True
2019-12-21
La linea dura sulla nave Gregoretti porta anche la firma dei 5 stelle
Gettyimages
«Gli interventi di salvataggio che hanno portato 135 migranti a bordo della nave Gregoretti sono stati sin dall'inizio concordati con il ministero dell'Interno per supportare Malta, già impegnata in altri eventi Sar (Search and rescue, ovvero ricerca e soccorso, ndr). Lo rimarcano fonti del ministero delle Infrastrutture. Anche sull'assegnazione del Pos (Place of safety, ovvero il porto sicuro, ndr) che fa capo al Viminale, si sta lavorando in perfetto coordinamento con il ministero dell'Interno, nell'auspicio che si arrivi a una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocazione da parte dell'Unione europea». È il pomeriggio del 26 luglio 2019, le agenzie di stampa rilanciano questa nota del ministero guidato da Danilo Toninelli del M5s. La nave Gregoretti ha da poche ore preso a bordo i 135 migranti naufragati la notte precedente. Toninelli tiene a far sapere che sta lavorando «in perfetto coordinamento con il ministero dell'Interno»: altro che decisione individuale, tutti i passaggi dell'affaire Gregoretti sono condivisi da Salvini e Toninelli. «Anche sulla assegnazione del Pos» Toninelli afferma esplicitamente di agire «in perfetto coordinamento» con Salvini. Proprio la mancata assegnazione tempestiva del Pos, secondo il tribunale dei ministri di Catania, sarebbe il fulcro dell'ipotesi di reato di sequestro di persona: lo Stato italiano, secondo i giudici, aveva «l'obbligo di concludere la procedura con il trasferimento dei migranti in un luogo sicuro. Invece, l'omessa indicazione del Place of safety, da parte del dipartimento Immigrazione, dietro precise direttive del ministro dell'Interno, ha determinato una situazione di costrizione a bordo», aggiungono i magistrati nella richiesta di autorizzazione a procedere, «con limitazione della libertà di movimento dei migranti, integrante l'elemento oggettivo del reato ipotizzato».
Toninelli, inoltre, già nelle prime ore dell'affaire Gregoretti, tiene a precisare «l'auspicio che si arrivi a una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocazione da parte dell'Unione europea». È esattamente la stessa linea di Salvini: i migranti sbarcheranno solo quando l'Europa ci dirà chi se li prende. Toninelli, in quel periodo, è sulla graticola: si parla di rimpasto, la sua posizione al governo traballa e lui fa il duro, si allinea al ministro dell'Interno, in quel momento al top della popolarità per la battaglia contro l'immigrazione senza controllo. «Non darò nessun permesso allo sbarco», aveva twittato Salvini poco prima che dal ministero di Toninelli partisse la nota stampa, «finché dall'Europa non arriverà l'impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave. Vediamo se alle parole seguiranno dei fatti. Io non mollo». Non molla neppure Toninelli, e ha una voglia matta di farlo sapere ai media. Due giorni dopo, Toninelli rincara la dose: «La nave Gregoretti della Guardia costiera con a bordo 131 migranti soccorsi in mare», dice il riccioluto ministro, «ha ormeggiato stanotte al porto di Augusta, come è normale che sia per una nave militare. Ora la Ue risponda, perché la questione migratoria riguarda tutto il Continente». È il 28 luglio, Toninelli dice chiaro e tondo che in assenza di risposte dall'Europa i migranti restano dove sono, ovvero a bordo della Gregoretti. Ci resteranno fino al 31 luglio. Il giorno precedente lo sbarco, ovvero il 30 luglio 2019, Augusta, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ai microfoni di In Onda su La 7, fa sapere che è in corso «un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell'Interno e della Difesa. La posizione del governo è sempre la stessa», chiarisce il ministro grillino, «vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevano scendere sono scese, sono monitorate le condizioni di salute, ma del problema immigrazione deve farsi carico tutta l'Europa. Ringrazio il presidente Conte», aggiunge Bonafede, «che continua a porre la questione nelle cancellerie d'Europa». Bonafede aggiunge un altro tassello importante: sull'affaire Gregoretti il dialogo in corso nel governo, in quei giorni, vede come protagonista, oltre a Salvini e Toninelli, anche il premier, Giuseppe Conte, e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, anche lei del M5s, anche lei perfettamente allineata alle decisioni del governo, non certo del solo Salvini. Il 28 luglio, il senatore Gregorio De Falco, ex M5s, ufficiale del corpo Capitanerie di porto della Marina militare, accusa Salvini e Toninelli. «La Gregoretti», dice De Falco, «come nave militare, è esclusa dalla disciplina del decreto Sicurezza bis. Salvini contravviene al proprio decreto e integra forse una vera e propria usurpazione di funzione pubblica mentre il ministro inutilmente competente di fatto abdica totalmente anche alla propria dignità». Inutile dire che il «ministro inutilmente competente» è Toninelli, che De Falco, espertissimo del settore, mette sullo stesso piano di Salvini. «La Gregoretti ad Augusta», twitta sempre il 28 luglio il deputato del Pd Filippo Sensi, «i giornalisti confinati lontano, prosegue la solita danza macabra sulla pelle di un centinaio di disperati e l'umiliazione della Guardia costiera. Mi vergogno per Salvini, Trenta e Toninelli». «Mi aspetto», incalza il 30 luglio il deputato di Leu, Nicola Fratoianni, «che nelle prossime ore i ministri Salvini e Toninelli siano trattati per quello che sono e cioè ministri che violano le leggi del nostro Paese». Uno dei due rischia di finire a processo, l'altro è diventato suo alleato di governo. Il colmo? Toninelli, senatore, dovrà votare per l'autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini.
Il leader leghista teme sgambetti. La legge Severino può farlo fuori
Mettere fuori gioco un avversario per via giudiziaria, oppure - piano B - tenerlo sulla graticola, costringendolo a condurre la sua battaglia con una spada di Damocle pendente sulla testa. È questo uno degli effetti dell'offensiva in corso contro Matteo Salvini.
Con trasparenza, è stato lo stesso leader leghista a porre il tema, in almeno due passaggi, nell'intervista rilasciata ieri al Corriere. Il primo passaggio è appena accennato, quando Salvini dice: «Per un certo verso, sarei curioso di finire in Aula», intesa come aula processuale, e nel caso, il leader leghista aggiunge che con lui «ci saranno milioni di italiani». Ma, in un inciso, Salvini annota: «Anche se gli avvocati mi suggeriscono il contrario». Più avanti, Salvini dice orgogliosamente: «Lo rifarei. E se gli italiani lo vorranno, lo rifarò», alludendo a decisioni dello stesso tipo che sarebbe pronto ad assumere se fosse di nuovo ministro dell'Interno o presidente del Consiglio. Anche qui, però, un'aggiunta: «Sempre che non ci siano stranezze legate alla legge Severino». Salvini fa anche notare (l'aveva già fatto martedì a Rete 4, ospite di Mario Giordano a Fuori dal coro) l'enormità della pena a cui è esposto: «Sarei peggio di uno stupratore: per lo stupro la pena è di 12 anni, per il sequestro gli anni sono 15».
Ma cosa prevede esattamente la Severino? Rende ineleggibili e non candidabili, oppure (se già eletti) li fa decadere dalla carica, coloro che siano stati condannati a più di due anni di reclusione per i reati punibili almeno fino a quattro anni. Attenzione: occorre che la condanna sia definitiva. Quindi, realisticamente, il senatore Salvini non solo non decadrebbe oggi, ma resterebbe candidabile anche in caso di nuove elezioni (e però, a rischio di decadenza una volta eletto, se nel frattempo si giungesse alla terza condanna).
Inoltre, esistono almeno due caveat che molto probabilmente rendono assai prudenti i consiglieri giuridici del leader leghista. Primo: nel caso di Salvini, è immaginabile che la macchina giudiziaria si metterebbe a correre all'impazzata, un po' come accadde per Silvio Berlusconi, bruciando le tappe e pronunciando le sentenze a tempi di record. Secondo: anche dopo una sola eventuale condanna in primo grado, è immaginabile la canea -nazionale e internazionale - che si scatenerebbe intorno a un leader politico condannato per sequestro di persona. Salvini avrebbe certamente un enorme sostegno popolare per l'ingiustizia subìta, ma dovrebbe spendere tempo ed energie per spiegare in Italia e all'estero l'assurdità della situazione. Esercizio mai facile con i media internazionali e con cancellerie estere non sempre benevole.
Restano due annotazioni conclusive. La prima: se passasse il principio della criminalizzabilità penale delle decisioni in materia di immigrazione di un ministro dell'Interno, si arriverebbe all'effetto paradossale (che dovrebbe indurre allo sconcerto tutti, a partire dalle alte cariche dello Stato) di sottrarre alla libera decisione degli elettori, e quindi alla democrazia, le scelte di difesa dei confini nazionali. In qualunque Paese, si fronteggiano legittimamente una linea più rigorosa e una più permissiva: rendere criminale la prima opzione significa togliere agli elettori la possibilità di votare per una politica migratoria più severa.
Il secondo paradosso riguarda Giuseppe Conte. Esiste infatti l'articolo 95 della Costituzione, secondo cui «Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri». Dalla lettura di questo articolo, si evince che il premier ha (e aveva anche l'estate scorsa) tutti gli strumenti politici per dirigere e coordinare l'attività dei suoi ministri. Se era in dissenso da Salvini, perché non ha usato i poteri che gli derivano dall'articolo 95?
Continua a leggereRiduci
Come dimostrano le dichiarazioni di luglio, Giuseppe Conte, Danilo Toninelli e gli altri big grillini erano allineati al ministro dell'Interno sulla gestione del caso. E per questo la sinistra definiva i suoi futuri alleati degli «usurpatori».Matteo Salvini avverte: «Possibili stranezze». La condanna finale lo farebbe decadere.Lo speciale contiene due articoli.«Gli interventi di salvataggio che hanno portato 135 migranti a bordo della nave Gregoretti sono stati sin dall'inizio concordati con il ministero dell'Interno per supportare Malta, già impegnata in altri eventi Sar (Search and rescue, ovvero ricerca e soccorso, ndr). Lo rimarcano fonti del ministero delle Infrastrutture. Anche sull'assegnazione del Pos (Place of safety, ovvero il porto sicuro, ndr) che fa capo al Viminale, si sta lavorando in perfetto coordinamento con il ministero dell'Interno, nell'auspicio che si arrivi a una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocazione da parte dell'Unione europea». È il pomeriggio del 26 luglio 2019, le agenzie di stampa rilanciano questa nota del ministero guidato da Danilo Toninelli del M5s. La nave Gregoretti ha da poche ore preso a bordo i 135 migranti naufragati la notte precedente. Toninelli tiene a far sapere che sta lavorando «in perfetto coordinamento con il ministero dell'Interno»: altro che decisione individuale, tutti i passaggi dell'affaire Gregoretti sono condivisi da Salvini e Toninelli. «Anche sulla assegnazione del Pos» Toninelli afferma esplicitamente di agire «in perfetto coordinamento» con Salvini. Proprio la mancata assegnazione tempestiva del Pos, secondo il tribunale dei ministri di Catania, sarebbe il fulcro dell'ipotesi di reato di sequestro di persona: lo Stato italiano, secondo i giudici, aveva «l'obbligo di concludere la procedura con il trasferimento dei migranti in un luogo sicuro. Invece, l'omessa indicazione del Place of safety, da parte del dipartimento Immigrazione, dietro precise direttive del ministro dell'Interno, ha determinato una situazione di costrizione a bordo», aggiungono i magistrati nella richiesta di autorizzazione a procedere, «con limitazione della libertà di movimento dei migranti, integrante l'elemento oggettivo del reato ipotizzato». Toninelli, inoltre, già nelle prime ore dell'affaire Gregoretti, tiene a precisare «l'auspicio che si arrivi a una rapida soluzione grazie alla pronta risposta in termini di ricollocazione da parte dell'Unione europea». È esattamente la stessa linea di Salvini: i migranti sbarcheranno solo quando l'Europa ci dirà chi se li prende. Toninelli, in quel periodo, è sulla graticola: si parla di rimpasto, la sua posizione al governo traballa e lui fa il duro, si allinea al ministro dell'Interno, in quel momento al top della popolarità per la battaglia contro l'immigrazione senza controllo. «Non darò nessun permesso allo sbarco», aveva twittato Salvini poco prima che dal ministero di Toninelli partisse la nota stampa, «finché dall'Europa non arriverà l'impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave. Vediamo se alle parole seguiranno dei fatti. Io non mollo». Non molla neppure Toninelli, e ha una voglia matta di farlo sapere ai media. Due giorni dopo, Toninelli rincara la dose: «La nave Gregoretti della Guardia costiera con a bordo 131 migranti soccorsi in mare», dice il riccioluto ministro, «ha ormeggiato stanotte al porto di Augusta, come è normale che sia per una nave militare. Ora la Ue risponda, perché la questione migratoria riguarda tutto il Continente». È il 28 luglio, Toninelli dice chiaro e tondo che in assenza di risposte dall'Europa i migranti restano dove sono, ovvero a bordo della Gregoretti. Ci resteranno fino al 31 luglio. Il giorno precedente lo sbarco, ovvero il 30 luglio 2019, Augusta, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ai microfoni di In Onda su La 7, fa sapere che è in corso «un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell'Interno e della Difesa. La posizione del governo è sempre la stessa», chiarisce il ministro grillino, «vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevano scendere sono scese, sono monitorate le condizioni di salute, ma del problema immigrazione deve farsi carico tutta l'Europa. Ringrazio il presidente Conte», aggiunge Bonafede, «che continua a porre la questione nelle cancellerie d'Europa». Bonafede aggiunge un altro tassello importante: sull'affaire Gregoretti il dialogo in corso nel governo, in quei giorni, vede come protagonista, oltre a Salvini e Toninelli, anche il premier, Giuseppe Conte, e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, anche lei del M5s, anche lei perfettamente allineata alle decisioni del governo, non certo del solo Salvini. Il 28 luglio, il senatore Gregorio De Falco, ex M5s, ufficiale del corpo Capitanerie di porto della Marina militare, accusa Salvini e Toninelli. «La Gregoretti», dice De Falco, «come nave militare, è esclusa dalla disciplina del decreto Sicurezza bis. Salvini contravviene al proprio decreto e integra forse una vera e propria usurpazione di funzione pubblica mentre il ministro inutilmente competente di fatto abdica totalmente anche alla propria dignità». Inutile dire che il «ministro inutilmente competente» è Toninelli, che De Falco, espertissimo del settore, mette sullo stesso piano di Salvini. «La Gregoretti ad Augusta», twitta sempre il 28 luglio il deputato del Pd Filippo Sensi, «i giornalisti confinati lontano, prosegue la solita danza macabra sulla pelle di un centinaio di disperati e l'umiliazione della Guardia costiera. Mi vergogno per Salvini, Trenta e Toninelli». «Mi aspetto», incalza il 30 luglio il deputato di Leu, Nicola Fratoianni, «che nelle prossime ore i ministri Salvini e Toninelli siano trattati per quello che sono e cioè ministri che violano le leggi del nostro Paese». Uno dei due rischia di finire a processo, l'altro è diventato suo alleato di governo. Il colmo? Toninelli, senatore, dovrà votare per l'autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-linea-dura-sulla-nave-gregoretti-porta-anche-la-firma-dei-5-stelle-2641660459.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-leader-leghista-teme-sgambetti-la-legge-severino-puo-farlo-fuori" data-post-id="2641660459" data-published-at="1765731386" data-use-pagination="False"> Il leader leghista teme sgambetti. La legge Severino può farlo fuori Mettere fuori gioco un avversario per via giudiziaria, oppure - piano B - tenerlo sulla graticola, costringendolo a condurre la sua battaglia con una spada di Damocle pendente sulla testa. È questo uno degli effetti dell'offensiva in corso contro Matteo Salvini. Con trasparenza, è stato lo stesso leader leghista a porre il tema, in almeno due passaggi, nell'intervista rilasciata ieri al Corriere. Il primo passaggio è appena accennato, quando Salvini dice: «Per un certo verso, sarei curioso di finire in Aula», intesa come aula processuale, e nel caso, il leader leghista aggiunge che con lui «ci saranno milioni di italiani». Ma, in un inciso, Salvini annota: «Anche se gli avvocati mi suggeriscono il contrario». Più avanti, Salvini dice orgogliosamente: «Lo rifarei. E se gli italiani lo vorranno, lo rifarò», alludendo a decisioni dello stesso tipo che sarebbe pronto ad assumere se fosse di nuovo ministro dell'Interno o presidente del Consiglio. Anche qui, però, un'aggiunta: «Sempre che non ci siano stranezze legate alla legge Severino». Salvini fa anche notare (l'aveva già fatto martedì a Rete 4, ospite di Mario Giordano a Fuori dal coro) l'enormità della pena a cui è esposto: «Sarei peggio di uno stupratore: per lo stupro la pena è di 12 anni, per il sequestro gli anni sono 15». Ma cosa prevede esattamente la Severino? Rende ineleggibili e non candidabili, oppure (se già eletti) li fa decadere dalla carica, coloro che siano stati condannati a più di due anni di reclusione per i reati punibili almeno fino a quattro anni. Attenzione: occorre che la condanna sia definitiva. Quindi, realisticamente, il senatore Salvini non solo non decadrebbe oggi, ma resterebbe candidabile anche in caso di nuove elezioni (e però, a rischio di decadenza una volta eletto, se nel frattempo si giungesse alla terza condanna). Inoltre, esistono almeno due caveat che molto probabilmente rendono assai prudenti i consiglieri giuridici del leader leghista. Primo: nel caso di Salvini, è immaginabile che la macchina giudiziaria si metterebbe a correre all'impazzata, un po' come accadde per Silvio Berlusconi, bruciando le tappe e pronunciando le sentenze a tempi di record. Secondo: anche dopo una sola eventuale condanna in primo grado, è immaginabile la canea -nazionale e internazionale - che si scatenerebbe intorno a un leader politico condannato per sequestro di persona. Salvini avrebbe certamente un enorme sostegno popolare per l'ingiustizia subìta, ma dovrebbe spendere tempo ed energie per spiegare in Italia e all'estero l'assurdità della situazione. Esercizio mai facile con i media internazionali e con cancellerie estere non sempre benevole. Restano due annotazioni conclusive. La prima: se passasse il principio della criminalizzabilità penale delle decisioni in materia di immigrazione di un ministro dell'Interno, si arriverebbe all'effetto paradossale (che dovrebbe indurre allo sconcerto tutti, a partire dalle alte cariche dello Stato) di sottrarre alla libera decisione degli elettori, e quindi alla democrazia, le scelte di difesa dei confini nazionali. In qualunque Paese, si fronteggiano legittimamente una linea più rigorosa e una più permissiva: rendere criminale la prima opzione significa togliere agli elettori la possibilità di votare per una politica migratoria più severa. Il secondo paradosso riguarda Giuseppe Conte. Esiste infatti l'articolo 95 della Costituzione, secondo cui «Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri». Dalla lettura di questo articolo, si evince che il premier ha (e aveva anche l'estate scorsa) tutti gli strumenti politici per dirigere e coordinare l'attività dei suoi ministri. Se era in dissenso da Salvini, perché non ha usato i poteri che gli derivano dall'articolo 95?
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
Jaki sembra un re Mida al contrario: uccide ciò che tocca ma rimane ricco
Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
Continua a leggereRiduci