provare a stabilire con lui un codice di comunicazione.
La situazione cambia radicalmente quando, nell'ottobre 2012, Eric Kariger, il medico che aveva in cura Vincent a Reims, decide - incurante delle proteste della famiglia - d'interrompere tutte le cure fisioterapiche spiegando che esse «non migliorano il suo stato neurologico». Curiosamente, è lo stesso dottor Kariger che appena un mese prima aveva concesso ai genitori di portare il suo paziente alcuni giorni in vacanza nella casa di famiglia nella Drôme sottolineando, parole sue, che «Vincent non è un paziente complicato».
Poi, all'improvviso, il medico cambia radicalmente idea e per Lambert e per la sua famiglia inizia un calvario nel calvario. E il 5 aprile 2013, come se non bastasse, i medici fanno capire a Pierre e Viviane Lambert, i genitori, che devono iniziare a prepararsi «per far partire» il figlio. In realtà, trattasi di decisione già presa con la sola messa al corrente di Rachel, la moglie, che da quel momento, insieme al nipote François, inizia a sua volta una battaglia legale per ottenere l'interruzione dell'idratazione e dell'alimentazione del congiunto.
C'è da sottolineare che la determinazione mortifera dei medici è tale che già nel 2013, senza informare i genitori, essi sottraggono a Lambert il sondino dell'alimentazione. L'uomo però, anche se con soli 200 centimetri cubi di acqua al giorno, sopravvive per 31 giorni. Da allora parte una complicata battaglia giudiziaria da parte della famiglia che, dopo che il Consiglio di Stato ha dato ragione all'ospedale, intenzionato a eutanasizzare il suo paziente, provano a ricorrere alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che il 5 marzo 2015 conferma la cessazione dell'alimentazione e dell'idratazione. Con un temporaneo tentennamento, i medici decidono però di non applicare la decisione, cosa che provoca un'azione giudiziaria del nipote dell'uomo.
Nel frattempo c'è da dire che, proprio come nel caso di Alfie Evans, la struttura dove egli è ricoverato si rifiuta di lasciare che Lambert venga trasferito in altre cliniche che pure hanno manifestato la volontà di continuare l'alimentazione e l'idratazione, riprendendo terapie interrotte. Alla fine, forti della legittimazione giudiziaria ottenuta, il 9 aprile 2018 i medici dall'ospedale Chu Sébastopol di Reims decidono di procedere. La loro decisione viene ulteriormente autorizzata dal tribunale amministrativo il 31 gennaio di quest'anno, nonostante una perizia medica ordinata dagli stessi giudici abbia concluso che continuare a nutrire Lambert non si configura come «trattamento irragionevole od ostinazione irragionevole».
Per evitare il peggio, Viviane Lambert decide allora di ricorrere al Consiglio di Stato nella speranza di fermare e ribaltare la sentenza di gennaio, che di fatto condanna suo figlio al terribile destino toccato a Terry Schiavo. Una speranza, quella della donna, che poche ore fa si è infranta. Il che è paradossale se si pensa che parliamo di un uomo - come certificato da una lettera inviata ai giudici da 55 specialisti della presa in cura di persone in stato di coscienza alterato - che «non è in coma, né esposto a un rischio vitale, né in fin di vita». Suonano dunque comprensibili le parole di Jean Paillot, l'avvocato dei genitori di Lambert, che già a gennaio aveva parlato di sentenza «scandalosa».
Il problema è che, se da un lato la madre di quest'uomo non trova un giudice disposto a riconoscere il diritto di suo figlio a vivere, dall'altro i media, diversamente da quanto accaduto in Italia con Eluana Englaro - con il padre Beppino idolatrato dal giornalismo à la page -, nulla fanno per sostenerla nella sua battaglia. Non solo. La stampa progressista ha perfino preso di mira la famiglia. Basti pensare a Le Monde che ha definito i genitori di Lambert amici dei «cattolici integralisti della Fraternità sacerdotale di san Pio X». Come se loro e i 110.000 sostenitori del comitato formatosi per scongiurare la soppressione di quello che, di fatto, è un disabile gravissimo come in Francia ce ne sono 1.700, conducessero una crociata. Come se non bastasse la ragione a capire che un paziente tetraplegico in stato di minima coscienza deve essere curato e non ucciso.
Un anno fa la tragedia di Alfie Evans. Nasce una Fondazione in suo ricordo
A ricordare la commozione di quei giorni, sembra impossibile. Eppure dalla scomparsa di Alfie Evans, il bimbo inglese di neppure 2 anni che alle 2.30 del 28 aprile 2018 è morto all'Alder Hey Hospital di Liverpool a causa della sospensione del respiratore, è già passato un anno. La vicenda, che La Verità aveva seguito con molta attenzione, merita di essere ricordata.
Alfie era nato a Liverpool il 9 maggio 2016 da Thomas Evans, elettricista ventenne, e Kate James, estetista di un anno più giovane. A sette mesi dal parto, il piccolo aveva contratto un'infezione toracica causa di forti convulsioni e, da quel momento, era rimasto attaccato ai supporti vitali artificiali dell'Alder Hey di Liverpool. Di lì a poco si scopre che soffre di una malattia rara, una patologia neurodegenerativa del gruppo delle epilessie miocloniche progressive per cui non esistono terapie che portino a un miglioramento. Così, nel dicembre 2017 l'equipe medica che l'aveva in cura stabilisce che, siccome il bambino non ha possibilità di guarigione, la ventilazione artificiale che lo tiene in vita può essere sospesa. Per rafforzare la loro decisione, i dottori sottolineano d'aver esaurito tutte le opzioni possibili per Alfie, opponendosi al desiderio dei genitori di trasferirlo altrove.
Sì, perché nel frattempo diverse strutture si fanno avanti, prima fra tutte l'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. In questa fase, del tutto contrari all'ipotesi che il figlio venga lasciato morire, Thomas e Kate ingaggiano una battaglia legale che finisce direttamente all'Alta Corte inglese. Purtroppo, però, il 20 febbraio 2018 il giudice Anthony Hayden decide in favore dei medici, valutando come la sospensione della ventilazione risulti «nel migliore interesse del piccolo».
A quel punto da un lato i genitori tentano ogni strada possibile e, dall'altro, scatta una gara di solidarietà internazionale, che vede il nostro Paese in prima fila. Infatti il 15 aprile papa Francesco, che era già intervenuto sulla vicenda, lancia un nuovo appello in favore di Alfie Evans, con il padre che viene ricevuto in Vaticano. Pochi giorni dopo, il 23, i nostri ministri degli Esteri, Angelino Alfano e dell'Interno, Marco Minniti, concedono al piccolo la cittadinanza italiana, confidando di agevolarne il trasferimento al Bambino Gesù. Tutto inutile. Il 24 aprile intorno alle 22.30 ad Alfie Evans vengono staccate le macchine per la respirazione. Nelle ore successive, prima la Corte europea dei diritti umani rifiuta l'ennesimo ricorso dei genitori, poi la Corte d'Appello londinese si oppone al trasferimento in Italia di Alfie, che muore dopo 48 ore.
Ciò nonostante, Tom e Kate hanno deciso di guardare avanti. Così, nell'estate scorsa è uscita la notizia della nascita di Thomas, il fratellino di Alfie, venuto al mondo l'8 agosto. Nel corso di un'intervista rilasciata ad Avvenire, Thomas Evans ha inoltre annunciato di voler tenere viva la memoria del figlio «attraverso la fondazione che stiamo costituendo». «Già una quindicina di bambini hanno fatto richiesta per le loro cure», ha spiegato papà Evans, «e noi vogliamo aiutarli, per evitare che ad altri possa accadere quel che è capitato ad Alfie». È l'impegno di chi ha toccato con mano un dolore immenso e vuole evitare che si ripeta.
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Riduci
Il Consiglio di Stato francese convalida l'interruzione dell'alimentazione e idratazione dell'uomo, con coscienza minima da 11 anni. Secondo i giudici curarlo è «un'ostinazione irragionevole». La vera follia è la sentenza: non è in coma, né esposto a un rischio vitale.Un anno fa la tragedia di Alfie Evans. Nasce una Fondazione in suo ricordo. Gli fu staccato il respiratore. Il papà: «Nessun bambino dovrà soffrire come lui» .Lo speciale comprende due articoli.Vincent Lambert muoia di fame e di sete. È una sentenza che sa di condanna a morte, quella che il Consiglio di stato francese ha emesso mercoledì, convalidando l'interruzione dell'alimentazione e idratazione di un uomo di 42 anni tetraplegico e in stato di minima coscienza da 11. Eppure è un verdetto che ormai pare difficilmente ribaltabile. I giudici, infatti, nel confermare che continuare a curare il paziente Lambert costituisce «ostinazione irragionevole», altro non fanno che richiamare un criterio della legge Leonetti-Claeys che in questi casi permette appunto l'interruzione di alimentazione e idratazione. Tuttavia, per capire fino in fondo la gravità della vicenda, occorre ripercorrerla dal principio.Tutto inizia il 29 settembre 2008 quando, in seguito a un incidente stradale, Vincent Lambert, infermiere psichiatrico del Centro ospedaliero di Châlons-en-Champagne, cade in coma profondo. Una condizione da cui esce per ritrovarsi com'è tutt'ora, e cioè in stato di minima coscienza. Nel luglio 2011, su richiesta della famiglia, l'uomo è ammesso per una relazione medica al Coma science group del professor Steven Laureys, uno dei maggiori esperti mondiali nei meccanismi e nei gradi di coscienza. Il luminare certifica che Lambert versa in uno stato di «coscienza minima più» e, a riprova di come sia vivo e vegeto, raccomanda di provare a stabilire con lui un codice di comunicazione.La situazione cambia radicalmente quando, nell'ottobre 2012, Eric Kariger, il medico che aveva in cura Vincent a Reims, decide - incurante delle proteste della famiglia - d'interrompere tutte le cure fisioterapiche spiegando che esse «non migliorano il suo stato neurologico». Curiosamente, è lo stesso dottor Kariger che appena un mese prima aveva concesso ai genitori di portare il suo paziente alcuni giorni in vacanza nella casa di famiglia nella Drôme sottolineando, parole sue, che «Vincent non è un paziente complicato». Poi, all'improvviso, il medico cambia radicalmente idea e per Lambert e per la sua famiglia inizia un calvario nel calvario. E il 5 aprile 2013, come se non bastasse, i medici fanno capire a Pierre e Viviane Lambert, i genitori, che devono iniziare a prepararsi «per far partire» il figlio. In realtà, trattasi di decisione già presa con la sola messa al corrente di Rachel, la moglie, che da quel momento, insieme al nipote François, inizia a sua volta una battaglia legale per ottenere l'interruzione dell'idratazione e dell'alimentazione del congiunto.C'è da sottolineare che la determinazione mortifera dei medici è tale che già nel 2013, senza informare i genitori, essi sottraggono a Lambert il sondino dell'alimentazione. L'uomo però, anche se con soli 200 centimetri cubi di acqua al giorno, sopravvive per 31 giorni. Da allora parte una complicata battaglia giudiziaria da parte della famiglia che, dopo che il Consiglio di Stato ha dato ragione all'ospedale, intenzionato a eutanasizzare il suo paziente, provano a ricorrere alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che il 5 marzo 2015 conferma la cessazione dell'alimentazione e dell'idratazione. Con un temporaneo tentennamento, i medici decidono però di non applicare la decisione, cosa che provoca un'azione giudiziaria del nipote dell'uomo. Nel frattempo c'è da dire che, proprio come nel caso di Alfie Evans, la struttura dove egli è ricoverato si rifiuta di lasciare che Lambert venga trasferito in altre cliniche che pure hanno manifestato la volontà di continuare l'alimentazione e l'idratazione, riprendendo terapie interrotte. Alla fine, forti della legittimazione giudiziaria ottenuta, il 9 aprile 2018 i medici dall'ospedale Chu Sébastopol di Reims decidono di procedere. La loro decisione viene ulteriormente autorizzata dal tribunale amministrativo il 31 gennaio di quest'anno, nonostante una perizia medica ordinata dagli stessi giudici abbia concluso che continuare a nutrire Lambert non si configura come «trattamento irragionevole od ostinazione irragionevole».Per evitare il peggio, Viviane Lambert decide allora di ricorrere al Consiglio di Stato nella speranza di fermare e ribaltare la sentenza di gennaio, che di fatto condanna suo figlio al terribile destino toccato a Terry Schiavo. Una speranza, quella della donna, che poche ore fa si è infranta. Il che è paradossale se si pensa che parliamo di un uomo - come certificato da una lettera inviata ai giudici da 55 specialisti della presa in cura di persone in stato di coscienza alterato - che «non è in coma, né esposto a un rischio vitale, né in fin di vita». Suonano dunque comprensibili le parole di Jean Paillot, l'avvocato dei genitori di Lambert, che già a gennaio aveva parlato di sentenza «scandalosa».Il problema è che, se da un lato la madre di quest'uomo non trova un giudice disposto a riconoscere il diritto di suo figlio a vivere, dall'altro i media, diversamente da quanto accaduto in Italia con Eluana Englaro - con il padre Beppino idolatrato dal giornalismo à la page -, nulla fanno per sostenerla nella sua battaglia. Non solo. La stampa progressista ha perfino preso di mira la famiglia. Basti pensare a Le Monde che ha definito i genitori di Lambert amici dei «cattolici integralisti della Fraternità sacerdotale di san Pio X». Come se loro e i 110.000 sostenitori del comitato formatosi per scongiurare la soppressione di quello che, di fatto, è un disabile gravissimo come in Francia ce ne sono 1.700, conducessero una crociata. Come se non bastasse la ragione a capire che un paziente tetraplegico in stato di minima coscienza deve essere curato e non ucciso.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lambert-condannato-a-morire-di-fame-e-sete-2635546074.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-anno-fa-la-tragedia-di-alfie-evans-nasce-una-fondazione-in-suo-ricordo" data-post-id="2635546074" data-published-at="1765478523" data-use-pagination="False"> Un anno fa la tragedia di Alfie Evans. Nasce una Fondazione in suo ricordo A ricordare la commozione di quei giorni, sembra impossibile. Eppure dalla scomparsa di Alfie Evans, il bimbo inglese di neppure 2 anni che alle 2.30 del 28 aprile 2018 è morto all'Alder Hey Hospital di Liverpool a causa della sospensione del respiratore, è già passato un anno. La vicenda, che La Verità aveva seguito con molta attenzione, merita di essere ricordata. Alfie era nato a Liverpool il 9 maggio 2016 da Thomas Evans, elettricista ventenne, e Kate James, estetista di un anno più giovane. A sette mesi dal parto, il piccolo aveva contratto un'infezione toracica causa di forti convulsioni e, da quel momento, era rimasto attaccato ai supporti vitali artificiali dell'Alder Hey di Liverpool. Di lì a poco si scopre che soffre di una malattia rara, una patologia neurodegenerativa del gruppo delle epilessie miocloniche progressive per cui non esistono terapie che portino a un miglioramento. Così, nel dicembre 2017 l'equipe medica che l'aveva in cura stabilisce che, siccome il bambino non ha possibilità di guarigione, la ventilazione artificiale che lo tiene in vita può essere sospesa. Per rafforzare la loro decisione, i dottori sottolineano d'aver esaurito tutte le opzioni possibili per Alfie, opponendosi al desiderio dei genitori di trasferirlo altrove. Sì, perché nel frattempo diverse strutture si fanno avanti, prima fra tutte l'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. In questa fase, del tutto contrari all'ipotesi che il figlio venga lasciato morire, Thomas e Kate ingaggiano una battaglia legale che finisce direttamente all'Alta Corte inglese. Purtroppo, però, il 20 febbraio 2018 il giudice Anthony Hayden decide in favore dei medici, valutando come la sospensione della ventilazione risulti «nel migliore interesse del piccolo». A quel punto da un lato i genitori tentano ogni strada possibile e, dall'altro, scatta una gara di solidarietà internazionale, che vede il nostro Paese in prima fila. Infatti il 15 aprile papa Francesco, che era già intervenuto sulla vicenda, lancia un nuovo appello in favore di Alfie Evans, con il padre che viene ricevuto in Vaticano. Pochi giorni dopo, il 23, i nostri ministri degli Esteri, Angelino Alfano e dell'Interno, Marco Minniti, concedono al piccolo la cittadinanza italiana, confidando di agevolarne il trasferimento al Bambino Gesù. Tutto inutile. Il 24 aprile intorno alle 22.30 ad Alfie Evans vengono staccate le macchine per la respirazione. Nelle ore successive, prima la Corte europea dei diritti umani rifiuta l'ennesimo ricorso dei genitori, poi la Corte d'Appello londinese si oppone al trasferimento in Italia di Alfie, che muore dopo 48 ore. Ciò nonostante, Tom e Kate hanno deciso di guardare avanti. Così, nell'estate scorsa è uscita la notizia della nascita di Thomas, il fratellino di Alfie, venuto al mondo l'8 agosto. Nel corso di un'intervista rilasciata ad Avvenire, Thomas Evans ha inoltre annunciato di voler tenere viva la memoria del figlio «attraverso la fondazione che stiamo costituendo». «Già una quindicina di bambini hanno fatto richiesta per le loro cure», ha spiegato papà Evans, «e noi vogliamo aiutarli, per evitare che ad altri possa accadere quel che è capitato ad Alfie». È l'impegno di chi ha toccato con mano un dolore immenso e vuole evitare che si ripeta.
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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Riduci
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 dicembre 2025. Con il nostro Fabio Amendolara commentiamo gli ultimi sviluppi del caso Garlasco.
L'amministratore delegato di SIMEST Regina Corradini D’Arienzo (Imagoeconomica)
SIMEST e la Indian Chamber of Commerce hanno firmato un Memorandum of Understanding per favorire progetti congiunti, scambio di informazioni e nuovi investimenti tra imprese italiane e indiane. L'ad di Simest Regina Corradini D’Arienzo: «Mercato chiave per il Made in Italy, rafforziamo il supporto alle aziende».
Nel quadro del Business Forum Italia-India, in corso a Mumbai, SIMEST e Indian Chamber of Commerce (ICC) hanno firmato un Memorandum of Understanding per consolidare la cooperazione economica tra i due Paesi e facilitare nuove opportunità di investimento bilaterale. La firma è avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del ministro indiano del Commercio e dell’Industria Piyush Goyal.
A sottoscrivere l’accordo sono stati l’amministratore delegato di SIMEST, Regina Corradini D’Arienzo, e il direttore generale della ICC, Rajeev Singh. L’intesa punta a mettere in rete le imprese italiane e indiane, sviluppare iniziative comuni e favorire l’accesso ai rispettivi mercati. Tra gli obiettivi: promuovere progetti congiunti, sostenere gli investimenti delle aziende di entrambi i Paesi anche grazie agli strumenti finanziari messi a disposizione da SIMEST, facilitare lo scambio di informazioni e creare un network stabile tra le comunità imprenditoriali.
«L’accordo conferma la volontà di SIMEST di supportare gli investimenti delle imprese italiane in un mercato chiave come quello indiano, sostenendole con strumenti finanziari e know-how dedicato», ha dichiarato Corradini D’Arienzo. L’ad ha ricordato che l’India è tra i Paesi prioritari del Piano d’Azione per l’export della Farnesina e che nel 2025 SIMEST ha aperto un ufficio a Delhi e attivato una misura dedicata per favorire gli investimenti italiani nel Paese. Un tassello, ha aggiunto, che rientra nell’azione coordinata del «Sistema Italia» guidato dalla Farnesina insieme a CDP, ICE e SACE.
SIMEST, società del Gruppo CDP, sostiene la crescita internazionale delle imprese italiane – in particolare le PMI – lungo tutto il ciclo di espansione all’estero, attraverso export credit, finanziamenti agevolati, partecipazioni al capitale e investimenti in equity.
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Riduci