2020-03-23
«La pandemia è come la guerra. Ma chiudere tutto non si può»
Il governatore ligure Giovanni Toti: «I 25 miliardi del decreto bastano per 15 giorni. È giusto lo stop nelle Regioni più colpite, ma nel resto d'Italia bisogna rimettersi presto a produrre».Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria, ha accettato un'intervista a tutto campo con La Verità. E lancia un appello: la macchina dell'economia non deve fermarsi, se non ovviamente nelle zone più colpite. Anzi, occorre usare questo momento, come fa la Germania, per preparare la controffensiva, quando l'emergenza coronavirus sarà alle spalle. E occorrono risorse adeguate, non sussidi e mancette. Come sta, presidente? «Sono prudente, ma sto bene: stiamo lavorando, anzi non ci siamo mai fermati insieme al mio staff che ringrazio. Parafrasando l'ammiraglio Horatoi Nelson prima di Trafalgar, la nazione si aspetta che ognuno faccia il suo dovere. E poi, al di là del lavoro e del rischio, questi sono i momenti in cui si forgia il carattere di una nazione. Siamo chiamati a essere all'altezza della nostra storia». Ha il rimpianto di non essere stato ascoltato per tempo insieme ai suoi colleghi governatori del Nord, quando in diversi avevate sollecitato misure precauzionali più dure? Ha la sensazione che servisse più ascolto da parte di altri?«È indubbio che ci sia stato un periodo di grande confusione, e forse anche di sottovalutazione. Occorre essere sinceri: confusione e sottovalutazione che poi sono state sperimentate anche in Paesi più strutturati di noi. Quello che chiedo adesso, però, è che si dica la verità, e che non si cerchino coperte di Linus… Siamo davanti a tre crisi: una crisi sanitaria, una crisi economica, e una possibile crisi sociale. Si rischia una tempesta perfetta su tutto quello che siamo, sull'Italia come sistema. Diciamolo: da 70 anni forse non conoscevamo davvero guerra, dolore sacrificio. Abbiamo conosciuto spesso molta retorica e inni nazionali più che altro per i Mondiali e gli Europei di calcio…».Com'è stato possibile perdere un mese a parlare di emergenza razzismo, dimenticando l'emergenza sanitaria? Lo spettacolo dei conduttori tv con gli involtini primavera, le campagne «abbraccia un cinese», le visite agli asili… Quanto tempo perso, non le pare?«Non solo, c'è stato anche qualche tentativo di lucrare vantaggi politici dalla situazione. Non dimentico l'altalena tra il “tutti in casa" e il “non ci si ferma"… In alcuni momenti la cosa assomigliava più che altro a un reality show. Tanti errori: alcuni per colpa, qualcun altro forse anche per dolo. Però adesso, stando al fronte, vedendo ogni ora persone che entrano negli ospedali, penso che occorra mordersi la lingua e silenziare le polemiche. Sia chiaro: non mi riferisco ai media, e nemmeno alle opposizioni che, non essendoci un governo di unità nazionale, devono fare il mestiere del cane da guardia».Ma non sarebbe l'ora, anche considerando la prova dell'esecutivo Conte, di archiviare l'attuale schema di governo, e dar vita in un giorno a un war cabinet bipartisan, a una vera unità nazionale? «Nei momenti più difficili di una nazione, si fa. Certo, occorrerebbero partiti solidi e in buona salute politica per farlo. Sarebbe un gesto di maturità. E mi pare qualcosa - se comprendo bene - non estraneo al senso dell'ultimo giro di telefonate del capo dello Stato».Presidente, i numeri italiani sono bruttissimi: non solo la cifra assoluta, ma alcuni elementi che fanno riflettere. Percentuali sopra l'8% di persone che non ce la fanno e muoiono. Come si spiegano questi dati? In Corea del Sud, pur essendo partiti nello stesso momento, la mortalità è stata incomparabilmente inferiore. Che idea si è fatto? Non era quello forse il modello da seguire?«Stiamo ancora brancolando nel buio rispetto alla natura e alle caratteristiche del virus. E neanche sappiamo quanto sia ormai realmente diffuso in Italia. Certamente, sta falcidiando le persone più vulnerabili, ma non risparmia nemmeno quelle più giovani. La Corea del Sud aveva alcuni vantaggi rispetto a noi: il suo modello sociale, la sua capacità tecnologica. Noi abbiamo dovuto fare i conti con svantaggi strutturali pesantissimi: età media alta, diffusione del contagio in aree massimamente produttive, e quindi ad elevata densità di popolazione e ad alta necessità di spostamento».Però proprio la Liguria è l'esempio positivo che qualcosa in quella direzione si poteva fare…«Effettivamente, anche con un sacrificio importante di uomini e mezzi, siamo riusciti nelle prime ore a tracciare la catena epidemiologica, e in qualche misura a contenerla. Questo lavoro ha consentito di abbassare la curva: e, pur stando al fronte, ci ritroviamo forse meno esposti di altri. Ma adesso la situazione di diffusione reale è tale che mi pare illusorio pensare di poter censire la catena epidemiologica».Rimaniamo in Liguria. Situazione dei posti in rianimazione? Si sente minimamente sereno - nei limiti del possibile - rispetto all'evoluzione del quadro?«Ho la coscienza tranquilla perché abbiamo fatto - e continuiamo a fare - tutto ciò che è umanamente possibile. Anzi, sono orgoglioso dello sforzo della sanità ligure e della Protezione civile ligure. Già oggi, solo per i malati Covid-19, abbiamo un numero di rianimazioni superiore al totale delle rianimazioni disponibili prima della crisi».Uno sforzo immenso.«Teniamo presente che non si tratta di allestire posti letto e tende, come per degli sfollati. Le rianimazioni sono tra le sale mediche in assoluto più complesse: con pazienti sedati e nutriti artificialmente, sottoposti a un trattamento delicatissimo, e con rischi costanti di complicazioni. Sono tragicamente consapevole del fatto che delle persone non ce la faranno, ma con uno sforzo disumano stiamo offrendo una possibilità di cura a ognuno».La situazione dei macchinari e delle attrezzature, a partire dalle mascherine?«Difficilissima. Ci siamo attivati, anche grazie ai solidi rapporti internazionali della nostra Regione, dovuti alla nostra struttura economica e commerciale. In questo modo, abbiamo attivato linee che dovrebbero garantirci un'abbondante autosufficienza. Ma inutile girarci intorno: il Paese è arrivato impreparato rispetto alle forniture di ventilatori, caschetti, mascherine».E da Roma?«Roma fa fatica. La situazione che ha preso in mano non era facile. Scontiamo problemi che non si risolvono in settimane… Ho lavorato molto con la Protezione civile, tra ponte Morandi, alluvioni e mareggiate, e la conosco come pochi. Dopo l'era Bertolaso-Berlusconi, è stata purtroppo distrutta, ed è diventata simile a un ramo come gli altri della pubblica amministrazione, invece di essere una realtà totalmente sciolta da vincoli. Il povero Angelo Borrelli, va riconosciuto, lo aveva detto molte volte». Servono medici, infermieri, personale sanitario? «Scontiamo il fatto che la programmazione sanitaria abbia sottovalutato per anni alcune esigenze. E ora, come per una nemesi, l'emergenza si concentra proprio in quelle aree (anestesisti e rianimatori) in cui eravamo già in crisi».È fiducioso sul fatto che la macchina produttiva possa in qualche modo rimanere con il motore acceso, evitando che poi non sia più in grado di riaccendersi? «Torno a quello che dicevo all'inizio. Mi aspetto che la nazione dia una prova all'altezza. Quello che il governo ha stanziato, i 25 miliardi del decreto, è grosso modo un quinto del Pil mensile del Paese… Può bastare più o meno per quindici giorni… Occorre dire la verità: se il Paese è in guerra, qualcuno è al fronte (medici e infermieri), ma intorno occorre che gli altri producano. La Cina ha chiuso la provincia dell'Hubei, ma intorno 1 miliardo e 400 milioni di cinesi lavoravano. Se vogliamo fare un esempio storico, la Russia durante l'avanzata nazista spostò le fabbriche dietro gli Urali. Non possiamo pensare che lo Stato mantenga tutti…».Posizione coraggiosa, complimenti.«Mi rendo conto che alcuni dicano: “Perché devo lavorare proprio io?". Perché ci sono settori che devono farlo. Quando si è in guerra, non si chiede “perché io?", ma “dove posso essere più utile?". Ora, è chiaro che la Lombardia deve fermare tutto, è chiaro che ci devono essere altre aree di contenimento, ma in altre zone le produzioni strategiche devono continuare. Anzi…».Anzi?«Occorre usare questo momento per impostare e varare cantieri, opere strategiche, produzioni che erano state delocalizzate e ora vanno rilanciate».Non teme però che, superato il coronavirus (speriamo presto), ci ritroveremo con l'economia morta anche a causa delle scelte fiscali del governo? I mini rinvii e una grandinata di scadenze tributarie a giugno lasciano presagire il peggio, una pazzesca crisi di liquidità…«Saranno antipatici, ma occorre vedere quello che hanno fatto i tedeschi: 550 miliardi di prestiti garantiti. Responsabilizzano le imprese, che si tengono in carico i lavoratori, e usano questa fase per preparare la controffensiva, quando si ripartirà. Invece, mancette e sussidi rischiano di durare giorni, nemmeno settimane. Quando riapriremo le persiane di casa, i tedeschi avranno già fatto tutto quello che serviva per tornare leader».
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Mario Draghi e Ursula von der Leyen (Ansa)
Il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin (Imagoeconomica). Nel riquadro il programma dell'evento organizzato da La Verità
Charlie Kirk con la moglie Erika Frantzve (Getty Images)