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2021-05-28
La grande abbuffata sul Covid
Jorge Solis, l'intermediario ecuadoregno coinvolto nell'inchiesta sulla maxi commessa da 800 milioni di mascherine targate Mario Benotti, il 31 ottobre del 2020, intercettato al telefono, tifava apertamente Covid. E attendeva il lockdown ferreo. A posteriori come dargli torto. Dallo scoppio della pandemia lo Stato ha stanziato e in parte speso poco più di 23 miliardi di euro. Esattamente la metà di questa cifra è stata destinata all'acquisto di mascherine e dispositivi di protezione. Analoga percentuale vale per gli ordinativi che sono passati direttamente dalla struttura commissariale. Lì, a comandare, dal 16 marzo 2020 fino al primo marzo di quest'anno, è stato Domenico Arcuri. Se si pensa che il valore delle commesse portate a casa dal team di Benotti si aggira sul miliardo e 200 milioni di euro, si comprende che questa assegnazione su cui ancora indaga la Procura di Roma vale il 10% della spesa per le mascherine e il 5% di tutto quanto lo Stato ha messo a bilancio per far fronte alla pandemia. E per tutto si intende non solo le protezioni sanitarie, i ventilatori e quanto necessario a tamponare l'emergenza. Ma anche la spesa sostenuta fino a oggi per i vaccini e per gli ospedali. Nel maxi calderone dei circa 23 miliardi c'è pure il budget per la scuola e per i mezzi di trasporto. Se si uniscono i puntini si comprende l'enormità di quel 5% che la struttura di Arcuri ha affidato direttamente al gruppo di Benotti, del quale conosciamo dettagli e incongruenze grazie soprattutto al lavoro di Giacomo Amadori. Il dramma sta tutto però in una domanda. Esistono altri Benotti? La vecchia struttura commissariale ad esempio non ha mai chiarito perché si sia rifornita di luer lock, siringhe di precisione, a prezzi ben superiori del mercato e senza passare da fornitori italiani anche rinomati.
D'altronde, in questa enorme spesa che l'Italia non vedeva transitare dai tempi del dopoguerra, sono molteplici gli aspetti che non funzionano. Sul sito di Openpolis, dove si accede a tutte le informazioni recuperate tramite Foia, è possibile digitare i nomi delle aziende vincitrici di gara o assegnatarie dirette. Wenzhou light industrial product è presente nel database. È uno dei fornitori cinesi di Benotti. Lo stesso nome è nel file delle aziende i cui dispositivi sono stati autorizzati in deroga al Cts. La Procura di Gorizia a metà aprile ha fatto sequestrare 250 milioni di mascherine. Tra queste compaiono i nomi di Wenzhou light industrial product e di Luokai, anch'essa utilizzata per la commessa Benotti. Purtroppo i sequestri ci sono stati anche in Lazio, dove ora si indaga su 5 milioni di mascherine e 430.000 camici. Nellel conversazioni degli indagati compariva il nome di Massimo D'Alema. Così come in un'altro filone di sequestri avviato su segnalazione della Regione Lazio. Qui a non funzionare sono i ventilatori Vg 70 acquistati dalla Silk road global information limited. A incrociare i contatti cinesi con la struttura del commissario fu appunto l'ex segretario dei Ds. Inutile dire che la Silk road compare nel data base di Openpolis. Quindi da un lato consente di arrivare alla cifra di 23 miliardi e aggiunge un tassello al grande impegno economico profuso dallo Stato, ma dall'altro impone una revisione, quanto meno politica, dell'impresa, degli obiettivi e di quanto è stato fatto. Soprattutto del metodo applicato. Perché le inchieste stanno aumentando dal Nord al Sud e gli interrogativi lasciati aperti da Arcuri necessitano urgentemente una risposta.
Bene la commissione d'inchiesta. Non possono essere solo le Procure a dover fare luce. Spetta al Parlamento, sebbene parta già in ritardo. Indagare sulle scelte dell'ex commissario serve anche a trovare la strada migliore per la gestione della pandemia, qualora il virus dovesse diventare endemico. Ad Arcuri toccherà pure chiedere conto delle scelte sul vaccino Reithera. Le recenti motivazioni della Corte dei conti sono emblematiche.
Al termine della primavera del 2020, il commissario, che in quel momento aveva pure le due vesti di controllore (struttura commissariale) e controllato (ad di Invitalia), avvia una trattativa con l'azienda di Castel Romano. Una trattativa che termina il primo febbraio del 2021. Nel frattempo almeno un fondo estero sarebbe potuto entrare nel capitale e mettere i soldi necessari per lo sviluppo della fase 2. Qualcuno ha paventato l'uso del golden power? Fatto sta che si sono persi quasi nove mesi. A quel punto il contratto tra Invitalia e l'azienda farmaceutica prevede una somma consistente per lo sviluppo delle infrastrutture e non del vaccino. Invitalia entra nel capitale ma si ferma lì. La doccia fredda congela l'operazione. Il neo ministro Giancarlo Giorgetti ha detto di voler andare avanti per sviluppare un farmaco nostrano. Ma il rischio concreto è che quando sarà pronto il vaccino tricolore, per prezzo e tipologia, potrà essere competitivo solo per il progetto Covax, quello destinato ai Paesi poveri. Sacrosanta beneficenza, ma una presa in giro, se consideriamo che i giornali italiani sono stati settimane a perdere tempo dietro alle primule. Adesso la poltrona di Arcuri in Invitalia traballa sempre più. Ma non è questo il punto. Per la salute della nostra democrazia serve una commissione d'inchiesta.
Dai ventilatori ai banchi a rotelle. Il Covid ci costa più di 23 miliardi

Domenica Arcuri (Ansa)
La pandemia non è soltanto un'immensa tragedia umana: è anche un gigantesco business. E un macigno per i conti pubblici, se si considera che finora, per l'emergenza - e per un totale di 15.418 lotti, monitorati dalla fondazione Openpolis - sono stati stanziati 23,46 miliardi di euro. Una somma enorme, che include anche i 7,27 miliardi per gli accordi quadro, cioè le procedure di affidamento diretto alle imprese, in seguito alla convenzione con alcune ditte fornitrici. Di questi, 8,61 miliardi sono i denari già aggiudicati (dei quali 1,78 rientrano negli accordi quadro). Tutte cifre monstre, frutto dell'operato di 1.358 stazioni appaltanti, tra Stato centrale, struttura commissariale, Regioni, Asl, società partecipate ed enti locali, che hanno affidato commesse a 2.549 aziende.
Da un lato, insomma, ci sono le oltre 125.000 vittime stroncate dal Sars-Cov-2. Le famiglie distrutte dal dolore; interi territori, come Alzano e Nembro, falcidiati dal virus cinese; e i lunghi mesi di lockdown, costati 183 miliardi di Pil. Dall'altro, un grande banchetto. Che in parte è l'inevitabile conseguenza di una calamità planetaria: tamponi, siringhe, respiratori, mascherine, erano tutti acquisti indispensabili. Ma il disastro sanitario s'è anche portato dietro tutte le storture, i lati oscuri e le inefficienze dell'abituale gestione «all'italiana». Con un nome ricorrente: quello di Domenico Arcuri. In fondo, oltre il 55% degli importi mobilitati per il Covid è passato dalla struttura commissariale, sia ai tempi del governo Conte, sia, nell'era di Mario Draghi, con il generale Paolo Figliuolo. Stiamo parlando di circa 10 miliardi e mezzo di euro.
Solo ad aprile, è stato messo a bando quasi mezzo miliardo per procurare vaccini, allestire gli hub per le somministrazioni, organizzare la logistica e il trasporto delle dosi. Si tratta dell'80,6% dei fondi stanziati in totale, nel corso del mese, per fronteggiare l'epidemia. La campagna d'immunizzazioni, ormai, occupa quasi il 9% delle somme indette: intorno a 2 miliardi di euro.
Ma la parte del leone, nelle forniture pandemiche, continuano a farla le mascherine, per le quali sono stati impegnati circa 12 miliardi, di cui quasi 4 e mezzo già aggiudicati (escludendo gli accordi quadro). Al secondo posto, ci sono gli stanziamenti per tamponi e altri sistemi di diagnosi della malattia: si arriva praticamente a 4 miliardi di euro. Le risorse destinate a terapie intensive, rianimazione e farmaci anti Covid sono poco meno di quelle fino ad oggi indirizzate sui vaccini: oltre 1 miliardo e 800 milioni. E al quinto posto della classifica per tipologia di forniture, compaiono sorprendentemente «infrastrutture, arredi e attrezzature scolastiche»: più di 1 miliardo e 300 milioni, in larga parte stanziati nei mesi estivi dello scorso anno, in vista del ritorno in classe degli alunni. Un progetto sul quale l'esecutivo giallorosso e Giuseppe Conte in persona avevano puntato molto, ma che non ha avuto grossa fortuna. È qui, non a caso, che affiora la prima nota dolente, se non altro per come è stata impegnata quella ragguardevole somma.
Come si evince dal dettaglio di spesa, infatti, 1 miliardo e 200 milioni sono stati destinati alle «sedute innovative», i famigerati banchi a rotelle e monoposto voluti dalla rovinosa coppia Lucia Azzolina-Domenico Arcuri, rispettivamente ex ministro dell'Istruzione ed ex commissario straordinario. Che fine abbiano fatto questi attrezzi, che avrebbero dovuto rivoluzionare la sicurezza delle aule, lo sappiamo: spesso inutilizzati, accatastati, abbandonati, o comunque contestati per la scomodità del sedile e le dimensioni ridotte del tavolino. I lettori della Verità, tra l'altro, ricorderanno altresì le travagliate vicende del relativo appalto: Arcuri si vantava di aver indetto un bando, anche se i poteri conferitigli gli avrebbero permesso l'affidamento diretto; solo che, come scoprì il nostro giornale, inizialmente, tra le ditte aggiudicatarie figurava pure la Nexus, una società di Ostia con un solo dipendente, in cassa integrazione, che avrebbe dovuto realizzare 180.000 banchi.
Di contro, prima che il decreto Sostegni bis aumentasse le dotazioni, meno di 3 milioni erano stati stanziati per rafforzare il trasporto pubblico, potenziale fonte di contagi. Allora, l'ex titolare del Mit, la piddina Paola De Micheli, aveva individuato una geniale misura di prevenzione: tenere i finestrini degli scuolabus aperti. Da piangere.
Un altro aspetto che va messo in luce riguarda l'assegnazione delle commesse. Come rivelato dal monitoraggio di Openpolis, l'86% degli importi viene attribuito attraverso procedure semplificate, tra negoziazioni senza previa pubblicazione (67,55), accordi quadro (10,14%) e affidamenti diretti (8,22%). E se, in una situazione di emergenza sanitaria, era scontato - e necessario - velocizzare la macchina statale, dall'altro, l'allentamento dei vincoli canonici è un invito a nozze per gli speculatori con pochi scrupoli. O per aziende improvvisate e consorzi di imprenditori raffazzonati: basti pensare al trio Mario Benotti-Andrea Tommasi-Jorge Solis, ai loro fornitori cinesi e all'affare miliardario per le mascherine, finito sotto la lente della Procura di Roma. Perché il Covid è una sciagura, ma per molti è stato anche una ghiotta occasione.
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Domenico Arcuri, che traballa in Invitalia, ha compiuto altre operazioni dubbie, come l'acquisto delle siringhe ignorando i fornitori nazionali o i soldi a Reithera. Va fatta chiarezza. Le pulci a 14 mesi di appalti: il 55% delle spese è passato dai commissari, soprattutto con affidamenti diretti. Previsti 1 miliardo e 200 milioni per i monoposto, ma (prima del Sostegni bis) meno di 3 milioni per i trasporti. Lo speciale contiene due articoli. Jorge Solis, l'intermediario ecuadoregno coinvolto nell'inchiesta sulla maxi commessa da 800 milioni di mascherine targate Mario Benotti, il 31 ottobre del 2020, intercettato al telefono, tifava apertamente Covid. E attendeva il lockdown ferreo. A posteriori come dargli torto. Dallo scoppio della pandemia lo Stato ha stanziato e in parte speso poco più di 23 miliardi di euro. Esattamente la metà di questa cifra è stata destinata all'acquisto di mascherine e dispositivi di protezione. Analoga percentuale vale per gli ordinativi che sono passati direttamente dalla struttura commissariale. Lì, a comandare, dal 16 marzo 2020 fino al primo marzo di quest'anno, è stato Domenico Arcuri. Se si pensa che il valore delle commesse portate a casa dal team di Benotti si aggira sul miliardo e 200 milioni di euro, si comprende che questa assegnazione su cui ancora indaga la Procura di Roma vale il 10% della spesa per le mascherine e il 5% di tutto quanto lo Stato ha messo a bilancio per far fronte alla pandemia. E per tutto si intende non solo le protezioni sanitarie, i ventilatori e quanto necessario a tamponare l'emergenza. Ma anche la spesa sostenuta fino a oggi per i vaccini e per gli ospedali. Nel maxi calderone dei circa 23 miliardi c'è pure il budget per la scuola e per i mezzi di trasporto. Se si uniscono i puntini si comprende l'enormità di quel 5% che la struttura di Arcuri ha affidato direttamente al gruppo di Benotti, del quale conosciamo dettagli e incongruenze grazie soprattutto al lavoro di Giacomo Amadori. Il dramma sta tutto però in una domanda. Esistono altri Benotti? La vecchia struttura commissariale ad esempio non ha mai chiarito perché si sia rifornita di luer lock, siringhe di precisione, a prezzi ben superiori del mercato e senza passare da fornitori italiani anche rinomati. D'altronde, in questa enorme spesa che l'Italia non vedeva transitare dai tempi del dopoguerra, sono molteplici gli aspetti che non funzionano. Sul sito di Openpolis, dove si accede a tutte le informazioni recuperate tramite Foia, è possibile digitare i nomi delle aziende vincitrici di gara o assegnatarie dirette. Wenzhou light industrial product è presente nel database. È uno dei fornitori cinesi di Benotti. Lo stesso nome è nel file delle aziende i cui dispositivi sono stati autorizzati in deroga al Cts. La Procura di Gorizia a metà aprile ha fatto sequestrare 250 milioni di mascherine. Tra queste compaiono i nomi di Wenzhou light industrial product e di Luokai, anch'essa utilizzata per la commessa Benotti. Purtroppo i sequestri ci sono stati anche in Lazio, dove ora si indaga su 5 milioni di mascherine e 430.000 camici. Nellel conversazioni degli indagati compariva il nome di Massimo D'Alema. Così come in un'altro filone di sequestri avviato su segnalazione della Regione Lazio. Qui a non funzionare sono i ventilatori Vg 70 acquistati dalla Silk road global information limited. A incrociare i contatti cinesi con la struttura del commissario fu appunto l'ex segretario dei Ds. Inutile dire che la Silk road compare nel data base di Openpolis. Quindi da un lato consente di arrivare alla cifra di 23 miliardi e aggiunge un tassello al grande impegno economico profuso dallo Stato, ma dall'altro impone una revisione, quanto meno politica, dell'impresa, degli obiettivi e di quanto è stato fatto. Soprattutto del metodo applicato. Perché le inchieste stanno aumentando dal Nord al Sud e gli interrogativi lasciati aperti da Arcuri necessitano urgentemente una risposta. Bene la commissione d'inchiesta. Non possono essere solo le Procure a dover fare luce. Spetta al Parlamento, sebbene parta già in ritardo. Indagare sulle scelte dell'ex commissario serve anche a trovare la strada migliore per la gestione della pandemia, qualora il virus dovesse diventare endemico. Ad Arcuri toccherà pure chiedere conto delle scelte sul vaccino Reithera. Le recenti motivazioni della Corte dei conti sono emblematiche. Al termine della primavera del 2020, il commissario, che in quel momento aveva pure le due vesti di controllore (struttura commissariale) e controllato (ad di Invitalia), avvia una trattativa con l'azienda di Castel Romano. Una trattativa che termina il primo febbraio del 2021. Nel frattempo almeno un fondo estero sarebbe potuto entrare nel capitale e mettere i soldi necessari per lo sviluppo della fase 2. Qualcuno ha paventato l'uso del golden power? Fatto sta che si sono persi quasi nove mesi. A quel punto il contratto tra Invitalia e l'azienda farmaceutica prevede una somma consistente per lo sviluppo delle infrastrutture e non del vaccino. Invitalia entra nel capitale ma si ferma lì. La doccia fredda congela l'operazione. Il neo ministro Giancarlo Giorgetti ha detto di voler andare avanti per sviluppare un farmaco nostrano. Ma il rischio concreto è che quando sarà pronto il vaccino tricolore, per prezzo e tipologia, potrà essere competitivo solo per il progetto Covax, quello destinato ai Paesi poveri. Sacrosanta beneficenza, ma una presa in giro, se consideriamo che i giornali italiani sono stati settimane a perdere tempo dietro alle primule. Adesso la poltrona di Arcuri in Invitalia traballa sempre più. Ma non è questo il punto. Per la salute della nostra democrazia serve una commissione d'inchiesta. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/la-grande-abbuffata-sul-covid-2653128260.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dai-ventilatori-ai-banchi-a-rotelle-il-covid-ci-costa-piu-di-23-miliardi" data-post-id="2653128260" data-published-at="1622141649" data-use-pagination="False"> Dai ventilatori ai banchi a rotelle. Il Covid ci costa più di 23 miliardi Domenica Arcuri (Ansa) La pandemia non è soltanto un'immensa tragedia umana: è anche un gigantesco business. E un macigno per i conti pubblici, se si considera che finora, per l'emergenza - e per un totale di 15.418 lotti, monitorati dalla fondazione Openpolis - sono stati stanziati 23,46 miliardi di euro. Una somma enorme, che include anche i 7,27 miliardi per gli accordi quadro, cioè le procedure di affidamento diretto alle imprese, in seguito alla convenzione con alcune ditte fornitrici. Di questi, 8,61 miliardi sono i denari già aggiudicati (dei quali 1,78 rientrano negli accordi quadro). Tutte cifre monstre, frutto dell'operato di 1.358 stazioni appaltanti, tra Stato centrale, struttura commissariale, Regioni, Asl, società partecipate ed enti locali, che hanno affidato commesse a 2.549 aziende. Da un lato, insomma, ci sono le oltre 125.000 vittime stroncate dal Sars-Cov-2. Le famiglie distrutte dal dolore; interi territori, come Alzano e Nembro, falcidiati dal virus cinese; e i lunghi mesi di lockdown, costati 183 miliardi di Pil. Dall'altro, un grande banchetto. Che in parte è l'inevitabile conseguenza di una calamità planetaria: tamponi, siringhe, respiratori, mascherine, erano tutti acquisti indispensabili. Ma il disastro sanitario s'è anche portato dietro tutte le storture, i lati oscuri e le inefficienze dell'abituale gestione «all'italiana». Con un nome ricorrente: quello di Domenico Arcuri. In fondo, oltre il 55% degli importi mobilitati per il Covid è passato dalla struttura commissariale, sia ai tempi del governo Conte, sia, nell'era di Mario Draghi, con il generale Paolo Figliuolo. Stiamo parlando di circa 10 miliardi e mezzo di euro. Solo ad aprile, è stato messo a bando quasi mezzo miliardo per procurare vaccini, allestire gli hub per le somministrazioni, organizzare la logistica e il trasporto delle dosi. Si tratta dell'80,6% dei fondi stanziati in totale, nel corso del mese, per fronteggiare l'epidemia. La campagna d'immunizzazioni, ormai, occupa quasi il 9% delle somme indette: intorno a 2 miliardi di euro. Ma la parte del leone, nelle forniture pandemiche, continuano a farla le mascherine, per le quali sono stati impegnati circa 12 miliardi, di cui quasi 4 e mezzo già aggiudicati (escludendo gli accordi quadro). Al secondo posto, ci sono gli stanziamenti per tamponi e altri sistemi di diagnosi della malattia: si arriva praticamente a 4 miliardi di euro. Le risorse destinate a terapie intensive, rianimazione e farmaci anti Covid sono poco meno di quelle fino ad oggi indirizzate sui vaccini: oltre 1 miliardo e 800 milioni. E al quinto posto della classifica per tipologia di forniture, compaiono sorprendentemente «infrastrutture, arredi e attrezzature scolastiche»: più di 1 miliardo e 300 milioni, in larga parte stanziati nei mesi estivi dello scorso anno, in vista del ritorno in classe degli alunni. Un progetto sul quale l'esecutivo giallorosso e Giuseppe Conte in persona avevano puntato molto, ma che non ha avuto grossa fortuna. È qui, non a caso, che affiora la prima nota dolente, se non altro per come è stata impegnata quella ragguardevole somma. Come si evince dal dettaglio di spesa, infatti, 1 miliardo e 200 milioni sono stati destinati alle «sedute innovative», i famigerati banchi a rotelle e monoposto voluti dalla rovinosa coppia Lucia Azzolina-Domenico Arcuri, rispettivamente ex ministro dell'Istruzione ed ex commissario straordinario. Che fine abbiano fatto questi attrezzi, che avrebbero dovuto rivoluzionare la sicurezza delle aule, lo sappiamo: spesso inutilizzati, accatastati, abbandonati, o comunque contestati per la scomodità del sedile e le dimensioni ridotte del tavolino. I lettori della Verità, tra l'altro, ricorderanno altresì le travagliate vicende del relativo appalto: Arcuri si vantava di aver indetto un bando, anche se i poteri conferitigli gli avrebbero permesso l'affidamento diretto; solo che, come scoprì il nostro giornale, inizialmente, tra le ditte aggiudicatarie figurava pure la Nexus, una società di Ostia con un solo dipendente, in cassa integrazione, che avrebbe dovuto realizzare 180.000 banchi. Di contro, prima che il decreto Sostegni bis aumentasse le dotazioni, meno di 3 milioni erano stati stanziati per rafforzare il trasporto pubblico, potenziale fonte di contagi. Allora, l'ex titolare del Mit, la piddina Paola De Micheli, aveva individuato una geniale misura di prevenzione: tenere i finestrini degli scuolabus aperti. Da piangere. Un altro aspetto che va messo in luce riguarda l'assegnazione delle commesse. Come rivelato dal monitoraggio di Openpolis, l'86% degli importi viene attribuito attraverso procedure semplificate, tra negoziazioni senza previa pubblicazione (67,55), accordi quadro (10,14%) e affidamenti diretti (8,22%). E se, in una situazione di emergenza sanitaria, era scontato - e necessario - velocizzare la macchina statale, dall'altro, l'allentamento dei vincoli canonici è un invito a nozze per gli speculatori con pochi scrupoli. O per aziende improvvisate e consorzi di imprenditori raffazzonati: basti pensare al trio Mario Benotti-Andrea Tommasi-Jorge Solis, ai loro fornitori cinesi e all'affare miliardario per le mascherine, finito sotto la lente della Procura di Roma. Perché il Covid è una sciagura, ma per molti è stato anche una ghiotta occasione.
Nel riquadro, l'ultima campagna della Terza Brigata d'Assalto ucraina (Ansa)
Quando l’Ucraina è stata invasa dalla Russia, nel febbraio del 2022, Europa e Stati Uniti si sono compattamente schierati con Kiev a difesa dei «valori dell’Occidente». Quali fossero, questi valori, non era chiarissimo. Ma con il senno di poi alcuni aspetti si sono disvelati: per gli americani erano semplicemente i loro interessi, tanto è vero che, falliti i tentativi di destabilizzare Mosca e senza alcuna intenzione di rischiare davvero una guerra nucleare, Washington ora non vede l’ora di archiviare il conflitto. Quanto agli europei, invece, all’inizio sembrava che immaginassero l’Ucraina come futuro baricentro liberal. Kiev, d’altra parte, rimane una delle mete preferite della borghesia annoiata del Vecchio continente, in cerca di uteri da affittare per mettere al mondo figli a pagamento. Purtroppo, però, l’ideologia gender (che poi è capitalismo in purezza) non invoglia nessuno a sacrificare la propria vita per difendere la patria. La fluidità, insomma, non si concilia benissimo con le armi. E così, proprio come avviene in Ucraina, è molto probabile che la mascolinità («tossica») tornerà di moda anche in Europa, persa nei suoi spasmi bellicisti.
A Kiev, dove è sempre più difficile trovare uomini disposti a morire al fronte, questo lo sanno. Non vendono ai loro cittadini discorsi sulla democrazia (che non c’è) né sulla superiorità morale dell’Ucraina (anch’essa discutibile, specialmente dopo gli ultimi scandali sulla corruzione): usano l’artificio più antico del mondo. Una foto di un maschio alfa seduto su una motocicletta, abbracciato da una bella donna con in mano una pistola e la scritta: «Amo la terza brigata d’assalto». Oppure un’attraente donna bionda, con lo sguardo perso in lontananza, che riflette nei suoi occhiali da sole l’immagine di un soldato in tenuta mimetica. Sono soltanto alcuni dei cartelloni pubblicitari sparsi per le città ucraine, ma il concetto è chiaro: quando si parla di guerra, ci vuole l’uomo virile.
La terza brigata d’assalto, d’altronde, non è altro che l’ex battaglione Azov: quel gruppo armato neonazista su cui i media occidentali fino a prima del febbraio 2022 facevano servizi e che poi, sempre gli stessi media, hanno provato a far passare per lettori di Emmanuel Kant.
Oggi il battaglione, confluito nell’esercito ufficiale, si avvale perfino di un dipartimento marketing. Dopo quasi quattro anni di guerra, le reclute languono e le perdite aumentano, così non resta che la pubblicità. «Il nostro obiettivo: inventare continuamente nuove buone ragioni per arruolarsi», spiega uno dei soldati che ci lavora. Per attirare nuovi soldati da addestrare puntano sulla reputazione: ideali, patriottismo, nazionalismo, fratellanza d’armi. E, come testimoniano le insegne pubblicitarie, anche quell’insondabile oggetto del desiderio che fa uscire di testa i maschi. Come avverrebbe in qualsiasi Paese in guerra, naturalmente. Ma senza dubbio ideali distanti dai «valori dell’Occidente» che abbiamo fatto difendere per procura agli ucraini, rifornendoli di soldi e di armi. A quanto pare, però, nemmeno il richiamo agli istinti è sufficiente a rimpolpare le fila dell’esausto, benché indubbiamente anche eroico, esercito di Kiev.
La sensazione, dunque, è che l’aria cambierà anche da noi. Che nella politica estera abbiano un qualche peso i valori, nessuno lo crede realmente. I valori cambiano a seconda degli obiettivi. La guerra, per esempio, ora fa comodo all’Ue e a qualche suo leader per continuare a esistere. Ma al fronte ci vanno gli uomini, quelli dalla «mascolinità tossica», disposti a difendere le loro famiglie a costo della vita.
Morto soldato Uk: «Non al fronte»
Se, nel prossimo futuro, il premier britannico Keir Starmer ha promesso che invierà truppe in Ucraina per garantire la pace, guardando al presente la situazione non appare così promettente. Chi dovrebbe addestrare i soldati ucraini perde la vita senza nemmeno essere schierato sul campo: un istruttore britannico è, infatti, morto ieri in Ucraina a seguito di «un tragico incidente mentre osservava le forze ucraine testare una nuova capacità difensiva, lontano dalla linea del fronte».
Nel frattempo, gli ucraini hanno issato la bandiera gialloblù a Pokrovsk per negare la presa della città da parte dei soldati russi. La foto-simbolo ucraina è stata, però, scattata appositamente per la Bbc, in una dinamica che mette in luce la resistenza ma anche le difficoltà dell’esercito di Kiev: il comandante del reggimento d’assalto Skala, per dimostrare che la parte Nord di Pokrovsk non è sotto il controllo russo, ha chiesto a due soldati di uscire velocemente da un edificio in cui erano nascosti per sventolare la bandiera, prima di tornare subito al riparo.
Quel che è certo è che Mosca continua ad avanzare: il capo di stato maggiore dell’esercito russo, Valery Gerasimov, ha comunicato la conquista di tre centri abitati situati a Est di Pokrovsk: Rivne, Rog e Gnatovka. Parlando della presa dei territori e delle reazioni della popolazione ucraina, il presidente russo, Vladimir Putin, ha dichiarato: «I civili che non lasciano le città nella zona dell’operazione militare speciale accolgono i soldati russi con le parole “vi stavamo aspettando”». A essere presa di mira dalle forze russe è, poi, la città di Myrnohrad, sempre nel distretto di Pokrovsk: «Il presidente ha ordinato la sconfitta delle forze ucraine a Myrnohrad», ha annunciato Gerasimov, aggiungendo che già «il 30% degli edifici nella zona» è controllato dai russi. Tra l’altro, il militare ha dato ordini per proseguire l’avanzata verso la regione di Dnipropetrovsk, con l’obiettivo di creare una zona di sicurezza per le regioni annesse di Kherson, Donetsk, Luhansk e Zaporizhzhia. In quest’ultimo oblast, l’attenzione di Mosca si concentra su Huliaipole. A rivelarlo è il portavoce ucraino delle Forze di difesa del Sud, Vladyslav Voloshyn, che ha ammesso: «Il nemico sta cercando principalmente di isolare Huliaipole dalle vie logistiche e di accerchiarla da Est e Nord-Est».
Oltre ai combattimenti sul campo, i raid russi hanno bersagliato le infrastrutture energetiche ucraine, lasciando metà degli abitanti di Kiev di nuovo senza elettricità. Per far fronte all’emergenza, oggi è previsto un calendario di interruzioni di corrente programmate in tutto il Paese. E l’amministratore delegato di Naftogaz, Sergiy Koretsky, ha già lanciato un avvertimento al popolo ucraino: «Sarà sicuramente l’inverno più duro». Ha, infatti, spiegato all’Afp che «la distruzione e le perdite della produzione di gas ucraine sono significative. E il ripristino della produzione richiederà molto tempo».
Dall’altra parte, mentre Mosca ha intercettato e abbattuto 121 droni di Kiev, Putin, consegnando le medaglie d’oro ai militari che si sono distinti sul campo, ha rispolverato «l’inseparabilità della storia millenaria» della Russia dal suo destino. Ammettendo «un momento difficile», il leader del Cremlino ha sentenziato che «il Paese è ancora una volta convinto di quanto siano forti le tradizioni della gloria militare».
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Donald Trump (Ansa)
Oltreoceano, la riserva di credito di cui gode il capo della resistenza si sta esaurendo. Donald Trump, in un’intervista a Politico, nella quale ha attaccato i «deboli» leader dell’Ue, ha liquidato anche Zelensky, invocando il ritorno alle urne nel Paese invaso: «Sì, penso che sia il momento», ha detto. I dirigenti ucraini, ha aggiunto il tycoon, «stanno usando la guerra come pretesto per non tenere elezioni, ma penso che il popolo dovrebbe avere questa scelta. E forse Zelensky vincerebbe. Non so chi vincerebbe. Ma non hanno elezioni da molto tempo. Parlano di democrazia, ma si arriva a un punto in cui non è più una democrazia». Il presidente ucraino, a Repubblica, ha assicurato di essere «sempre pronto» al voto. L’uomo della Casa Bianca ha ricordato che i soldati di Kiev «hanno perso territorio molto prima che io arrivassi. Hanno perso un’intera fascia costiera, una grande fascia costiera. Io sono qui da dieci mesi, ma se torniamo indietro di dieci mesi e diamo un’occhiata, hanno perso tutta quella fascia. Ora è una fascia più grande, una fascia più ampia. Ma hanno perso molto territorio e anche territorio buono. Di certo non si può dire che sia una vittoria». Per Trump, il suo omologo deve accettare la situazione.
Può darsi che il tycoon non conosca la geografia (ha dichiarato che la Crimea è circondata dall’oceano). Ma sulla storia ha ragione da vendere. Le cose, com’è già accaduto nel recente passato, potrebbero peggiorare: se si fosse cercata una soluzione negoziale a marzo 2022, le perdite per l’Ucraina sarebbero state minori; idem, se si fosse tentato di tirare una linea dopo il fiasco della controffensiva del 2023; adesso, mentre sta conquistando avamposti strategici nel Donbass, è logico che Mosca indugi e cerchi di massimizzare i propri guadagni in sede politica. Il tempo è una variabile che gioca a sfavore della resistenza. «I colloqui ora coinvolgono gli Stati Uniti e Kiev», hanno tagliato corto dal Cremlino. «Siamo in attesa dell’esito di queste discussioni».
Il presidente americano, nella conversazione pubblicata ieri da Politico, ha ridimensionato pure le ambizioni ucraine di aderire alla Nato. L’idea degli europei era che l’ingresso di Kiev nell’Alleanza non andasse proibito per Costituzione, bensì dovesse essere rinviato a quando ci sarebbe stato il consenso unanime nell’organizzazione. Mai, probabilmente. Trump ha ribadito che esisteva una tacita intesa, per cui l’Ucraina sarebbe rimasta neutrale, già prima che Vladimir Putin ne facesse una questione esistenziale: «È sempre stato così», ha spiegato The Donald, «ora hanno iniziato a insistere». Lo scenario peggiore sarebbe quello in cui al contentino si dovesse sovrapporre il disimpegno Usa: ci ritroveremmo sul groppone i nemici dello zar, con una Nato privata del sostegno incondizionato degli statunitensi. Intanto, paghiamo Washington per dare a Kiev e «l’Europa viene distrutta»: Trump ci ha sbattuto in faccia il nostro masochismo e si è concesso uno sberleffo, parlando della Nato che lo chiama «papino».
Le élite di Bruxelles appaiono in trappola: scommettono sulla prosecuzione delle ostilità, perché sono ai margini della ridefinizione postbellica dell’architettura di sicurezza del continente. In più, l’Ue ha investito troppi soldi e troppa retorica nella causa. Pertanto, deve aggrapparsi alla minaccia dell’invasione di Putin, che il commissario alla Difesa, Andrius Kubilius, considera addirittura «inevitabile» se l’Ucraina si arrende. Spauracchio agitato per imporre la trovata suicida del prestito di riparazione, finanziato dagli asset russi ma in realtà coperto dai miliardi degli Stati membri. Da questo punto di vista, l’opposizione al piano Trump è stata un autogol: in quel documento era indicata l’unica modalità per l’utilizzo delle risorse congelate, da investire nella ricostruzione delle regioni distrutte dalle bombe, sulla quale Mosca poteva concordare. L’Ue ha rispedito il pacchetto al mittente e adesso, con in mano un conto mostruoso da saldare, i suoi portavoce si vantano perché decidere il destino di quei fondi «richiede effettivamente discussione con l’Ue». L’Italia dovrebbe impegnare 25 miliardi, la Francia 34, la Germania 51, solo per dimostrare che l’Europa esiste. Il presidente del Consiglio Ue, Antonio Costa, ha annunciato che il vertice del 18 dicembre durerà anche tre giorni, se necessari a sbloccare il dossier. «Non faremo in Ucraina quello che altri hanno fatto in Afghanistan», ha tuonato il portoghese. Il ritiro delle truppe Usa fu opera di Joe Biden. Noi, furbi, il nuovo Afghanistan lo vogliamo rendere eterno...
Dietro la solidarietà europea, comunque, si nasconde l’opportunismo. Kaja Kallas, ieri, ha gettato il velo: «Il costo del sostegno all’Ucraina», ha osservato, «impallidisce rispetto a quello che dovremmo spendere per una guerra su vasca scala nell’Unione europea». Tradotto: è meglio spedire in trincea gli alleati, affinché tengano impegnati i russi. Non è lo stesso cinismo, la stessa logica dello Stato cuscinetto di cui ragiona lo zar?
A smascherare le fumisterie dei leader Ue ci ha pensato sempre Trump: «Parlano ma non producono», ha commentato. «E la guerra continua ad andare avanti e avanti». Per suggellare l’umiliazione, la testata che lo ha intervistato ci ha messo del suo: secondo Politico, per trovare l’uomo più potente d’Europa bisogna entrare nello Studio ovale.
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Volodymyr Zelensky e Giorgia Meloni (Ansa)
Il tour europeo di Volodymyr Zelensky è passato anche dall’Italia. Ieri, il presidente ucraino era infatti a Roma, dove, nel pomeriggio, è stato ricevuto per un’ora e mezza a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni.
«Nel corso dell’incontro, i due leader hanno analizzato lo stato di avanzamento del processo negoziale e condiviso i prossimi passi da compiere per il raggiungimento di una pace giusta e duratura per l’Ucraina», recita una nota di Palazzo Chigi. «I due leader hanno inoltre ricordato l’importanza dell’unità di vedute tra partner europei e americani e del contributo europeo a soluzioni che avranno ripercussioni sulla sicurezza del continente», prosegue il comunicato, secondo cui i due leader hanno anche discusso delle garanzie di sicurezza per Kiev. «Ho incontrato la presidente del Consiglio dei ministri italiana Giorgia Meloni a Roma. Abbiamo avuto un ottimo colloquio, molto approfondito su tutti gli aspetti della situazione diplomatica. Apprezziamo il fatto che l’Italia sia attiva nella ricerca di idee efficaci e nella definizione di misure per avvicinare la pace», ha dichiarato il presidente ucraino al termine del bilaterale. «Ho informato il presidente del lavoro del nostro team negoziale e del coordinamento diplomatico», ha proseguito Zelensky, per poi aggiungere: «Contiamo molto sul sostegno italiano anche in futuro: è importante per l’Ucraina. Vorrei ringraziare in modo particolare per il pacchetto di sostegno energetico e le attrezzature necessarie».
Sempre ieri, in mattinata, il presidente ucraino è stato ricevuto a Castel Gandolfo da Leone XIV, in quello che è stato il secondo incontro tra i due. «Durante il cordiale colloquio, il quale ha avuto al centro la guerra in Ucraina, il Santo Padre ha ribadito la necessità di continuare il dialogo e rinnovato il pressante auspicio che le iniziative diplomatiche in corso possano portare ad una pace giusta e duratura», recita una nota della Santa Sede. «Inoltre, non è mancato il riferimento alla questione dei prigionieri di guerra e alla necessità di assicurare il ritorno dei bambini ucraini alle loro famiglie», si legge ancora. «L’Ucraina apprezza profondamente tutto il sostegno di Sua Santità Leone XIV e della Santa Sede», ha affermato, dal canto suo, Zelensky. «Durante l’udienza di oggi con Sua Santità, l’ho ringraziato per le sue costanti preghiere a favore dell’Ucraina e del popolo ucraino, nonché per i suoi appelli a favore di una pace giusta. Ho informato il papa degli sforzi diplomatici con gli Stati Uniti per raggiungere la pace. Abbiamo discusso di ulteriori azioni e della mediazione del Vaticano volta a restituire i nostri figli rapiti dalla Russia», ha aggiunto. «Ho invitato il papa a visitare l’Ucraina. Questo sarebbe un forte segnale di sostegno al nostro popolo», ha concluso il presidente ucraino.
Ricordiamo che, lunedì, Zelensky aveva incontrato a Londra Keir Starmer, Emmanuel Macron e Friedrich Merz. Sempre lunedì, il presidente ucraino si era inoltre visto a Bruxelles con il segretario generale della Nato, Mark Rutte, in un meeting a cui avevano partecipato anche il capo della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa.
Il tour europeo del presidente ucraino è avvenuto in un momento particolarmente delicato per lui. Innanzitutto, il diretto interessato è indebolito dallo scandalo che ha recentemente investito Andrii Yermak: proprio ieri, secondo il Kyiv Independent, Zelensky avrebbe individuato la rosa di nomi da cui sceglierà il suo successore come capo dell’Ufficio presidenziale di Kiev (dal direttore dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, al ministro della Difesa, Denys Shmyhal). La caduta di Yermak ha fiaccato il potere negoziale del leader ucraino, mentre da Washington continuano ad arrivare pressioni affinché si tengano presto delle elezioni presidenziali in Ucraina. «Sono sempre pronto alle elezioni», ha detto ieri Zelensky, rispondendo indirettamente a Donald Trump che, parlando con Politico, era tornato a chiedere una nuova consultazione elettorale.
E qui arriviamo al secondo nodo. I rapporti tra Zelensky e la Casa Bianca sono tornati a farsi tesi. Nei giorni scorsi, il presidente americano si è infatti detto «deluso» dall’omologo ucraino. «Devo dire che sono un po’ deluso dal fatto che il presidente Zelensky non abbia ancora letto la proposta di pace, era solo poche ore fa», aveva detto Trump. A questo si aggiunga che, sempre negli ultimi giorni, l’inquilino della Casa Bianca ha criticato notevolmente l’Europa. «L’Europa non sta facendo un buon lavoro sotto molti aspetti», ha per esempio affermato nella sua recente intervista a Politico. Se da una parte cerca la sponda europea come copertura politica davanti alle tensioni tra Kiev e Washington, Zelensky non può però al contempo ignorare le fibrillazioni che si registrano tra gli Stati Uniti e il Vecchio Continente. È quindi probabilmente anche in questo senso che va letta la visita romana del presidente ucraino. In altre parole, non si può escludere che Zelensky punti a far leva sui solidi rapporti che intercorrono tra Trump e la Meloni per cercare di riportare (almeno in parte) il sereno nelle sue relazioni con la Casa Bianca. In tal senso, non va trascurato l’impegno profuso dall’inquilina di Palazzo Chigi volto a preservare la stabilità dei legami transatlantici: un impegno che la Meloni ha sempre portato avanti in netto contrasto con la linea di Macron.
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