2021-12-16
La sinistra non ama la nazione e odia i patrioti
È bastato che Giorgia Meloni li citasse per scatenare il coro di critiche dei sinceri democratici, per i quali tutto puzza di fascismo. Oggi solo i conservatori possono difendere la comunità dall’ideologia «immunitaria», che decostruisce e atomizza la società.È davvero peculiare il funzionamento della mente progressista. I sinceri democratici di casa nostra sono impegnati da anni a riscrivere il dizionario, a stiracchiare e forzare il significato delle parole, a modificare il linguaggio allo scopo di influenzare i pensieri delle masse. Si baloccano con gli asterischi e con il vocabolario «inclusivo», però quando qualcun altro prova a utilizzare un termine nel suo senso pieno e nobile vanno su tutte le furie. Hanno passato anni a svillaneggiare i «populisti» prima e i «sovranisti» poi. Adesso, non paghi, se la prendono con quel vocabolo bello e limpido che è «patriota». È bastato che Giorgia Meloni lo citasse per scatenare l’inferno: Michele Serra si è divertito, nella sua Amaca, a sbertucciare chi fa professione d’amor patrio. Addirittura Stefano Fassina - che pure si era accomodato, da sinistra, sul fronte sovranista - ha colto l’occasione per affermare che «un patriota non può essere nazionalista». Insomma, il consueto spettacolo circense con tanto di elefanti e orsi in bicicletta.Già il fatto che si sia sollevata una simile cagnara la dice lunga. L’auspicio che al Quirinale salga un patriota dovrebbe - in una nazione decente - essere condiviso da tutti. Ma ormai, sul fronte progressista, l’idea di difendere gli interessi nazionali suona come una pericolosa eresia da sopprimere con la massima ferocia. Un tempo i socialisti andavano fieri del proprio patriottismo, e persino il Partito comunista si vantava di tutelare gli interessi della famiglia (cioè della cellula che consente lo sviluppo dell’intero corpo nazionale). Oggi, invece, hanno prevalso l’internazionalismo deviato, la convinzione che sia meglio sottomettersi agli interessi stranieri che garantiscono onori e coccarde, la folle pretesa di sgretolare ogni confine. In questo quadro, l’ossessione progressista per le «oscure forze della reazione in agguato» trasforma anche il patriota (come il sovranista, il populista e ogni altra figura che odori di destra) in un pericoloso fascista da eliminare. In compenso, i nostri baldi internazionalisti non si fanno problemi a invocare il bene della nazione quando si tratta di richiedere al popolo di fornire il braccio alla patria e farsi inoculare senza se e senza ma, figlioletti compresi. In quel caso - e solo in quel caso - il richiamo ai valori sacri della nazione è concesso. Ma per tutto il resto… Tocca dedurne che chi abbia a cuore gli interessi della patria oggi non possa collocarsi tra le rovine della sinistra.Potremmo sostenere che a fissare i pilastri del patriottismo italiano sia stato quel sottovalutatissimo pensatore che risponde al nome di Giuseppe Mazzini. In un’opera capitale intitolata I doveri dell’uomo, egli indicava quali fossero «le cose più sante che noi conosciamo»: Dio, patria e famiglia. Ebbene, questi tre concetti supremi sono esattamente quelli che la sinistra (italiana e occidentale) oggi intende distruggere. In nome di che cosa, poi? Del profitto, ovviamente, cioè della forza propulsiva del neoliberismo. Mazzini lo aveva previsto. «Senza patria», scriveva, «voi non avete nome, né segno, né voto, né diritti, né battesimo di fratelli tra i popoli. Siete i bastardi dell’umanità. […] Dove non è patria, non è patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l’egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serba, dacché non v’è tutela comune a propria tutela».Ecco il punto: senza patria c’è il regno selvaggio dell’interesse, il mercato sregolato in cui s’affrontano all’ultimo sangue gli spiriti animali del capitalismo. Non ci sono valori superiori, non c’è spirito, non c’è comunità. E la patria, prima di tutto, è comunità, cioè unione di uomini basata non sull’interesse bensì sul munus, cioè il dono. Un dono che vincola alla gratitudine, che impone di accettare il regalo che ci è stato fatto e di esserne degni, rendendolo poi ai posteri. Tale legame comunitario è un legame di fratellanza, e si può essere fratelli soltanto se esiste un principio superiore (che può essere Dio, per i credenti, ma pure la nazione stessa) il quale legittima il legame famigliare allargato e l’eguaglianza di base che ne deriva.Di questi tempi, la comunità è stata sostituita dall’immunità, cioè la pretesa di non dover restituire nulla, di non aver niente di cui essere grati. L’individuo immune è slegato dai suoi vicini, sciolto da ogni vincolo. Egli pensa soltanto ai propri diritti, mai ai doveri. Collocato nella contingenza sanitaria, il concetto di immunità si traduce in una sorta di guerra civile a bassa intensità. Bisogna «immunizzarsi» per proteggersi dagli altri, per poter lavorare ed essere «liberi» di fare shopping (sintetizzava bene qualcuno: «Produci, consuma, crepa»). Pur di «funzionare», di mantenere operativo il «corpo-macchina» siamo disposti a discriminare i vicini, a infierire sui presunti «untori», a «espellere dalla società» una fetta della popolazione. In sostanza, siamo disposti a smembrare la patria credendo così di salvare noi stessi, e il governo ci spinge con decisione su questo cammino suicida. Essere patrioti, oggi, significa opporsi alle divisioni dilanianti imposte dall’alto. Significa conservare prima di tutto quel poco di comunità che ci rimane. Il patriota, dunque, non può non essere conservatore.Certo, dalle nostre parti non è mai esistita e non esiste una tradizione conservatrice del tipo britannico o statunitense. Da quel mondo, tuttavia, si possono ricavare alcuni utili spunti. Ad esempio quelli che fornisce un bellissimo saggio di Russell Kirk appena pubblicato dall’editore D’Ettoris. S’intitola The American Cause. Il manuale del buon conservatore, e ribadisce il concetto fondamentale che innerva tutta l’opera di Kirk, ovvero la «prudenza». Essere prudenti non significa essere «moderati» o bigotti o retrogradi. Ma, appunto, conservare il più possibile la tradizione, opporsi alla disgregazione imperante. Kirk se la prendeva in particolare con gli «ideologi» della distruzione, cioè gli intellettuali e i politici convinti che la politica sia «uno strumento rivoluzionario per trasformare la società e per trasformare addirittura la natura umana». Per questo motivo celebrava la rivoluzione americana (in qualche modo conservatrice) e criticava quella francese. I rivoluzionari francesi, spiegava, «volendo rifare da capo la società e la natura umana, ruppero con il passato, sfidarono la storia, abbracciarono dogmatismi astratti e caddero così sotto il dominio sanguinario di una ideologia mostruosa». È esattamente ciò che sta capitando a noi oggi. Stiamo cadendo sotto i colpi di una ideologia «immunitaria» che ci vuole tramutare in atomi persi nel vuoto, che intende decostruire - con le armi della tecnica - i corpi e le menti. Le strampalate teorie sulla fluidità di genere, il sostegno all’immigrazione di massa, il controllo sociale imposto dalle Reti informatiche, e persino la nuova religione sanitaria sono tutte manifestazioni del pensiero immunitario.Al cospetto di chi intende decostruire ogni cosa, non resta che conservare. Perciò serve un patriota al Quirinale, perciò servono patrioti ovunque. L’alternativa è l’avanzata del nulla, la vittoria di chi fa il deserto e lo chiama progresso.
Iil presidente di Confindustria Energia Guido Brusco
Alla Conferenza annuale della federazione, il presidente Guido Brusco sollecita regole chiare e tempi certi per sbloccare investimenti strategici. Stop alla burocrazia, realismo sulla decarbonizzazione e dialogo con il sindacato.
Visione, investimenti e alleanze per rendere l’energia il motore dello sviluppo italiano. È questo il messaggio lanciato da Confindustria Energia in occasione della Terza Conferenza annuale, svoltasi a Roma l’8 ottobre. Il presidente Guido Brusco ha aperto i lavori sottolineando la complessità del contesto internazionale: «Il sistema energetico italiano ed europeo affronta una fase di straordinaria complessità. L’autonomia strategica non è più un concetto astratto ma una priorità concreta».
La transizione energetica, ha proseguito Brusco, deve essere affrontata con «realismo e coerenza», evitando approcci ideologici che rischiano di danneggiare la competitività industriale. Decarbonizzazione, dunque, ma attraverso strumenti efficaci e con il contributo di tutte le tecnologie disponibili: dal gas all’idrogeno, dai biocarburanti al nucleare di nuova generazione, dalle rinnovabili alla cattura e stoccaggio della CO2.
Uno dei nodi principali resta quello delle autorizzazioni, considerate un vero freno alla competitività. I dati del Servizio Studi della Camera dei Deputati parlano chiaro: nel primo semestre del 2025, la durata media di una Valutazione di Impatto Ambientale è stata di circa mille giorni; per ottenere un Provvedimento Autorizzatorio Unico ne servono oltre milleduecento. Tempi incompatibili con la velocità richiesta dalla transizione.
«Non chiediamo scorciatoie — ha precisato Brusco — ma certezza del diritto e responsabilità nelle decisioni. Il Paese deve premiare chi investe in innovazione e sostenibilità, non ostacolarlo con inefficienze che non possiamo più permetterci».
Per superare la frammentazione normativa, Confindustria Energia propone una legge quadro sull’energia, fondata sui principi di neutralità tecnologica e sociale. Uno strumento che consenta una pianificazione stabile e flessibile, in linea con l’evoluzione tecnologica e con il coinvolgimento delle comunità. Una recente ricerca del Censis evidenzia infatti come la dimensione sociale sia cruciale: i cittadini sono disposti a modificare i propri comportamenti, ma servono trasparenza e dialogo.
Altro capitolo centrale è quello delle competenze. «Non ci sarà transizione energetica senza una transizione delle competenze», ha ricordato Brusco, rilanciando la necessità di investire nella formazione e nel rafforzamento della collaborazione tra imprese, università e scuole.
Il presidente ha infine ringraziato il sindacato per il rinnovo del contratto collettivo nazionale del settore energia e petrolio, definendolo un esempio di confronto «serio, trasparente e orientato al futuro». Un modello, ha concluso, «basato sul dialogo e sulla corresponsabilità, capace di conciliare la valorizzazione del lavoro con la competitività delle imprese».
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