2019-09-11
La faccia tosta del premier: «Il vero trasformista è chi ha lasciato il governo»
La replica del presidente del Consiglio è ancora un'accusa agli ex alleati: «Volevate prendere i pieni poteri e chiunque vi ha ostacolato è diventato un vostro nemico».Volto tirato, fronte corrugata, qualche tic di troppo. Giuseppe Conte sapeva che la traversata a Palazzo Madama non sarebbe stata agevole come quella alla Camera. Sui banchi dell'opposizione, il giorno della fiducia, stavolta c'è l'ormai arcirivale: Matteo Salvini. Il cerbero che, nei 14 mesi di governo gialloblù, l'ha offuscato. Costringendolo a mortificare il suo innato doroteismo. Il dialogo a distanza tra il leader della Lega e il redivivo premier non è stato un duello tra fiorettisti. Ma uno scontro all'alba nella brughiera.Schiena contro schiena, le armi strette in mano, dieci passi in avanti, giravolta e poi fuoco. Bum! Con Salvini che spara per primo: poltronista, subalterno all'Europa, uomo senza stile. «Giuseppi» siede sullo scranno, apparentemente imperturbabile. Ma il suo sangue democristiano ribolle. Sono da poco passate le 16 quando riprende la parola. Adesso tocca a lui svuotare il caricatore. All'armi, Matteo. Il primo assalto è indiretto: «Dobbiamo fare di tutto per poter realizzare le riforme che stanno a cuore al Paese». Ovvero, il taglio dei parlamentari e la riforma elettorale. L'uno-due che piegherebbe, guarda un po', la Lega. A cui, con nonchalance, chiede però supporto.Ora è giunto il momento. Affondare il colpo contro il machiavellico Salvini. Che, ottenute le elezioni, avrebbe dato vita al suo disegno eversivo: «Se quello di assumere pieni poteri era lo schema, è comprensibile che chiunque l'abbia ostacolato sia diventato un nemico». Capito l'antifona? Il sublime ribaltamento di prospettiva? Il premier rimarca scorato: «Gli amici di ieri, gli interpreti del cambiamento, non diventano avversari ma nemici». Così non va, ammonisce l'avvocato del popolo. Piuttosto che urlare all'inciucio e pensare a riempire le piazze, il leader della Lega dovrebbe avere un atteggiamento più consono. Sedere placidamente all'opposizione e aspettare paziente il suo turno. E nel mentre, magari, votare le mirabolanti riforme giallorosse. Invece il Capitano s'è impermalosito. «Assegnare ad altri le proprie colpe», insegna Conte, «è il percorso più lineare per essere deresponsabilizzati a vita». L'ex alleato vuole solo conservare «la leadership del proprio partito». L'usuale aggiustatina al microfono segue la stoccata seguente: «Poi, con calma, spiegherete al Paese che cosa ci sia di dignitoso in tutti i repentini voltafaccia che ci sono stati in poche settimane». E qui, urge riassunto delle puntate agostane. Salvini, stufo di liti e dissapori, e magari con discutibile tempismo, sceglie di staccare la spina al governo gialloblù. Spera, povero illuso, di andare al voto. E magari, come il più spietato dei tiranni, vincere le elezioni. Invece no. Gli ex alleati grillini si alleano con il rivale di sempre. Quello insultato per lustri: il Pd. Niente paura, però. A far da garante, c'è sempre lui: l'ineffabile Conte. Che adesso taccia i leghisti «di repentini voltafaccia». Ardito. Ma, come scriveva il politico tedesco Otto von Bismarck, «la politica è l'arte del possibile, la scienza del relativo». Più prosaicamente: vale tutto. Così il premier può avventurarsi a sostenere che «la polemica contro il governo arriva da chi è rimasto fermo all'8 agosto, quando con arroganza ha ritenuto di provocare una crisi». Tra l'altro, affonda dall'alto del suo cursus honorum, «con scarse cognizioni di diritto costituzionale». E qui il professore ha ragione da vendere. Prima di fargli le bucce, pensino a studiare. Prendano esempio dai suoi pupilli pentastellati. Dal leader del partito di maggioranza, per esempio: Luigi Di Maio. Diventato ministro degli Esteri con un curriculum non proprio da accademico dei Lincei. E, bontà sua, senza masticare una parola d'inglese. Invece quel ciuccio di Salvini «ha ritenuto di poter unilateralmente portare a elezioni il Paese». E da ministro dell'Interno, persino. In modo da «concentrare definitivamente tutti i pieni poteri su di sé». Peggio di un caudillo sudamericano. Uno spregiudicato dittatore, che aveva escogitato il più diabolico dei piani: andare alle elezioni. Far votare gli italiani. E adesso, proprio colui che ha sventato il colpo di Stato, diventa un avversario da abbattere. Il premier non ci sta a venir sepolto da gratuite maldicenze: «La dignità non può essere riconosciuta o meno a seconda che lavori al vostro fianco o meno». Ma come osano attaccarlo solo per aver cambiato gabbana? Inconcepibile. «Ero l'alfiere degli interessi nazionali fino a ieri», rimarca l'incredulo. «Oggi scopro che non lo sono mai stato. La dignità mi può derivare solo dal fatto di servire con disciplina, onore, massimo sforzo e determinazione gli interessi del mio paese». Dai banchi dell'opposizione quei maramaldi dei leghisti però urlano: «Dignità! Dignità!». Battono le mani sui banchi. Non smettono di rumoreggiare. Il premier li guarda infastidito. Lui non ci casca. Ha tutt'altro stile. Veste sartoriale. Parla «accademese». Rievoca i padri della patria. Urlino quanto vogliono. Lui l'ha già chiarito con un'azzeccata metafora: «La lingua del governo sarà mite». Intanto, il resto del corpo resta selvaggiamente attaccato alla poltrona.