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2020-09-27
La mannaia islamica voleva colpire di nuovo «Charlie»
La vecchia sede di Charlie Hebdo (Ansa)
Pensava di trovare sempre lì, in rue Nicolas-Appert, i giornalisti di Charlie Hebdo, per attaccare nuovamente la redazione già decimata nel 2015. Secondo Le Parisien, che cita una fonte dell'inchiesta, l'uomo che venerdì ha colpito con una mannaia due persone davanti all'ex sede del giornale satirico credeva che Charlie non si fosse mai trasferito, come invece è accaduto subito dopo la strage di cinque anni fa. La scelta del luogo non era quindi dovuta a una macabra coincidenza, né a una sorta di atto simbolico, ma si trattava di un vero e proprio nuovo attacco agli odiati autori satirici.
Nel frattempo, gli inquirenti hanno continuato il loro lavoro interrogando l'«autore principale» dell'attentato, come lo ha definito venerdì il capo della Procura nazionale antiterrorismo (la Pnat) Jean-François Ricard. Di lui si sa, come riportato da Le Figaro, che si chiama Ali H. (e non Hasham U., come trapelato venerdì) ed è un cittadino pakistano nato a Islamabad nel 2002. L'agenzia France Presse ha citato fonti vicine all'inchiesta, secondo le quali il migrante avrebbe «riconosciuto il proprio atto collocandolo nel contesto della ripubblicazione delle caricature (di Maometto, ndr) che non ha supportato». Anzi, si sarebbe definito «in collera» con quei disegni. Vari media transalpini hanno rivelato che il presunto attentatore non avrebbe espresso il minimo rimorso per l'accaduto. Per Le Parisien, inoltre, il giovane avrebbe riconosciuto «una dimensione religiosa del proprio atto». Inoltre, la polizia ha perquisito gli alloggi di nove persone, poi fermate, che avrebbero avuto legami con il presunto attentatore. Tra esse, il fratello minore del presunto attentatore. Invece, il cittadino algerino di 33 anni fermato venerdì è stato scagionato dalle accuse perché ne è stata accertata l'estraneità dall'attacco.
Già venerdì sera, il ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin, aveva spiegato al telegiornale delle 20 di France 2 che si è trattato chiaramente di «un atto di terrorismo islamico» e che Ali H., era arrivato in Francia «tre anni fa come minore non accompagnato». Questo gli aveva permesso di beneficiare dell'assistenza prevista dalle normative francesi per questo tipo di profili di migranti. L'età dell'individuo è stata però messa in dubbio, già al suo arrivo in Francia, dalle autorità che dovevano versargli l'Ase (sussidio per i minori). Tuttavia, il tribunale di minori aveva respinto la richiesta di un esame osseo nei confronti del sospetto attentatore.
Gli investigatori hanno perquisito gli ultimi luoghi di residenza del migrante. Fino al 10 agosto scorso, il giovane avrebbe vissuto in un albergo sociale a Cergy-Pontoise, pagato con i sussidi statali. Non avendo più diritto a tali aiuti, il pakistano si sarebbe quindi trasferito in un bilocale a Pantin, sempre nella banlieue «calda» di Parigi. Qui, Ali H. viveva con vari connazionali. Cinque di questi sono stati fermati. Da questa ricostruzione emerge che con la maggiore età, il «principale autore» dell'aggressione di venerdì avrebbe perso lo status di soggetto protetto, e avrebbe quindi potuto essere espulso dal Paese. Chissà se questa eventualità sia stata un altro dei motivi che lo hanno portato a ferire gravemente due persone. Se fosse confermato, si tratterebbe di una situazione simile a quella di Nantes dove, a fine luglio, un cittadino ruandese a rischio di espulsione aveva incendiato la cattedrale della città. Oltre alle polemiche sull'età del giovane pakistano, ha fatto discutere anche il fatto che per un luogo simbolico, come l'ex sede di Charlie Hebdo, non fosse stata prevista alcuna forma di sicurezza, soprattutto in concomitanza del processo per gli attentati del gennaio 2015. Ad esprimere la collera per questa leggerezza è stato Luc Hermann, condirettore dell'agenzia Premières Lignes. Intervistato ieri mattina dal canale d'informazione CNews, il giornalista ha, dapprima, confermato che i due suoi colleghi gravemente feriti erano stati operati e che le loro condizioni erano «rassicuranti». Poi, Hermann ha rivelato che i due feriti avevano ricevuto «colpi estremamente violenti al volto e sul collo». Il giornalista ha spiegato che lui e i suoi altri colleghi erano «sotto choc e arrabbiati» perché «questo palazzo è un simbolo della libertà di espressione e della libertà di stampa». Eppure, ha continuato il condirettore dell'agenzia giornalistica, in rue Nicolas Appert era evidente la «mancanza di sicurezza e l'assenza di forze dell'ordine dall'inizio del processo» per gli attentati a Charlie e all'Hyperacher.
Le falle alla sicurezza sono state peraltro ammesse anche dal ministro dell'Interno transalpino, che ha anche affermato che «le minacce nella via sono state sottovalutate». Subito dopo l'attacco di venerdì, il governo di Parigi si è invece voluto mostrare estremamente determinato nella lotta al terrorismo. Ieri il primo ministro Jean Castex ha lanciato un avvertimento: «I nemici della Repubblica non vinceranno».
Porte aperte e pensiero unico: così la Francia si suicida
La strage di Charlie Hebdo, avvenuta nel 2015 e dovuta alle caricature di Maometto, è divenuta il simbolo della violenza sanguinaria del terrorismo islamico, ma anche della diffusione capillare di musulmani (non assimilati) sul suolo dell'antico continente europeo. Da poco abbiamo ricordato i 5 anni della strage e in concomitanza con questa triste ricorrenza, la Francia registra delle nuove violenze e ancora una volta per mano di militanti della causa islamica.
Così, alcuni terroristi sono stati arrestati venerdì, tra cui un pakistano, ora reo confesso, migrato di recente in Francia come «minore in cerca di salvezza». Il quale, per mezzo di una mannaia, ha ferito due giornalisti francesi dell'agenzia Premières Lignes, la cui redazione è prossima alla (ex) sede di Charlie. Ma è bene mettere da parte la cronaca per capire meglio la situazione assurda e inconcepibile che da anni sta vivendo la Francia. Con un crescendo quotidiano di violenze, dovute spesso a magrebini e africani non assimilati, sia in ragione della religione, sia per futili motivi.
Davanti a questo scenario, non è più solo la periferia – la tristemente nota banlieue – a essere il teatro di violenze irrazionali, ma è l'intera società francese a subire una sorta di guerra civile ai danni degli autoctoni. La Francia deve questa situazione esplosiva a due ragioni di fondo. L'immigrazione incontrollata da Nord Africa e Maghreb di oltre 200.000 uomini ogni anno e il vergognoso lassismo giudiziario. Il legame tra immigrati che si auto-ghettizzano e prendono in odio la cultura francese che li ospita, assai più di quanto accadeva coi loro genitori, nonni e avi, è stato approfondito dal coraggioso giornalista ebreo Eric Zemmour. Il quale, in libri come Il suicidio francese o Destino francese, venduti in milioni di esemplari, ha mostrato l'evoluzione negativa dell'immigrazione in Francia. Un tempo, da Napoleone a De Gaulle, limitata agli onesti lavoratori e fondata sull'assimilazione dello straniero alla nazione. Ma ora, illimitata e basata sulla rivendicazione, favorita dalle teorie «indigeniste» della sinistra antirazzista, delle tradizione native, tra cui l'islam o la poligamia. Tradizione ed etnia rivendicate in chiave oppositiva a ciò che storicamente è la Francia. Ovvero: un Paese cristiano, popolato da bianchi, di tradizione greco-latina, come la definì il presidente Charles De Gaulle prima di morire. Ebbene lo stesso giorno del recente attentato nel pieno centro di Parigi, oltre al sangue sparso, si registrava la condanna di Eric Zemmour a pagare 10.000 euro, per supposto e immaginifico «razzismo». E ciò a causa di un discorso tenuto dallo scrittore, il 28 settembre 2019, alla Convenzione della destra, promossa dal settimanale cattolico Valeurs Actuelles.
Il passaggio che è valso la condanna al giornalista diceva testualmente: «In Francia, come in tutta Europa, tutti i nostri problemi sono aggravati – non dico creati, ma aggravati – dall'immigrazione: scuola, alloggi, disoccupazione, deficit sociali, debito pubblico, ordine pubblico, prigioni, livello professionale, spazi negli ospedali, droga». Opinioni forti e opposte al mainstream progressista, ma opinioni per cui un giornalista libero viene oggi condannato a pagare forti somme di denaro. Destinate poi alle associazioni antirazziste e pro immigrazione! La seconda causa delle violenze sta nel buonismo giudiziario. Il giovane giornalista Laurent Obertone ne ha svelato il meccanismo in alcuni saggi che hanno fatto epoca, come La France orange mécanique o nel romanzo distopico Guerilla, tradotto anche in italiano.
Il 24 settembre, lo stesso giorno dell'attacco al machete, Obertone ha fatto uscire un coraggioso Elogio della forza (Ring edizioni). In cui invita tutti i francesi, uomini e donne, progressisti e conservatori, a liberarsi dalle paure indotte dal sistema. A lottare a viso aperto per la soluzione dei veri problemi e in tal modo tornare padroni del proprio destino.
Prima che sia troppo tardi.
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L'ex «minore non accompagnato» che ha agito venerdì a Parigi cercava il giornale satirico per vendicarsi delle vignette blasfeme.Porte aperte e pensiero unico: così la Francia si suicida. Oltralpe l'isteria antirazzista impazza: lo stesso giorno dell'attacco, lo scrittore Eric Zemmour veniva condannato per reati d'opinione.Lo speciale comprende due articoli. Pensava di trovare sempre lì, in rue Nicolas-Appert, i giornalisti di Charlie Hebdo, per attaccare nuovamente la redazione già decimata nel 2015. Secondo Le Parisien, che cita una fonte dell'inchiesta, l'uomo che venerdì ha colpito con una mannaia due persone davanti all'ex sede del giornale satirico credeva che Charlie non si fosse mai trasferito, come invece è accaduto subito dopo la strage di cinque anni fa. La scelta del luogo non era quindi dovuta a una macabra coincidenza, né a una sorta di atto simbolico, ma si trattava di un vero e proprio nuovo attacco agli odiati autori satirici. Nel frattempo, gli inquirenti hanno continuato il loro lavoro interrogando l'«autore principale» dell'attentato, come lo ha definito venerdì il capo della Procura nazionale antiterrorismo (la Pnat) Jean-François Ricard. Di lui si sa, come riportato da Le Figaro, che si chiama Ali H. (e non Hasham U., come trapelato venerdì) ed è un cittadino pakistano nato a Islamabad nel 2002. L'agenzia France Presse ha citato fonti vicine all'inchiesta, secondo le quali il migrante avrebbe «riconosciuto il proprio atto collocandolo nel contesto della ripubblicazione delle caricature (di Maometto, ndr) che non ha supportato». Anzi, si sarebbe definito «in collera» con quei disegni. Vari media transalpini hanno rivelato che il presunto attentatore non avrebbe espresso il minimo rimorso per l'accaduto. Per Le Parisien, inoltre, il giovane avrebbe riconosciuto «una dimensione religiosa del proprio atto». Inoltre, la polizia ha perquisito gli alloggi di nove persone, poi fermate, che avrebbero avuto legami con il presunto attentatore. Tra esse, il fratello minore del presunto attentatore. Invece, il cittadino algerino di 33 anni fermato venerdì è stato scagionato dalle accuse perché ne è stata accertata l'estraneità dall'attacco. Già venerdì sera, il ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin, aveva spiegato al telegiornale delle 20 di France 2 che si è trattato chiaramente di «un atto di terrorismo islamico» e che Ali H., era arrivato in Francia «tre anni fa come minore non accompagnato». Questo gli aveva permesso di beneficiare dell'assistenza prevista dalle normative francesi per questo tipo di profili di migranti. L'età dell'individuo è stata però messa in dubbio, già al suo arrivo in Francia, dalle autorità che dovevano versargli l'Ase (sussidio per i minori). Tuttavia, il tribunale di minori aveva respinto la richiesta di un esame osseo nei confronti del sospetto attentatore.Gli investigatori hanno perquisito gli ultimi luoghi di residenza del migrante. Fino al 10 agosto scorso, il giovane avrebbe vissuto in un albergo sociale a Cergy-Pontoise, pagato con i sussidi statali. Non avendo più diritto a tali aiuti, il pakistano si sarebbe quindi trasferito in un bilocale a Pantin, sempre nella banlieue «calda» di Parigi. Qui, Ali H. viveva con vari connazionali. Cinque di questi sono stati fermati. Da questa ricostruzione emerge che con la maggiore età, il «principale autore» dell'aggressione di venerdì avrebbe perso lo status di soggetto protetto, e avrebbe quindi potuto essere espulso dal Paese. Chissà se questa eventualità sia stata un altro dei motivi che lo hanno portato a ferire gravemente due persone. Se fosse confermato, si tratterebbe di una situazione simile a quella di Nantes dove, a fine luglio, un cittadino ruandese a rischio di espulsione aveva incendiato la cattedrale della città. Oltre alle polemiche sull'età del giovane pakistano, ha fatto discutere anche il fatto che per un luogo simbolico, come l'ex sede di Charlie Hebdo, non fosse stata prevista alcuna forma di sicurezza, soprattutto in concomitanza del processo per gli attentati del gennaio 2015. Ad esprimere la collera per questa leggerezza è stato Luc Hermann, condirettore dell'agenzia Premières Lignes. Intervistato ieri mattina dal canale d'informazione CNews, il giornalista ha, dapprima, confermato che i due suoi colleghi gravemente feriti erano stati operati e che le loro condizioni erano «rassicuranti». Poi, Hermann ha rivelato che i due feriti avevano ricevuto «colpi estremamente violenti al volto e sul collo». Il giornalista ha spiegato che lui e i suoi altri colleghi erano «sotto choc e arrabbiati» perché «questo palazzo è un simbolo della libertà di espressione e della libertà di stampa». Eppure, ha continuato il condirettore dell'agenzia giornalistica, in rue Nicolas Appert era evidente la «mancanza di sicurezza e l'assenza di forze dell'ordine dall'inizio del processo» per gli attentati a Charlie e all'Hyperacher. Le falle alla sicurezza sono state peraltro ammesse anche dal ministro dell'Interno transalpino, che ha anche affermato che «le minacce nella via sono state sottovalutate». Subito dopo l'attacco di venerdì, il governo di Parigi si è invece voluto mostrare estremamente determinato nella lotta al terrorismo. 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Da poco abbiamo ricordato i 5 anni della strage e in concomitanza con questa triste ricorrenza, la Francia registra delle nuove violenze e ancora una volta per mano di militanti della causa islamica. Così, alcuni terroristi sono stati arrestati venerdì, tra cui un pakistano, ora reo confesso, migrato di recente in Francia come «minore in cerca di salvezza». Il quale, per mezzo di una mannaia, ha ferito due giornalisti francesi dell'agenzia Premières Lignes, la cui redazione è prossima alla (ex) sede di Charlie. Ma è bene mettere da parte la cronaca per capire meglio la situazione assurda e inconcepibile che da anni sta vivendo la Francia. Con un crescendo quotidiano di violenze, dovute spesso a magrebini e africani non assimilati, sia in ragione della religione, sia per futili motivi. Davanti a questo scenario, non è più solo la periferia – la tristemente nota banlieue – a essere il teatro di violenze irrazionali, ma è l'intera società francese a subire una sorta di guerra civile ai danni degli autoctoni. La Francia deve questa situazione esplosiva a due ragioni di fondo. L'immigrazione incontrollata da Nord Africa e Maghreb di oltre 200.000 uomini ogni anno e il vergognoso lassismo giudiziario. Il legame tra immigrati che si auto-ghettizzano e prendono in odio la cultura francese che li ospita, assai più di quanto accadeva coi loro genitori, nonni e avi, è stato approfondito dal coraggioso giornalista ebreo Eric Zemmour. Il quale, in libri come Il suicidio francese o Destino francese, venduti in milioni di esemplari, ha mostrato l'evoluzione negativa dell'immigrazione in Francia. Un tempo, da Napoleone a De Gaulle, limitata agli onesti lavoratori e fondata sull'assimilazione dello straniero alla nazione. Ma ora, illimitata e basata sulla rivendicazione, favorita dalle teorie «indigeniste» della sinistra antirazzista, delle tradizione native, tra cui l'islam o la poligamia. Tradizione ed etnia rivendicate in chiave oppositiva a ciò che storicamente è la Francia. Ovvero: un Paese cristiano, popolato da bianchi, di tradizione greco-latina, come la definì il presidente Charles De Gaulle prima di morire. Ebbene lo stesso giorno del recente attentato nel pieno centro di Parigi, oltre al sangue sparso, si registrava la condanna di Eric Zemmour a pagare 10.000 euro, per supposto e immaginifico «razzismo». E ciò a causa di un discorso tenuto dallo scrittore, il 28 settembre 2019, alla Convenzione della destra, promossa dal settimanale cattolico Valeurs Actuelles. Il passaggio che è valso la condanna al giornalista diceva testualmente: «In Francia, come in tutta Europa, tutti i nostri problemi sono aggravati – non dico creati, ma aggravati – dall'immigrazione: scuola, alloggi, disoccupazione, deficit sociali, debito pubblico, ordine pubblico, prigioni, livello professionale, spazi negli ospedali, droga». Opinioni forti e opposte al mainstream progressista, ma opinioni per cui un giornalista libero viene oggi condannato a pagare forti somme di denaro. Destinate poi alle associazioni antirazziste e pro immigrazione! La seconda causa delle violenze sta nel buonismo giudiziario. Il giovane giornalista Laurent Obertone ne ha svelato il meccanismo in alcuni saggi che hanno fatto epoca, come La France orange mécanique o nel romanzo distopico Guerilla, tradotto anche in italiano. Il 24 settembre, lo stesso giorno dell'attacco al machete, Obertone ha fatto uscire un coraggioso Elogio della forza (Ring edizioni). In cui invita tutti i francesi, uomini e donne, progressisti e conservatori, a liberarsi dalle paure indotte dal sistema. A lottare a viso aperto per la soluzione dei veri problemi e in tal modo tornare padroni del proprio destino. Prima che sia troppo tardi.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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