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2019-12-21
La linea dura sulla nave Gregoretti porta anche la firma dei 5 stelle
Gettyimages
«Gli interventi di salvataggio che hanno portato 135 migranti a bordo della nave Gregoretti sono stati sin dall'inizio concordati con il ministero dell'Interno per supportare Malta, già impegnata in altri eventi Sar (Search and rescue, ovvero ricerca e soccorso, ndr). Lo rimarcano fonti del ministero delle Infrastrutture. Anche sull'assegnazione del Pos (Place of safety, ovvero il porto sicuro, ndr) che fa capo al Viminale, si sta lavorando in perfetto coordinamento con il ministero dell'Interno, nell'auspicio che si arrivi a una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocazione da parte dell'Unione europea». È il pomeriggio del 26 luglio 2019, le agenzie di stampa rilanciano questa nota del ministero guidato da Danilo Toninelli del M5s. La nave Gregoretti ha da poche ore preso a bordo i 135 migranti naufragati la notte precedente. Toninelli tiene a far sapere che sta lavorando «in perfetto coordinamento con il ministero dell'Interno»: altro che decisione individuale, tutti i passaggi dell'affaire Gregoretti sono condivisi da Salvini e Toninelli. «Anche sulla assegnazione del Pos» Toninelli afferma esplicitamente di agire «in perfetto coordinamento» con Salvini. Proprio la mancata assegnazione tempestiva del Pos, secondo il tribunale dei ministri di Catania, sarebbe il fulcro dell'ipotesi di reato di sequestro di persona: lo Stato italiano, secondo i giudici, aveva «l'obbligo di concludere la procedura con il trasferimento dei migranti in un luogo sicuro. Invece, l'omessa indicazione del Place of safety, da parte del dipartimento Immigrazione, dietro precise direttive del ministro dell'Interno, ha determinato una situazione di costrizione a bordo», aggiungono i magistrati nella richiesta di autorizzazione a procedere, «con limitazione della libertà di movimento dei migranti, integrante l'elemento oggettivo del reato ipotizzato».
Toninelli, inoltre, già nelle prime ore dell'affaire Gregoretti, tiene a precisare «l'auspicio che si arrivi a una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocazione da parte dell'Unione europea». È esattamente la stessa linea di Salvini: i migranti sbarcheranno solo quando l'Europa ci dirà chi se li prende. Toninelli, in quel periodo, è sulla graticola: si parla di rimpasto, la sua posizione al governo traballa e lui fa il duro, si allinea al ministro dell'Interno, in quel momento al top della popolarità per la battaglia contro l'immigrazione senza controllo. «Non darò nessun permesso allo sbarco», aveva twittato Salvini poco prima che dal ministero di Toninelli partisse la nota stampa, «finché dall'Europa non arriverà l'impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave. Vediamo se alle parole seguiranno dei fatti. Io non mollo». Non molla neppure Toninelli, e ha una voglia matta di farlo sapere ai media. Due giorni dopo, Toninelli rincara la dose: «La nave Gregoretti della Guardia costiera con a bordo 131 migranti soccorsi in mare», dice il riccioluto ministro, «ha ormeggiato stanotte al porto di Augusta, come è normale che sia per una nave militare. Ora la Ue risponda, perché la questione migratoria riguarda tutto il Continente». È il 28 luglio, Toninelli dice chiaro e tondo che in assenza di risposte dall'Europa i migranti restano dove sono, ovvero a bordo della Gregoretti. Ci resteranno fino al 31 luglio. Il giorno precedente lo sbarco, ovvero il 30 luglio 2019, Augusta, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ai microfoni di In Onda su La 7, fa sapere che è in corso «un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell'Interno e della Difesa. La posizione del governo è sempre la stessa», chiarisce il ministro grillino, «vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevano scendere sono scese, sono monitorate le condizioni di salute, ma del problema immigrazione deve farsi carico tutta l'Europa. Ringrazio il presidente Conte», aggiunge Bonafede, «che continua a porre la questione nelle cancellerie d'Europa». Bonafede aggiunge un altro tassello importante: sull'affaire Gregoretti il dialogo in corso nel governo, in quei giorni, vede come protagonista, oltre a Salvini e Toninelli, anche il premier, Giuseppe Conte, e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, anche lei del M5s, anche lei perfettamente allineata alle decisioni del governo, non certo del solo Salvini. Il 28 luglio, il senatore Gregorio De Falco, ex M5s, ufficiale del corpo Capitanerie di porto della Marina militare, accusa Salvini e Toninelli. «La Gregoretti», dice De Falco, «come nave militare, è esclusa dalla disciplina del decreto Sicurezza bis. Salvini contravviene al proprio decreto e integra forse una vera e propria usurpazione di funzione pubblica mentre il ministro inutilmente competente di fatto abdica totalmente anche alla propria dignità». Inutile dire che il «ministro inutilmente competente» è Toninelli, che De Falco, espertissimo del settore, mette sullo stesso piano di Salvini. «La Gregoretti ad Augusta», twitta sempre il 28 luglio il deputato del Pd Filippo Sensi, «i giornalisti confinati lontano, prosegue la solita danza macabra sulla pelle di un centinaio di disperati e l'umiliazione della Guardia costiera. Mi vergogno per Salvini, Trenta e Toninelli». «Mi aspetto», incalza il 30 luglio il deputato di Leu, Nicola Fratoianni, «che nelle prossime ore i ministri Salvini e Toninelli siano trattati per quello che sono e cioè ministri che violano le leggi del nostro Paese». Uno dei due rischia di finire a processo, l'altro è diventato suo alleato di governo. Il colmo? Toninelli, senatore, dovrà votare per l'autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini.
Il leader leghista teme sgambetti. La legge Severino può farlo fuori
Mettere fuori gioco un avversario per via giudiziaria, oppure - piano B - tenerlo sulla graticola, costringendolo a condurre la sua battaglia con una spada di Damocle pendente sulla testa. È questo uno degli effetti dell'offensiva in corso contro Matteo Salvini.
Con trasparenza, è stato lo stesso leader leghista a porre il tema, in almeno due passaggi, nell'intervista rilasciata ieri al Corriere. Il primo passaggio è appena accennato, quando Salvini dice: «Per un certo verso, sarei curioso di finire in Aula», intesa come aula processuale, e nel caso, il leader leghista aggiunge che con lui «ci saranno milioni di italiani». Ma, in un inciso, Salvini annota: «Anche se gli avvocati mi suggeriscono il contrario». Più avanti, Salvini dice orgogliosamente: «Lo rifarei. E se gli italiani lo vorranno, lo rifarò», alludendo a decisioni dello stesso tipo che sarebbe pronto ad assumere se fosse di nuovo ministro dell'Interno o presidente del Consiglio. Anche qui, però, un'aggiunta: «Sempre che non ci siano stranezze legate alla legge Severino». Salvini fa anche notare (l'aveva già fatto martedì a Rete 4, ospite di Mario Giordano a Fuori dal coro) l'enormità della pena a cui è esposto: «Sarei peggio di uno stupratore: per lo stupro la pena è di 12 anni, per il sequestro gli anni sono 15».
Ma cosa prevede esattamente la Severino? Rende ineleggibili e non candidabili, oppure (se già eletti) li fa decadere dalla carica, coloro che siano stati condannati a più di due anni di reclusione per i reati punibili almeno fino a quattro anni. Attenzione: occorre che la condanna sia definitiva. Quindi, realisticamente, il senatore Salvini non solo non decadrebbe oggi, ma resterebbe candidabile anche in caso di nuove elezioni (e però, a rischio di decadenza una volta eletto, se nel frattempo si giungesse alla terza condanna).
Inoltre, esistono almeno due caveat che molto probabilmente rendono assai prudenti i consiglieri giuridici del leader leghista. Primo: nel caso di Salvini, è immaginabile che la macchina giudiziaria si metterebbe a correre all'impazzata, un po' come accadde per Silvio Berlusconi, bruciando le tappe e pronunciando le sentenze a tempi di record. Secondo: anche dopo una sola eventuale condanna in primo grado, è immaginabile la canea -nazionale e internazionale - che si scatenerebbe intorno a un leader politico condannato per sequestro di persona. Salvini avrebbe certamente un enorme sostegno popolare per l'ingiustizia subìta, ma dovrebbe spendere tempo ed energie per spiegare in Italia e all'estero l'assurdità della situazione. Esercizio mai facile con i media internazionali e con cancellerie estere non sempre benevole.
Restano due annotazioni conclusive. La prima: se passasse il principio della criminalizzabilità penale delle decisioni in materia di immigrazione di un ministro dell'Interno, si arriverebbe all'effetto paradossale (che dovrebbe indurre allo sconcerto tutti, a partire dalle alte cariche dello Stato) di sottrarre alla libera decisione degli elettori, e quindi alla democrazia, le scelte di difesa dei confini nazionali. In qualunque Paese, si fronteggiano legittimamente una linea più rigorosa e una più permissiva: rendere criminale la prima opzione significa togliere agli elettori la possibilità di votare per una politica migratoria più severa.
Il secondo paradosso riguarda Giuseppe Conte. Esiste infatti l'articolo 95 della Costituzione, secondo cui «Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri». Dalla lettura di questo articolo, si evince che il premier ha (e aveva anche l'estate scorsa) tutti gli strumenti politici per dirigere e coordinare l'attività dei suoi ministri. Se era in dissenso da Salvini, perché non ha usato i poteri che gli derivano dall'articolo 95?
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Come dimostrano le dichiarazioni di luglio, Giuseppe Conte, Danilo Toninelli e gli altri big grillini erano allineati al ministro dell'Interno sulla gestione del caso. E per questo la sinistra definiva i suoi futuri alleati degli «usurpatori».Matteo Salvini avverte: «Possibili stranezze». La condanna finale lo farebbe decadere.Lo speciale contiene due articoli.«Gli interventi di salvataggio che hanno portato 135 migranti a bordo della nave Gregoretti sono stati sin dall'inizio concordati con il ministero dell'Interno per supportare Malta, già impegnata in altri eventi Sar (Search and rescue, ovvero ricerca e soccorso, ndr). Lo rimarcano fonti del ministero delle Infrastrutture. Anche sull'assegnazione del Pos (Place of safety, ovvero il porto sicuro, ndr) che fa capo al Viminale, si sta lavorando in perfetto coordinamento con il ministero dell'Interno, nell'auspicio che si arrivi a una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocazione da parte dell'Unione europea». È il pomeriggio del 26 luglio 2019, le agenzie di stampa rilanciano questa nota del ministero guidato da Danilo Toninelli del M5s. La nave Gregoretti ha da poche ore preso a bordo i 135 migranti naufragati la notte precedente. Toninelli tiene a far sapere che sta lavorando «in perfetto coordinamento con il ministero dell'Interno»: altro che decisione individuale, tutti i passaggi dell'affaire Gregoretti sono condivisi da Salvini e Toninelli. «Anche sulla assegnazione del Pos» Toninelli afferma esplicitamente di agire «in perfetto coordinamento» con Salvini. Proprio la mancata assegnazione tempestiva del Pos, secondo il tribunale dei ministri di Catania, sarebbe il fulcro dell'ipotesi di reato di sequestro di persona: lo Stato italiano, secondo i giudici, aveva «l'obbligo di concludere la procedura con il trasferimento dei migranti in un luogo sicuro. Invece, l'omessa indicazione del Place of safety, da parte del dipartimento Immigrazione, dietro precise direttive del ministro dell'Interno, ha determinato una situazione di costrizione a bordo», aggiungono i magistrati nella richiesta di autorizzazione a procedere, «con limitazione della libertà di movimento dei migranti, integrante l'elemento oggettivo del reato ipotizzato». Toninelli, inoltre, già nelle prime ore dell'affaire Gregoretti, tiene a precisare «l'auspicio che si arrivi a una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocazione da parte dell'Unione europea». È esattamente la stessa linea di Salvini: i migranti sbarcheranno solo quando l'Europa ci dirà chi se li prende. Toninelli, in quel periodo, è sulla graticola: si parla di rimpasto, la sua posizione al governo traballa e lui fa il duro, si allinea al ministro dell'Interno, in quel momento al top della popolarità per la battaglia contro l'immigrazione senza controllo. «Non darò nessun permesso allo sbarco», aveva twittato Salvini poco prima che dal ministero di Toninelli partisse la nota stampa, «finché dall'Europa non arriverà l'impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave. Vediamo se alle parole seguiranno dei fatti. Io non mollo». Non molla neppure Toninelli, e ha una voglia matta di farlo sapere ai media. Due giorni dopo, Toninelli rincara la dose: «La nave Gregoretti della Guardia costiera con a bordo 131 migranti soccorsi in mare», dice il riccioluto ministro, «ha ormeggiato stanotte al porto di Augusta, come è normale che sia per una nave militare. Ora la Ue risponda, perché la questione migratoria riguarda tutto il Continente». È il 28 luglio, Toninelli dice chiaro e tondo che in assenza di risposte dall'Europa i migranti restano dove sono, ovvero a bordo della Gregoretti. Ci resteranno fino al 31 luglio. Il giorno precedente lo sbarco, ovvero il 30 luglio 2019, Augusta, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ai microfoni di In Onda su La 7, fa sapere che è in corso «un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell'Interno e della Difesa. La posizione del governo è sempre la stessa», chiarisce il ministro grillino, «vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevano scendere sono scese, sono monitorate le condizioni di salute, ma del problema immigrazione deve farsi carico tutta l'Europa. Ringrazio il presidente Conte», aggiunge Bonafede, «che continua a porre la questione nelle cancellerie d'Europa». Bonafede aggiunge un altro tassello importante: sull'affaire Gregoretti il dialogo in corso nel governo, in quei giorni, vede come protagonista, oltre a Salvini e Toninelli, anche il premier, Giuseppe Conte, e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, anche lei del M5s, anche lei perfettamente allineata alle decisioni del governo, non certo del solo Salvini. Il 28 luglio, il senatore Gregorio De Falco, ex M5s, ufficiale del corpo Capitanerie di porto della Marina militare, accusa Salvini e Toninelli. «La Gregoretti», dice De Falco, «come nave militare, è esclusa dalla disciplina del decreto Sicurezza bis. Salvini contravviene al proprio decreto e integra forse una vera e propria usurpazione di funzione pubblica mentre il ministro inutilmente competente di fatto abdica totalmente anche alla propria dignità». Inutile dire che il «ministro inutilmente competente» è Toninelli, che De Falco, espertissimo del settore, mette sullo stesso piano di Salvini. «La Gregoretti ad Augusta», twitta sempre il 28 luglio il deputato del Pd Filippo Sensi, «i giornalisti confinati lontano, prosegue la solita danza macabra sulla pelle di un centinaio di disperati e l'umiliazione della Guardia costiera. Mi vergogno per Salvini, Trenta e Toninelli». «Mi aspetto», incalza il 30 luglio il deputato di Leu, Nicola Fratoianni, «che nelle prossime ore i ministri Salvini e Toninelli siano trattati per quello che sono e cioè ministri che violano le leggi del nostro Paese». Uno dei due rischia di finire a processo, l'altro è diventato suo alleato di governo. Il colmo? Toninelli, senatore, dovrà votare per l'autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-linea-dura-sulla-nave-gregoretti-porta-anche-la-firma-dei-5-stelle-2641660459.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-leader-leghista-teme-sgambetti-la-legge-severino-puo-farlo-fuori" data-post-id="2641660459" data-published-at="1765884620" data-use-pagination="False"> Il leader leghista teme sgambetti. La legge Severino può farlo fuori Mettere fuori gioco un avversario per via giudiziaria, oppure - piano B - tenerlo sulla graticola, costringendolo a condurre la sua battaglia con una spada di Damocle pendente sulla testa. È questo uno degli effetti dell'offensiva in corso contro Matteo Salvini. Con trasparenza, è stato lo stesso leader leghista a porre il tema, in almeno due passaggi, nell'intervista rilasciata ieri al Corriere. Il primo passaggio è appena accennato, quando Salvini dice: «Per un certo verso, sarei curioso di finire in Aula», intesa come aula processuale, e nel caso, il leader leghista aggiunge che con lui «ci saranno milioni di italiani». Ma, in un inciso, Salvini annota: «Anche se gli avvocati mi suggeriscono il contrario». Più avanti, Salvini dice orgogliosamente: «Lo rifarei. E se gli italiani lo vorranno, lo rifarò», alludendo a decisioni dello stesso tipo che sarebbe pronto ad assumere se fosse di nuovo ministro dell'Interno o presidente del Consiglio. Anche qui, però, un'aggiunta: «Sempre che non ci siano stranezze legate alla legge Severino». Salvini fa anche notare (l'aveva già fatto martedì a Rete 4, ospite di Mario Giordano a Fuori dal coro) l'enormità della pena a cui è esposto: «Sarei peggio di uno stupratore: per lo stupro la pena è di 12 anni, per il sequestro gli anni sono 15». Ma cosa prevede esattamente la Severino? Rende ineleggibili e non candidabili, oppure (se già eletti) li fa decadere dalla carica, coloro che siano stati condannati a più di due anni di reclusione per i reati punibili almeno fino a quattro anni. Attenzione: occorre che la condanna sia definitiva. Quindi, realisticamente, il senatore Salvini non solo non decadrebbe oggi, ma resterebbe candidabile anche in caso di nuove elezioni (e però, a rischio di decadenza una volta eletto, se nel frattempo si giungesse alla terza condanna). Inoltre, esistono almeno due caveat che molto probabilmente rendono assai prudenti i consiglieri giuridici del leader leghista. Primo: nel caso di Salvini, è immaginabile che la macchina giudiziaria si metterebbe a correre all'impazzata, un po' come accadde per Silvio Berlusconi, bruciando le tappe e pronunciando le sentenze a tempi di record. Secondo: anche dopo una sola eventuale condanna in primo grado, è immaginabile la canea -nazionale e internazionale - che si scatenerebbe intorno a un leader politico condannato per sequestro di persona. Salvini avrebbe certamente un enorme sostegno popolare per l'ingiustizia subìta, ma dovrebbe spendere tempo ed energie per spiegare in Italia e all'estero l'assurdità della situazione. Esercizio mai facile con i media internazionali e con cancellerie estere non sempre benevole. Restano due annotazioni conclusive. La prima: se passasse il principio della criminalizzabilità penale delle decisioni in materia di immigrazione di un ministro dell'Interno, si arriverebbe all'effetto paradossale (che dovrebbe indurre allo sconcerto tutti, a partire dalle alte cariche dello Stato) di sottrarre alla libera decisione degli elettori, e quindi alla democrazia, le scelte di difesa dei confini nazionali. In qualunque Paese, si fronteggiano legittimamente una linea più rigorosa e una più permissiva: rendere criminale la prima opzione significa togliere agli elettori la possibilità di votare per una politica migratoria più severa. Il secondo paradosso riguarda Giuseppe Conte. Esiste infatti l'articolo 95 della Costituzione, secondo cui «Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri». Dalla lettura di questo articolo, si evince che il premier ha (e aveva anche l'estate scorsa) tutti gli strumenti politici per dirigere e coordinare l'attività dei suoi ministri. Se era in dissenso da Salvini, perché non ha usato i poteri che gli derivano dall'articolo 95?
Ansa
Suo figlio, Naveed Akram, 24 anni, è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza della polizia. Le piste investigative principali restano due. Da un lato, la cosiddetta pista iraniana, ritenuta plausibile da ambienti israeliani; dall’altro, l’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato islamico, avanzata da alcuni media, anche se l’organizzazione jihadista - che solitamente rivendica con rapidità le proprie azioni - non ha diffuso alcun messaggio di rivendicazione. Un elemento rilevante emerso dalle indagini è il ritrovamento, nell’auto di Naveed Akram, di una bandiera nera del califfato e di ordigni poi disinnescati dagli artificieri.
In attesa di chiarire chi vi sia realmente dietro la strage di Hanukkah, quanto accaduto domenica in Australia non appare come un evento isolato o imprevedibile. Al contrario, si inserisce in una lunga scia di attacchi e intimidazioni antisemite contro la comunità ebraica e le sue istituzioni. Più in generale, rappresenta l’esito di almeno vent’anni di progressiva penetrazione jihadista nel Paese. A dimostrarlo sono anche i numeri dei foreign fighter australiani: circa 200 cittadini avrebbero raggiunto, tra il 2011 e il 2019, la Siria e l’Iraq per unirsi a organizzazioni jihadiste come lo Stato islamico e il Fronte Al Nusra. In Australia, per motivi incomprensibili le autorità non monitorano da anni ambienti di culto radicalizzati dove si inneggia ad Al Qaeda, Isis, Hamas, Hezbollah e Iran, alimentando un clima di radicalizzazione che ha prodotto gravi conseguenze.
Tra i principali predicatori radicali figura Wisam Haddad, noto anche come Abu Ousayd, leader spirituale di una rete pro Isis, individuata da un’inchiesta della Abc. Nonostante fosse sotto osservazione da decenni, non è mai stato formalmente accusato di terrorismo, un’anomalia che evidenzia l’inerzia dello Stato. Haddad feroce antisemita, predica una visione intransigente della Sharia, rifiutando il concetto di Stato e nazionalismo, attirando giovani radicalizzati e facilmente manipolabili. La sua rete ha contribuito al passaggio dalla radicalizzazione verbale al reclutamento operativo. Uno degli attori chiave di questa rete è Youssef Uweinat, ex reclutatore dell’Isis. Conosciuto come Abu Musa Al Maqdisi, ha adescato minorenni australiani, spingendoli alla violenza tramite chat criptate e propaganda jihadista, con messaggi espliciti, immagini di decapitazioni e video di bambini addestrati all’uso delle armi. Condannato nel 2019, Uweinat è stato rilasciato nel 2023 senza misure di sorveglianza severe e ha riallacciato i contatti con Haddad. Inoltre, Uweinat faceva parte di una cellula Isis infiltrata da una fonte dell’Asio, l’intelligence australiana, che ha documentato i piani di attacco e i legami con jihadisti all’estero.
Anche Joseph Saadieh, ex leader giovanile dell’ Al Madina Dawah Centre, ha fatto parte della rete. Arrestato nel 2021 con prove di supporto all’Isis, è stato rilasciato dopo un patteggiamento per un reato minore. L’inchiesta Abc riporta inoltre il ritorno di figure storiche del jihadismo australiano, come Abdul Nacer Benbrika, condannato per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, presunto leader di una cellula Isis a Sydney. Questi ritorni indicano un tentativo di rilancio della rete jihadista. Secondo l’Asio, l’Isis ha recuperato capacità operative, aumentando il rischio di attentati in Australia. Tuttavia, nonostante l’allarme lanciato dalle agenzie, lo Stato australiano non sembra in grado di fermare le figure chiave del jihadismo domestico. Haddad continua a predicare liberamente, nonostante accuse di incitamento all’odio antisemita, e i suoi interlocutori principali sono ex detenuti per terrorismo senza misure di sorveglianza. Questo scenario solleva molti interrogativi sulla sostenibilità di una strategia che si limita a monitorare senza intervenire sui nodi ideologici e relazionali del jihadismo interno. La storia di Uweinat, Saadieh e altre figure simili suggerisce che la minaccia jihadista non emerge dal nulla, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza e sulla capacità dello Stato di affrontare la radicalizzazione interna in modo efficace. Tutto questo ridimensiona la retorica dell’Australia come Paese blindato, dove entrano solo «i migliori» e solo a determinate condizioni. La realtà racconta ben altro: reti jihadiste attive, predicatori radicali liberi di operare e militanti già condannati che tornano a muoversi senza alcun argine. Non si tratta di una falla nei controlli di frontiera, ma di una resa dello Stato sul fronte interno. La radicalizzazione è stata lasciata prosperare come testimoniano le recenti manifestazioni in cui simboli dell’Isis e di Al Qaeda sono stati mostrati senza conseguenze, rendendo il contesto ancora più esplosivo.
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Ansa
La polizia ha chiarito che gli attentatori erano padre e figlio. Si tratta di Sajid Akram, 50 anni, di origine pakistana, residente in Australia da molti anni, e di Naveed Akram, 24 anni, nato in Australia e residente nel sobborgo di Bonnyrigg, nella zona occidentale di Sydney. Secondo quanto riferito dagli investigatori, entrambi risultavano ideologicamente affiliati all’Isis e radicalizzati da tempo. Almeno uno dei due era noto ai servizi di sicurezza australiani, pur non essendo stato classificato come una minaccia imminente. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento delle forze dell’ordine, mentre il figlio Naveed è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza: verrà formalmente interrogato non appena le sue condizioni cliniche lo consentiranno. Le autorità stanno cercando di chiarire il ruolo di ciascuno dei due nella pianificazione dell’attacco e se vi siano stati fiancheggiatori o complici. Nel corso delle perquisizioni effettuate ieri in diversi quartieri di Sydney, in particolare a Bonnyrigg e Campsie, la polizia ha rinvenuto armi ed esplosivi all’interno dei veicoli utilizzati dagli attentatori. Gli ordigni sono stati neutralizzati dagli artificieri e non risulta che siano stati attivati. Un elemento che, secondo gli inquirenti, conferma come il piano fosse più articolato e mirasse a provocare un numero ancora maggiore di vittime. Restano sotto la lente d’ingrandimento anche le misure di sicurezza adottate per l’evento: si parla, infatti, di una sparatoria durata diversi minuti prima che la situazione venisse definitivamente messa sotto controllo. Il che non può che sollevare numerosi interrogativi sulla tempestività dell’intervento e sull’adeguatezza dei controlli preventivi.
La strage, non a caso, ha fatto piovere parecchie critiche addosso al governo laburista guidato da Anthony Albanese, accusato dalle opposizioni e da parte della comunità ebraica di non aver rafforzato la protezione di un evento sensibile malgrado l’aumento degli episodi di antisemitismo registrati negli ultimi mesi in Australia. L’esecutivo ha espresso cordoglio e solidarietà, ma si trova ora a dover rispondere all’accusa di aver sottovalutato il pericolo. Albanese, intanto, ha annunciato una riunione straordinaria del National cabinet per discutere misure urgenti in materia di sicurezza e di controllo delle armi, mentre il governo del Nuovo Galles del Sud ha disposto un rafforzamento immediato della vigilanza attorno a sinagoghe, scuole e centri ebraici.
Numerose le reazioni anche dall’estero. Il premier italiano, Giorgia Meloni, ha condannato l’attentato parlando di «un atto vile e barbaro di terrorismo antisemita» e ribadendo che «l’Italia è al fianco della comunità ebraica e dell’Australia nella lotta contro ogni forma di odio e fanatismo». Parole di ferma condanna sono arrivate anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in un messaggio ufficiale ha espresso «profondo cordoglio per le vittime innocenti» e ha sottolineato come «la violenza terroristica, alimentata dall’odio antisemita, rappresenti una minaccia per i valori fondamentali delle nostre democrazie».
Intanto, a Bondi Beach e in altre città australiane, si moltiplicano veglie e momenti di raccoglimento in memoria delle vittime. Molte iniziative pubbliche legate alla festività di Hanukkah sono state annullate o trasformate in cerimonie di lutto, mentre resta alta l’allerta delle forze di sicurezza in vista dei prossimi giorni.
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