2019-10-09
La tragicommedia Giampaolo-Pioli è un autogol delle ex stelle del Milan
Zvominir Boban e Paolo Maldini si sono messi a fare i dirigenti con esiti nefasti: hanno puntato su un allenatore inesperto, per poi silurarlo senza pietà. Al suo posto volevano Luciano Spalletti, ma la trattativa è naufragata pubblicamente. «Scegliete me o Van Basten». In fondo glielo aveva detto, Arrigo Sacchi li aveva avvertiti con quel paradossale braccio di ferro una vita fa. Silvio Berlusconi scelse il centravanti, al Milan il calciatore è sacro e l'ex calciatore ancora di più, soprattutto se ha attraversato la lunga e gloriosa stagione del mito. Oggi questo è un problema, mentre Stefano Pioli si appresta a sedersi sulla panchina che Marco Giampaolo ha scaldato per sette partite, il tempo di perderne quattro e di veder passare il rapido verso casa. Il posto scotta ancora prima che il nuovo tecnico indossi la tuta, i tifosi sono in subbuglio, ieri c'è stata contestazione davanti alla sede al Portello e su Twitter uno dei trend topic italiani è #PioliOut. Un eccesso surreale, grottesco. Ovviamente il «normal one» (così viene definito l'allenatore parmigiano per il suo equilibrio un po' soporifero) non ha alcuna parte in questa tempesta preventiva che riassume l'amarezza infinita del popolo rossonero, tradito dai suoi eroi di sempre: i calciatori diventati allenatori o dirigenti. Paolo Maldini e Zvone Boban, entrati in società per riportarvi la fiamma della vittoria e indicare la strada ai non milanisti, sono ritenuti i responsabili principali di questo inizio di stagione da incubo, balbettante. Nessuna saggezza, nessuna copertura per Giampaolo già smarrito di suo e in rottura continuata. Boban si limitava a chiamarlo «l'interista». I due direttori si sono rivelati grandi calciatori con nessuna esperienza dietro la scrivania e poca voglia di apprendere. E se il croato può vantare un percorso accennato da dirigente alla Fifa, Maldini neppure quello; solo mezza stagione ad ascoltare (quella scorsa), con l'obbligo di non aprire bocca, durante la gestione di Leonardo. Un altro, a conferma che il Milan non riesce a staccarsi dai suoi pupilli, anzi ne è prigioniero. Sembra la maledizione di Max Mirabelli e Marco Fassone, cacciati al grido: «Il Milan ai milanisti». Per la verità l'elenco è lunghissimo, parte dagli ultimi fuochi berlusconiani: Clarence Seedorf, Filippo Inzaghi, Rino Gattuso (il più meritevole), Cristian Brocchi. Alessandro Costacurta e Demetrio Albertini no, ma solo perché hanno rifiutato. Il Milan li ha tentati tutti e provati tutti. Ma nessuno poteva essere all'altezza perché nessuno aveva mai allenato nulla, aveva mai diretto nulla, aveva mai organizzato nulla. Tantomeno un club così prestigioso, con un passato così impegnativo, con la bacheca più ricca dopo quella del Real Madrid e la necessità di ripartire dai fondamentali per questioni finanziarie dopo l'uscita di scena del Cavaliere. Dopo la danza cinese di Yonghong Li. Dopo l'irrituale passaggio al fondo Elliott. I terremoti non sono fatti per i ragazzini né per gli esperimenti. L'ex calciatore non può essere un'ossessione. Nell'era di Maurizio Sarri (ex impiegato di banca) e di Jürgen Klopp (giocò nel Magonza, punto) non è necessario aver vinto lo scudetto per essere ottimi dirigenti. O sei Carlo Ancelotti oppure lascia perdere. Di Jorge Valdano, Zinedine Zidane, Pep Guardiola e Antonio Conte ne nascono col contagocce. Ed essere stato un mago del dribbling non significa sapere guidare in automatico un pool amministrativo di alto livello. «Ma Pavel Nedved alla Juventus e Xavier Zanetti all'Inter funzionano». Obiezione respinta, perché i due sono semplici testimonial di un modo di essere, di uno stile. Coreografia da tribuna d'onore, o ti adatti oppure saluti. Le decisioni le prendono sempre e comunque altri. Nel business del pallone di oggi vale la milonga di Paolo Conte: «Si sbagliava da professionisti». Constatazione amara ma realistica contro la quale è andata a sbattere anche l'autostima di Francesco Totti. Al Milan si è concretizzato negli anni qualcosa di irrazionale. Il club condotto nella leggenda dello sport da un genio della panchina (Sacchi) che era stato rappresentante di calzature, da un tecnico che da calciatore aveva fatto il terzino nei dilettanti, continua ad affidarsi a ex campioni coccolati e inutili, in difficoltà estrema nello scendere dalla foto ricordo appesa alla parete. E che non stanno trovando validi maestri in Paolo Scaroni (banchiere digiuno di calcio amministrato) e nel pesce fuor d'acqua Ivan Gazidis, ancora in modalità «che ci faccio io qui». Lo ha confermato il tentativo di arrivare a Luciano Spalletti (i tifosi volevano lui per provare la rincorsa alla zona Champions), fallito perché il budget rossonero oggi non può coprire l'intero costo (15 milioni) del contratto ancora in essere con l'Inter. Così siamo a Pioli, dopo uno psicodramma che doveva essere evitato. Dopo uno showdown che doveva essere gestito in altro modo, con un allenatore gettato a mare prima delle canoniche dieci-partite-dieci. Dello staff di Giampaolo rimane a Milanello solo Luigi Turci, il preparatore dei portieri che ha instaurato un rapporto perfetto con Gigio Donnarumma. «C'è più amarezza che dispiacere», ha dichiarato Albertini. «È come se il club ogni anno dovesse ripartire da zero». Una corsa a ostacoli, con le vecchie glorie che invece d'essere un valore aggiunto sembrano un peso. Tranne una, l'unica forse indispensabile ma ormai lontana, evocata sui social nel giorno del grande caos: «Silvio ritorna!».
Jose Mourinho (Getty Images)